Igino Piutti
Cap. 1
Lauriscia.
Il racconto lo
aveva così coinvolto che gli pareva di avere ancora davanti agli occhi, il grande falò del quale stava parlando
Maria.
Era una sorta di grande bottiglia impagliata,
con grandi trecce verticali che si interrompevano in alto sul collo per
lasciare posto ad un grande tappo con la forma del mezzobusto di un uomo. Le
trecce erano formate con una serie di fascine di stecchi sovrapposte, mentre il
busto in cima era realizzato con strisce di corteccia d’albero sovrapposte,
incollate ed intrecciate, alternando il bianco della betulla al colore
bruciato della quercia, per rendere e
caratterizzare i particolari del volto e del vestito.
Fra treccia e treccia,
stavano uscendo dense nuvole di fumo squarciate da grandi lingue di fuoco che
salivano contro le ombre della sera, avvolgendo l’intera costruzione.
In un gemito
strozzato, erano finite per spegnersi, soffocate dal fumo, anche le grida
disperate di paura e di dolore di
Lauriscia e del suo ragazzo. E il silenzio del falò, rotto soltanto dal
crepitio del fuoco, aveva penetrato anche la folla circostante. Ora guardavano
tutti in silenzio, come se l’arrivo della morte avesse infuso in tutti se non un sentimento di rispetto e di
pietà, certamente un brivido di paura.
“Che barbarie!”
mormorò Maria tra sé, chiudendo con questo commento il suo racconto.
“Direi invece, che
grande raffinatezza e sensibilità anche nell’eseguire una condanna a morte,”
ribatté Luciano, come se stesse commentando una scena realmente accaduta e non
il racconto d’un sogno. Era stato
colpito dall’originalità dell’idea d’un rogo, nel quale i condannati a
morte, venivano rinchiusi all’interno d’una catasta di legna, invece che essere
esposti al ludibrio della folla. Rispetto ai tanti roghi che la storia ha
tramandato (con la pretesa di farli passare per
segni di civiltà e non di barbarie), accompagnati da folle urlanti
inebriate dagli spasimi della morte, quell’idea di riservatezza e di rispetto
per la morte, anche d’un condannato, non gli sembrava certo una testimonianza
di barbarie.
“Mi sono svegliata
avendo negli occhi ancora l’immagine del grande falò che ardeva, al culmine del
colle. Nella realtà invece, al posto del falò, c’era ancora il grande faggio
dalla corteccia chiara, che riluceva riflettendo i raggi del sole.”
“Già!” riprese
Luciano, come a sottolineare con quella
espressione il proprio disappunto per essersi lasciato coinvolgere fino a
perdersi a commentare le immagini di un sogno, come quando si commentano le
sequenze d’un film, finendo per confondere la realtà con la finzione scenica.
“Già! Che strano
sogno!”
“È stato più che
un sogno,” ribattè lei.
“Cosa potrebbe
essere più di un sogno?…”
Era tutto accaduto
per caso il giorno prima. Maria aveva deciso di fare una passeggiata nel bosco
sopra al paese, per raccogliere del terriccio per rinvasare i gerani. Glielo
aveva insegnato sua nonna. Non c’è nulla di meglio dell’humus che si è formato
dal fogliame marcito negli anni precedenti, per favorire una crescita dei fiori
più rigogliosa e con i colori più intensi. E i suoi gerani erano i più belli di
tutto il borgo.
C’era in effetti
in paese una sorta di gara a chi sapeva far crescere i fiori più belli, a chi
sapeva arredare meglio, con autentiche cascate di colori, l’esterno della
propria abitazione. E Maria, in quella gara, non aveva rivali, era da sempre un
campione fuori classifica. Aveva certamente il vantaggio del contesto
costituito dalla bellezza della sua
casa, una tipica casa carnica del settecento, ma lei aveva anche trovato il
modo per far sì che le piante si
sviluppassero maggiormente e che i fiori avessero colori più vivaci. Sapeva
inoltre accostare la diversità dei gerani e la varietà dei colori in modo che
quelle macchie di rosso dalle diverse sfumature, non parevano
aggiunte e posticce sulla parete, ma sembravano un modo di essere naturale del muro della casa nel sole dell’estate.
La balconata
centrale, al primo piano, divisa in quattro arcate con gli archi e le colonne
in tufo, pareva una serra dalla quale i fiori prorompevano per sciogliersi in
lunghe trecce che cadevano fino al piano inferiore, dove il motivo delle
quattro arcate si ripeteva con le colonne a campire un profondo porticato. E
qui, l’intrico colorato dei gerani invadeva tutto il sottoportico, e nel gioco
del sole con la penombra dell’ambiente e con l’ombra delle colonne, assumeva un
infinita varietà di sfumature e di movimenti. Nella vita di quelle piante
sembrava riprendere vita anche la vecchia casa, che in passato aveva raccolto e
riecheggiato le voci di tante persone, ed ora pareva deserta. Ora c’era solo
Maria che, travolta dall’atmosfera greve del silenzio, cercava di riempire il
vuoto delle arcate con quelle nuvole di
fiori...
Fino ad un anno
prima c’era stato anche il fratello. E con il fratello la casa era tutt’altro
che vuota. Anzi, pareva che fosse così
grande, solo perché lui aveva bisogno di quegli spazi dilatati e ariosi per
potersi muovere a suo agio. Il conte lo
chiamavano in paese. Il “cont” nella lingua friulana. Così era stato chiamato
anche suo padre e suo nonno, e forse in passato qualcuno degli antenati era
stato veramente un conte. Il fratello di
Maria tuttavia, se non era stato un conte per gli archivi araldici, lo era
stato di fatto per i modi di comportarsi, di fare e di dire. Era come se avesse
accettato volentieri di cucirsi addosso quel soprannome, facendo in modo di adeguarvisi, per portarlo come si
conveniva.
Diventato medico,
e poi primario rispettato e famoso all’ospedale di Udine, aveva fuso gli
atteggiamenti del barone d’ospedale con
quelli del conte, assumendo quell’atteggiamento di superiorità che lungi dal
provocare e creare distacco, enfatizza nei subalterni il rapporto di stima e di
fiducia.
Maria, che era
soltanto di due anni più giovane di lui, aveva subito sin da bambina il suo
fascino. Non erano mai stati come fratello e sorella ma piuttosto in un
rapporto di serva e di padrone. Lui però non s’imponeva e lei non subiva. Non
si sentiva condizionata, ma in un certo modo affascinata e attratta dalla
personalità del fratello, al punto da restargli legata per la vita. Lui non
s’era sposato, e a lei non era mai passato neppure per la testa ci potesse
essere un possibilità di realizzare una
propria vita, al di fuori del rapporto con il fratello.
Per questo, con
la morte di lui era morta anche lei, e
la casa era rimasta profondamente vuota, come un cimitero che é pieno di
lapidi, di croci, di piante e di fiori, ma che non trasmette altra sensazione
se non quella del vuoto e del nulla. E come in un cimitero, lei s’era
impegnata, ancora più degli anni precedenti, a riempire quel vuoto con vasi di
fiori, con nuvole di gerani.
Ma il vuoto
restava immenso e profondo malgrado quei fiori e penetrava anche l’intrico di
rami dei gerani, e lei aveva bisogno di altri vasi, di altri fiori. Per questo
aveva deciso di salire nel bosco del Sorantri, sopra al paese, per raccogliere
quella terra speciale per altri vasi di gerani.
Visto dal paese,
Sorantri è uno sperone di roccia che sovrasta l’abitato, come una lastra di
marmo verticale, rimasta incastonata nel verde dei prati e dei boschi. Da sopra
invece, quando lo si è raggiunto per la strada lastricata che sale ripida sul
pendio, è una piccola montagna che s’avanza come il torrione d’una cinta
muraria, che si sporge rispetto al contesto circostante quasi a proteggere le
distese retrostanti dei prati di Valdìe.
Si dice che nell’antichità sul monte ci
sia stato un insediamento dei Celti, la
sovrintendenza ha anche effettuato degli scavi che hanno messo in luce i resti
d’un villaggio. Come in ogni favola che si rispetti, tutti danno anche per
certo che, tra i resti delle capanne, ci sia anche un tesoro.
Da qui le battute con le quali alle volte le
amiche commentavano il suo inventarsi sempre qualche scusa per raggiungere quel
bosco. “Speriamo che finalmente ti capiti tra le mani quella pentola di monete
d’oro,” le dicevano scherzando.
Mentre davanti si presenta compatto, come
una lastra di marmo a strapiombo, da sopra, il monte Sorantri appare piuttosto
un ammasso detritico. Forse la lingua del ghiacciaio che nella preistoria
scendeva dalle alte montagne
retrostanti, s’era scontrata con uno spuntone di roccia troppo
resistente, e vi aveva depositato attorno, in un cumulo, i massi che aveva
trascinato a valle. Così si poteva spiegare anche l’originalità di quella
parete rocciosa, che emergeva verticale in contrasto con le forme morbide e rotondeggianti del monte.
Ma, se in qualche modo era riuscita a
darsi delle spiegazioni sulla originale conformazione del terreno, non riusciva
invece a spiegarsi l’attrazione che sentiva per quel luogo. Avevano ragione le
amiche, trovava sempre un motivo diverso per recarvisi. Ora era la terra per i
gerani, altre volte i funghi, o semplicemente il desiderio d’una passeggiata, e
in nessun altro luogo si sentiva di camminare a suo agio come nel bosco del
Sorantri.
Era forse il fatto che da lassù si dominava
tutta la valle del Tagliamento, con il fiume che la segnalava insinuandosi tra monte e monte, per perdersi in una fuga
di quinte di verde che sembrava senza fine. Era forse l’atmosfera creata dal
bosco che dai prati di Valdie, saliva lentamente fino a fare da cornice allo
strapiombo dei “cretòns”, come veniva chiamato la roccia a strapiombo. Era forse l’idea
dell’insediamento celtico, nella suggestione che suscitva il pensiero che su
quei sassi sui quali posava i piedi,
altri aveva posato i suoi, già tante centinaia d’anni prima.
O erano forse tutte queste cose assieme.
Tant’è che sul Sorantri lei ci andava spesso, ed anche quel giorno aveva deciso
di tornarvi.
La giornata era
afosa ed entrando nel fitto del bosco d’abeti, aveva sentito per contrasto come
un brivido di freddo. O di paura?... Perché avrebbe dovuto avere paura, in un bosco
vicino a casa, nel quale era già stata infinite volte? Eppure in quel brivido
aveva provato la sensazione che quello era un giorno diverso, che il bosco era
diverso, che l’aria che muoveva le fronde era diversa. Stranamente, notò, non si sentiva nessun
canto d’uccello!...
Ma forse a quell’ora, (era ormai quasi
mezzogiorno), era normale che gli uccelli non cantassero. Le altre volte
probabilmente non ci aveva fatto caso.
Proseguì, riflettendo sulla stranezza dei pensieri che le stavano attraversando
la mente. A sessant’anni paura del bosco!... Come quando bambina vi andava con
la mamma, e la faceva sussultare un frusciare insolito delle fronde, o
il rumore d’un ramo che si rompeva all’improvviso...
Salendo, il bosco d’abeti lasciava il
posto a quello di faggi. Prima il sole non riusciva a penetrare il fitto
intrico dei rami delle conifere. Ora, nell’ordito con trame più larghe dei rami
dei faggi, filatrava a tratti, macchiando il terreno e il tronco degli alberi, con chiazze di luce
intensa, in forte contrasto con l’ombra del bosco. Si intravedeva distintamente
tra il fogliame la traccia della strada lastricata che a tornanti saliva la
china. Sulla cima della montagna la vegetazione diradava ancora, e il sole
entrava con forza tra gli alberi, che disegnavano esili
ombre. Tra la vegetazione più rada si distinguevano nettamente quelli
che, nell’interpretazione comune, avrebbero dovuto essere i resti
dell’insediamento celtico.
Si vedevano dei cumuli di macerie, come se costruzioni di pietra a
forma di trullo, fossero crollate su se stesse, oppure si distinguevano dei
muretti a secco di forma circolare, come
se l’abitazione avesse avuto soltanto le fondamenta di pietra e il resto della
costruzione, di legno o d’altro materiale deperibile, si fosse dissolto nel
tempo.
Si era seduta su uno di quei muretti,
affaticata e stanca più di quanto la salita, nè lunga nè difficile, potesse
giustificare. D’un tratto s’era sentita presa da un senso di vertigine ed ebbe
la sensazione di stare per svenire. Fu
distolta dalla preoccupazione per quel
che le stava accadendo, colpita
dall’originalità dell’immagine del tronco
d’un faggio, in alto, proprio sulla cima del colle, immerso in una
chiazza della luce intensa del sole d’agosto. Il legno più bianco degli altri,
come fosse il tronco d’una betulla, pareva risplendere, riflettendo la luce del
sole.. Si sentì mancare di nuovo, e allora il tronco più bianco degli altri
prese ad animarsi ed a muoversi come fosse stato di nebbia, per trasformarsi
poi, modellandosi lentamente, in una figura umana.
Era una giovane donna, vestita d’una
sorta di camice bianco, e con lei, come in un sogno, s’era vista intrattenersi
a parlare, come avrebbe fatto con una donna qualsiasi incontrata per caso nel
bosco.
“Era da tempo,” diceva la ragazza vestita
di bianco, “che attendevo qualcuno che mi riportasse a vivere nel suo pensiero.
“Come, a rivivere nel pensiero?” aveva
mormorato lei, imbarazzata per la confidenza con la quale le si rivolgeva
quella strana ragazza, comparsa all’improvviso nel bosco, e per la stranezza
dell’affermazione con la quale si era presentata. La scrutò con più attenzione,
sforzandosi di cercare nella memoria se
le ricordasse qualcuno. Ma invano. Aveva i capelli biondi che le scendevano
lunghi sulle spalle. Pallido il viso
come segnato da una grave malattia, con due profondi occhi azzurri. L’idea
della malattia era confermata da quel camice bianco che la ricopriva tutta, non
lasciando uscire neppure le mani ed i piedi. Non era però un camice di stoffa,
sotto il quale si potesse immaginare un corpo, pareva piuttosto che il camice fosse il corpo, come
se la stoffa dell’abito e il corpo si
fossero fusi assieme.
Sorrise. Un sorriso amaro, forzato, come
quello dell’ammalato quando sorride per compiacere il visitatore, che ha
cercato di dire una battuta di spirito.
“Da tempo attendevo di poter rivivere con
qualcuno la mia morte, per ritrovare pace nell’eternità”.
Rivivere nel pensiero!. Rivivere la
morte! Era per lei un linguaggio incomprensibile. Avrebbe dovuto chiedere
spiegazioni, ma poi aveva pensato che avrebbe potuto capire qualcosa di più, se
fosse riuscita ad inquadrare l’immagine
della donna che le stava parlando.
“Chi sei?” le chiese.
Non rispose direttamente, ma prese a
raccontare la sua vita. Attraverso le sua parole, lei aveva avuto la sensazione
di poter entrare, come per magia, nel suo pensiero, ed attraverso il pensiero
rivivere quello che raccontava. Attorno a lei infatti non c’erano più i ruderi
ma c’era veramente il villaggio dei
Celti.
Come aveva
sospettato guardando altre volte i resti dell’insediamento celtico sul
Sorantri, attorno a lei c’erano delle capanne interamente di pietra come dei
trulli, altre avevano la stessa forma, ma erano
di legno ed avevano in pietra soltanto la base. Le prime, le fu
spiegato, erano per i nobili guerrieri le altre per la gente comune. Sembravano disposte senza un ordine ben
preciso, a gradoni, dall’orlo dello strapiombo dei “cretons” fino su, alla cima
del monte, dove aveva visto l’albero
bianco. Tutte avevano la porta rivolta
ad ovest, verso la montagna, e di fronte ad est, avevano invece in alto una piccola
finestrella dalla quale usciva il fumo del focolare, come si vede ancora nelle
casere d’alta montagna.
“La nostra religione”, aveva preso a dire
la donna vestita di bianco, “prescriveva che ogni famiglia sacrificasse a
Beleno, (così chiamavamo il sole che
adoravamo come Dio) la prima figlia”. Poi, o che avesse voluto andar oltre la
parte più dolorosa del proprio ricordo, o che avesse pensato che l’interlocutrice
non poteva seguirla, senza un minimo di contesto e di inquadramento storico,
s’arrestò un momento per poi cambiare
discorso.
“Come vedi,” riprese “ogni capanna ha una
finestrella nella stessa posizione e nella stessa direzione. Serve a lasciare
uscire il fumo del focolare, ma soprattutto serve a lasciare entrare, in tutte
le abitazioni, allo stesso momento, il primo raggio del sole, quando alla mattina scende dal monte. Attorno a quel raggio, la
famiglia si ritrova ogni giorno in preghiera, prima di iniziare la giornata. I
giorni nei quali il sole resta coperto dalle nubi, lo si prega immaginandolo
presente, come se il raggio entrasse egualmente.
“Bella l’idea del sole che entra
contemporaneamente in tutte le case,” l’aveva interrotta lei, “ma cosa voleva
dire, sacrificare la prima figlia?” aveva aggiunto, turbata da quell’accenno a
sacrifici umani.
“Vedi laggiù”, aveva continuato
l’apparizione, come se non avesse sentito la domanda “sull’orlo dello
strapiombo, la prima capanna in muratura... Ha la porta come tutte le altre, ma
sull’altra parete, verso il vuoto,
invece della finestra ha un’altra porta. Da lì ogni mattina il
Druido, (così chiamavamo il sacerdote
del Dio Beleno), guardava sorgere il sole. Per i comuni mortali, sarebbe stato sacrilego
guardare il sole mentre sorgeva, spogliandosi dei vapori della notte, lo
dovevamo ricevere nelle nostre capanne, quando vi entrava dalla finestra. O, se
eravamo in viaggio, lo dovevano ricevere
nel bosco, quando aprendosi un pertugio tra le fronde degli alberi, riusciva a
filtrare illuminando con i suoi raggi,
una chiazza del terreno.
Il Druido invece lo guardava dalla porta
che dava sullo strapiombo, e lo stavamo a sentire incantati quando ci
raccontava che lo si vedeva salire con la velocità del lampo, come una lama d’argento sulla corrente del
fiume, per poi balzare invece, quando sembrava dovesse raggiungere la nostra
valle, sulla cima del monte dietro al villaggio e da lì scendeva rapido, come
una tendina di luce che pulisce e dissipa l’ultimo velo della notte. Al Druido
soltanto era permesso vederlo, ed anche alle Laurisce le ragazze che si
sacrificavano a lui, il giorno del sacrificio, prima di lasciarsi cadere nel vuoto, in suo onore, al compimento del
sedicesimo anno.
Pur nel riserbo con il quale s’esprimeva
la ragazza, a proposito del sacrificio
di queste Laurisce, a Maria pareva d’aver capito di cosa si trattasse e non riuscì a trattenersi dall’esclamare:
“ Come é possibile, una idea così barbara
e crudele, in nome d’un Dio e d’una religione”.
“ Non so, forse le credenze religiose hanno giustificazioni
più profonde legate alla storia dei singoli popoli… Forse era un caso infatti,
ma questa usanza faceva in modo che ci fosse un equilibrio nel villaggio tra
maschi e femmine, e questo consentiva di mantenere la pace interna e di
garantire lo sviluppo dell’insediamento. C’era quindi indubbiamente un motivo e
un motivo anche profondo, ma a me, a dir il vero, le ragioni più o meno
profonde interessavano ben poco. Come avrai capito, io ero la primogenita della
mia famiglia, ero una Lauriscia. Da quando bambina avevo cominciato a capire
che cosa fosse la vita e la morte, io sapevo che sarei dovuta morire al
compimento del sedicesimo anno, perché questo comandava la nostra religione”.
“E’ assurdo!”
“Meno di quanto sembri, purtroppo, perché
é assurdo solo ciò che è eccezionale, quando una cosa anche la più illogica,
diventa consuetudine, perde ogni carattere di stranezza e viene accettata come
normale. Non ero sola, eravamo in tante. Era quindi normale che ci fosse nel
villaggio un gruppo di ragazze diverse
dalle altre, le une destinate a produrre figli, le altre destinate alla
divinità”.
“Ma come si può vivere pensando di dover
morire?”
Sorrise. “In effetti è la condizione
normale per l’uomo, quella di dover morire. Ma il fatto di non conoscere il
giorno e l’ora, fa sì che l’uomo possa
vivere nella presunzione d’essere eterno, dimenticandosi persino della
possibilità della morte. Per noi era diverso. Sapevamo che all’alba del giorno
del nostro sedicesimo compleanno, avremmo dovuto rinunciare a vivere,
lasciandoci cadere dal Sorantri...”
Si fermò come se stesse ripensando alle
ultime parole che aveva detto, e infatti riprese poi a parlare, tornando sullo
stesso concetto: “O meglio, avremmo dovuto cominciare a vivere, perché sapevamo
che l’anima è immortale e che la morte ci apre le porte dell’eternità. Questa
fede nell’immortalità dell’anima, giustificava e dava un senso anche al nostro
sacrificio. O almeno avrebbe dovuto…”
Il cerimoniale prevedeva, aveva
continuato a raccontare la Lauriscia, che alla sera precedente la ragazza
venisse portata nella capanna del Druido, sigillando la porta in modo che non
potesse uscire se non attraverso il precipizio. Al posto del sacerdote, il giorno
dopo avrebbe guardato sorgere il sole, e quando l’avesse visto venirle incontro nella lama d’argento sul fiume,
avrebbe dovuto correre verso di lui, lanciandosi nel vuoto. Il suo spirito
sarebbe stato allora accolto dal Dio nella schiera delle sue angeli-valchirie,
mentre il corpo si sarebbe disperso nel prato di Lauriscè. Così si chiamava (e
si chiama ancora!) il prato ai piedi del precipizio, al quale a nessun essere
umano, era permesso di avvicinarsi.
“Ma come potevate vivere sapendo che
incombeva su voi questo destino?”.
“A dir il vero, invece, non vivevamo male. Eravamo delle
privilegiate. Le nostre sorelle più piccole dovevano imparare a raccogliere la
legna e i frutti del bosco, a portare al pascolo le greggi ed a cucinare la carne.
Erano spesso punite. A noi era consentito ogni capriccio. Eravamo consacrate al
Dio, nessuno ci poteva offendere, nessuno ci poteva costringere a fare
qualcosa, eravamo libere di vivere a nostro piacimento...
“Per dover morire!”
“Come le altre. Come tutti. Il destino ha
tuttavia fatto un dono all’uomo, quello di non poter conoscere l’ora della
propria morte. A noi il Dio aveva sottratto anche questo dono...Così pensavo
io, bestemmiando. Quello che ci era stato insegnato invece era diverso: nella
morte, rinunciando al corpo, l’uomo conquista la possibilità di vivere nella
felicità della luce”
“Che barbarie
comunque costringere al sacrificio una ragazza!” aveva commentato lei.
“Anch’io pensavo
così non riuscendo a capire le motivazioni profonde delle tradizioni della mia
gente. Ma sbagliavo...”
“Come sbagliavi?”
“Se te lo dico io
che ero una Lauriscia! Sbagliavo, non credendo alla possibilità della vita
eterna. In fondo è tutta qui la chiave del problema della vita. Quando io
pensavo che a noi Laurisce era stato tolto
anche il dono di non sapere il momento della morte, consideravo evidentemente
la morte una disgrazia: la perdita della vita. Ma se la mortalità per l’uomo è
uno stato d’attesa dell’immortalità, porre fine anticipatamente all’attesa, non
può essere considerata una disgrazia, non può essere un danno.”
“Sul piano
filosofico...”
“Nella realtà.
Perchè ci ostiniamo a confondere il giorno con la notte. Viviamo la notte della
vita come animali notturni che temono l’arrivo del giorno. Arriviamo a
pensare sia terribile conoscere l’ora
dell’alba.”
“Ma resta comunque l’assurdo, rilevato anche
da te, che nei confronti della divinità non ha senso sacrificare animali, e
tanto meno giovani donne.”
“Il sacrificio
però non è il gesto rituale del sacerdote che brucia l’animale,( ora lo so), ma
il gesto dell’individuo che ha rinunciato a qualcosa a favore della divinità.
La rinuncia fa sorgere e stabilisce un rapporto spirituale, e quindi diventa
una preghiera. È il sacrificio della rinuncia che sale a Dio, non certo il fumo
dell’animale che brucia. Il rito, evidenzia il trasformarsi della rinuncia in
preghiera...”
“Non ci avevo
pensato... ma comunque, i sacrifici umani...”
“Sono meno
incomprensibili di quanto possa sembrare. Noi credevamo al rapporto individuale
dell’uomo con Dio. L’individuo trova Dio dentro di sé e quindi non ha bisogno
di segni esteriori per parlare con Dio. Portando alle estreme conseguenze il
concetto, la religione impediva che si esteriorizzasse nella scrittura,
qualsiasi cosa avesse a che vedere con la divinità.
I Druidi giovani imparavano a memoria dai
vecchi tutto quello che riguardava il rituale, e le più belle preghiere che i
profeti del passato erano stati capaci di inventare. La mente del Druido
diventava il vero libro di preghiere, ed anche noi Laurisce imparavamo dai
Druidi. La nostra mente diventava il libro delle preghiere e delle invocazioni
della nostra comunità. A noi, alla nostra mente che si librava
nell’immortalità, era affidato il compito di portare alla divinità la preghiera
della nostra comunità...”
“Ma quindi, anche tu sei finita nel campo
di Lauriscé?”.
“No, avevo trasgredito alla prima regola
della vita delle primogenite. Nella notte dei tempi, Dio aveva ordinato al
primo della nostra stirpe: le prime figlie non conosceranno uomo perché saranno
mie. Io invece avevo conosciuto un ragazzo. Con lui avevo conosciuto il piacere
del corpo. E non riuscivo più ad
accettare l’idea che avrei dovuto rinunciarvi senza motivo, per lasciarlo
sfracellare sulle rocce dei “cretòns”.
“No! Durante la notte del sacrificio sono
scappata. Non avevo paura del vuoto, non avevo paura della morte. Ero soltanto
irritata per il nonsenso di quel gesto: un Dio non sa che farsene del corpo
d’una giovane donna, pensavo, mentre il mio ragazzo sapeva come farlo fremere e
vibrare di vita. E volli ribellarmi. Già un’altra, alcuni anni prima l’aveva
fatto. Sapevo come sarei potuta finire. Ma il mio ragazzo aveva condiviso ed
spronato la mia decisione. Forse in due, pensavamo, ce l’avremmo fatta a
salvarci. Fu lui che mi aprì la porta della capanna del sacrificio, e fuggimmo
insieme...”
“Ero sicura che sarei stata più furba
dell’altra Lauriscia, e non mi sarei lasciata riprendere. Certo! Avremmo dovuto
vivere, come degli animali, lontano da tutti i villaggi, perché ovunque ed a
tutti sarebbe stato comunicato il sacrilegio
che avevamo commesso. Eppure, anche soltanto come bestie, ci dicevamo, è
sempre meglio essere che non essere. Anche il mio ragazzo, come me, non credeva
più alla felicità della luce eterna! Anche il mio ragazzo, con me e per colpa
mia, aveva confuso la notte con il giorno!...
E invece ci hanno trovato, e ricondotti
al villaggio”.
Appena il Druido s’era accorto al mattino che
i sigilli erano stata strappati, aveva dato l’allarme, e tutto il villaggio era
corso a cercarli. L’avevano trovata dopo due giorni, e l’avevano bruciata viva,
come diceva la loro legge, sul punto più alto del monte Sorantri, per espiare
nel fuoco il sacrilegio che aveva
commesso.
“Ogni capanna
dovette portare una fascina di legna, attorno al palo che era stato conficcato
al culmine del monte, e si fece così un rogo, a forma di “mede”, i covoni di
fieno che si vedono sui prati di montagna. Fummo legati al “medìli”, il palo
centrale, e sopra di noi furono poste le fascine, accatastate le une sulle
altre come trecce d’una grande bottiglia impagliata, in modo che fossimo cancellati dalla vista della
gente del villaggio. Poi quando avevano cominciato a scendere dal monte le
prime ombre della notte, il Druido aveva appiccato il fuoco.
Mi pare ancora di
sentire il crepitare delle fiamme e le urla di paura e di dolore del mio
ragazzo, sento ancora l’acre odore del fumo che mi toglie il respiro, e le
grida della folla, e poi il silenzio...Sono rivissuta e morta in tanti alberi
cresciuti e morti, a partire dalle ceneri del falò, che aveva arso per tutta la
notte sulla cima del monte, prima di trovare qualcuno cui poter raccontare la
mia storia, per potermi purificare nel racconto.”
“Che barbarie!”
aveva mormorato lei, e su questa parola si era riscossa. “Che barbarie” aveva
ripetuto da sveglia, guardandosi attorno, stupita del sogno così strano che aveva fatto, riprendendosi a
fatica, come se il fumo del rogo avesse fatto perdere i sensi anche a lei.
Stupita guardava
all’albero in alto immerso nel sole, ed al suo posto vedeva ancora, come nel
sogno, il rogo. E i riflessi del sole, erano i riflessi delle lingue di fuoco,
e il silenzio assoluto del mezzogiorno d’agosto sul Sorantri, era il silenzio
che si era formato attorno alla morte, quando era entrata nel rogo.
Cap. 2.
I celti.
Che fosse qualcosa di più e di diverso da un
sogno, l’aveva subito pensato. Per come
s’era addormentata, per la vivezza del ricordo, che le si era impresso nella
mente anche nei dettagli più secondari, per le parole che ricordava, alla
lettera, come una poesia mandata a memoria
Se avesse raccontato a qualche amica ciò che le era capitato, l’avrebbe presa in
giro chissà per quanto tempo. Capitato? Vissuto? O solo sognato? Non riusciva
veramente a rendersi conto, non si
ricordava mai dei sogni. Aveva letto che tutti sognano, ma mentre sua fratello
alla mattina le raccontava fin nei minimi particolari le vicende che aveva
vissuto durante la notte, lei non si
ricordava mai neppure d’aver sognato. A volte sì, aveva qualche ricordo, ma più
che altro una sensazione, piuttosto che una precisa memoria di aver vissuto dormendo una qualche
situazione.
E invece, del sogno fatto mentre s’era
appisolata sul Sorantri, ricordava tutto, nei dettagli meno rilevanti. Non solo
ricordava come si erano svolti i fatti, ma anche le sensazioni e le emozioni
provate. Era come se veramente avesse vissuto l’incontro con Lauriscia.
Con le amiche, no, non poteva parlare,
anche perché non l’avrebbero capita. Ce n’era una con la quale andava
perfettamente d’accordo, che la veniva ad aiutare per casa, che, dopo la morte
del fratello, s’era fermata più volte a farle compagnia anche la notte. Tra
loro sembrava ci fosse una intesa perfetta.
Ma era l’intesa sul come organizzarsi per stare assieme, l’intesa sul
piano delle sensazioni e delle emozioni. L’intesa dei sentimenti era un’altra
cosa. Questa intesa Maria s’era abituata a trovarla con sé, ad affinare e
sublimare nel confronto con se stessa il proprio pensiero, e così non aveva mai
avuto bisogno di parlare di sé con gli altri, e neppure con il fratello.
Ma questa volta
era diverso! Questa volta sentiva l’urgenza e la necessità di parlare con
qualcuno, di confidare ad altri quello che aveva visto, o creduto di vedere, sentito,
a creduto di sentire. Ma con chi? La gente del paese la considerava già poco a
posto, così sola in quella grande casa, tutta presa tra libri e fiori. Con il
vecchio parroco? Nella migliore delle ipotesi l’avrebbe consigliata a far dire
una messa per quell’anima dannata, con quel nome così strano, e così poco
cristiano…
Il gioco delle
coincidenze aveva voluto che proprio
quel giorno fosse passato a farle visita lui, Luciano. Maria lo conosceva da molto tempo. Era stato un amico di
famiglia ed era diventato un suo amico. Era stato l’assistente di suo fratello,
quando faceva il primario in
ospedale. Morto l’amico, Luciano aveva
mantenuto il rapporto con la sorella, alla quale faceva visita spesso. Si
fermava con lei a pranzo o a cena, e finivano sempre a parlare di quando c’era
anche “lui”, di come era morto, ancor troppo giovane in un incidente d’auto, di
come era bravo, di come era generoso.
In verità, dire che Maria viveva sola,
era inesatto. Con lei, ad ogni effetto,
c’era ancora il fratello, anche se era morto da oltre un anno. Lo si incontrava
nelle stanze, rinchiuso nelle antiche
librerie piene di vecchi libri di medicina, lo si incontrava nei mobili
e negli oggetti che si finiva sempre per scoprire che erano stati acquistati da
lui, lo si incontrava negli alberi del
giardino, che erano tutti stati piantati da lui.
“Con le sue mani!” Perché il fratello, che nel giudizio della
gente, sembrava così distaccato dalla realtà e dal mondo, sapeva invece, a suo dire, essere ad un tempo uomo di pensiero e di azione, amava i libri,
ma anche la casa, sentiva il piacere di star solo a riflettere, ma anche quello
di lasciare un segno nelle cose che lo attorniavano.
E i segni che aveva lasciato, si ritrovavano
dappertutto nella casa. Poi, quando arrivava Luciano, attraverso quei segni,
come se fosse stato rievocato, sembrava
emergere di nuovo dalla memoria,
irrompere di nuovo dalle cose, e riprendersi le stanze, la corte, il
giardino. Non si parlava che di lui...
Questa volta
però, appena aveva visto arrivare
Luciano, Maria si era subito detta che
il tema dell’incontro avrebbe dovuto essere un altro. Le coincidenze le avevano
fatto incontrare la persona ideale, per dare risposta al suo bisogno di confrontarsi con qualcuno. La
persona a cui avrebbe dovuto pensare da subito per confidarsi, ed alla quale
invece, stranamente, non aveva pensato, si era presentata di sua iniziativa.
Avrebbe voluto confidargli immediatamente il suo segreto, ma non era facile. Da
un lato sentiva il bisogno di parlare, dall’altro voleva trovare il modo di
entrare nel discorso come per caso, per non far trasparire nelle sue parole, la
preoccupazione che aveva lasciato in lei quel sogno.
Era un amico, certamente. Ma era poi
sicura che anche Luciano non l’avrebbe presa in giro? Soprattutto se non fosse
riuscita a dar l’impressione che gli faceva il racconto di quel sogno, così
tanto per dire qualcosa, per riempire il discorso? Come l’avrebbe giudicata se
si fosse accorto invece che quel sogno (che forse era qualcosa di più che un
sogno!) invece l’aveva profondamente turbata?
Finito il pranzo, si erano messi a chiacchierare nel giardino. Parlavano, come
al solito, del fratello. Maria capiva che doveva approfittare di quei minuti
prima che l’amico decidesse di ripartire...
“Era anche un po’ psicologo e in un certo
senso psicoterapeuta” disse lei.
“Certo! Diceva che il bravo medico deve
prima di tutto capire il paziente, metterlo nelle condizioni di confidarsi,
farsi raccontare tutto di lui e non solo i fatti, ma anche i sogni...
“A proposito di sogni, lo interruppe,
cogliendo il riferimento di quella parola, per portalo finalmente al discorso
che voleva introdurre, te ne posso raccontare uno strano, che ho fatto in
questi giorni?”
“Certo!” disse lui, per cortesia, o forse
anche lieto che finalmente si potesse cambiare argomento. “Ma non mi hai sempre
detto di non aver sogni da raccontare?”
“In effetti! Già questa è una
stranezza... che me lo ricordi... ma poi anche come mi sono addormentata...”
Aveva
così preso a raccontare all’amico
della passeggiata sul Sorantri, di come si era addormentata (mentre non le era
mai capitato prima di addormentarsi in giro per la campagna) di quello che
aveva sognato, con un ricordo così lucido e vivo, anche nei particolari
insignificanti, di come si era svegliata,
con negli occhi l’immagine di quel rogo originale.
Aveva parlato fissando l’erba del prato
come per concentrarsi meglio nel ricordo e per non lasciarsi distrarre dallo
sguardo (che immaginava svogliato e forse anche
irridente) dell’amico. Ma alla fine invece di stare ad attendere il suo
commento, invece di fermarsi al racconto, s’era lasciata andare ad esclamazioni
che facevano capire quanto fosse
coinvolta emotivamente in quel che aveva raccontato e persino ad affermare che si era trattato di
qualcosa di più che un sogno. Ed ora lui le stava chiedendo che cosa potesse
essere più di un sogno…
Comunque non
rideva. Non commentava scherzando la stranezza del sogno. Anzi anche lui s’era
lasciato andare a commenti che dimostravano l’interesse con cui aveva seguito
il racconto. Ed ora, alzando finalmente la testa, aveva incrociato lo sguardo
di lui e le era parso preoccupato.
La guardava in silenzio, come sorpreso.
“Sembra quasi che
ti abbia impressionato” disse lei alla fine, per riportarlo al racconto e per
rompere l’imbarazzo del silenzio nel quale erano finiti dopo la domanda “cosa
intendi dire con più di un sogno?” alla quale in verità lei non avrebbe saputo dare una risposta..
“Non ne capisco
molto di sogni” disse infine lui, dopo altri momenti di pausa silenziosa. “Ma,
hai raccontato con una partecipazione così intensa, da coinvolgermi al punto di
a rivivere la scena. Anche a me pare d’avere davanti agli occhi l’immagine del rogo. Ed in effetti hai ragione, il tuo è
senza dubbio un sogno molto strano”.
Era stato sorpreso
dalla originalità del contenuto, ma anche dalla originalità del modo di
raccontare. Di solito si racconta in terza persona, Maria invece aveva
alternato il discorso indiretto a quello diretto, arrivando a ripetere i
dialoghi del sogno, come se la protagonista fosse un'altra, come se avesse
vissuto il sogno da spettatrice.
“Cosa sai tu dei
Celti” le chiese infine, dopo essersi fermato ancora a pensare, in silenzio.
“Poco o nulla
purtroppo!” rispose. “E anche questo stranamente,” aggiunse “perché in effetti
tutte le volte che andavo a passeggiare nel bosco dove sono rimasti i segni
della loro presenza (almeno così si ritiene), mi ripromettevo poi di prendermi
qualche libro per studiare la loro storia e conoscere qualcosa sui loro
costumi, sul loro modo di vivere e sulla loro cultura. E invece mi sono sempre
dimenticata... Da ieri ho sentito ancora più vivo il rimorso per questa
dimenticanza e per questa ignoranza.
Non si può abitare
a poca distanza dai resti di un villaggio preistorico, senza sentire la
necessità di chiedersi chi fossero, che
cosa abbiano fatto e come siano vissuti quelli che hanno abitato la nostra
valle tanti secoli prima di noi! Ma purtroppo
é andata così...
Prima o poi, dovrò leggere qualcosa al loro
riguardo, ma, per il momento so soltanto che erano gli abitanti delle nostre
montagne, prima dell’arrivo dei conquistatori romani, e che erano della tribù
dei Carni, da cui il nome di Carnia rimasto al nostro comprensorio”
“Hai detto che nel
sogno la ragazza incontrata...” prese ad interrogarla. “A proposito, come si
chiamava?”
“Lauriscia”
“Da dove puoi aver
ricavato un tale nome”.
“Me lo sono
chiesto anch’io, e mi sono ricordata che c’è un terreno vicino al paese, che si
chiama Lauriscè. Lo stesso nome che nel sogno portava il campo ai piedi dello
strapiombo.”
“Ma come puoi
esserti inventata un nome così originale, solo perché esiste una località che si chiama Lauriscè... Ma soprattutto
questa idea del sacrificio delle primogenite... E poi il fatto che ti abbia
detto che credeva nell’immortalità dell’anima...”
“Ricordo
distintamente che così mi ha detto”.
“Ma tu, per
qualche strana reminiscenza potevi sapere che i Celti credevano
nell’immortalità dell’anima?”
“Assolutamente no!
Come non lo so ancora. Perché tu cosa ne sai?”
Alla domanda
Luciano si fermò ancora soprappensiero. Se Maria era presa dalla necessità di
darsi una spiegazione del proprio sogno. Lui da alcuni mesi ormai era preso dal
pensiero delle coincidenze. A volte sembra che attorno a noi sia stata stesa
una ragnatela di situazioni impreviste, di coincidenze casuali. Crediamo di
essere liberi di poterci muovere e invece siamo obbligati a correre sui fili
delle ragnatele, per arrivare all’incontro con altre nuove coincidenze determinanti
e condizionanti lo sviluppo successivo della nostra vita.
Una formica stava
salendo sui suoi pantaloni. Aveva già superato il tratto più esposto, e stava
avanzando veloce nel tratto pianeggiante, sulla coscia. Dove andava? Perché con
tutto il prato a disposizione s’era spinta lontano dalle altre, sui pantaloni
che non aveva mai visto prima? La stava aspettando con l’indice piegato contro
il pollice, pronto a scattare come una balestra, che avrebbe proiettato lontano
e ucciso la formica impertinente, e quella continuava ad avanzare imperterrita
verso la coincidenza che l’avrebbe annullata.
“Perché?” mormorò,
lasciando partire l’indice per lanciare la formica a qualche metro di distanza.
“Perché, che
cosa?”
“Ah, nulla..”
“Quest’anno il
giardino è pieno di formiche”
“Devono vivere
anche loro!” Era solo un modo di dire, e i modi di dire contrastano spesso con
ciò che veramente si fa. Se devono vivere anche loro, perché ne aveva appena
ammazzata una?…
“Ti ho chiesto che
cosa conosci dei Celti?”
“Appunto, anche i
Celti sono una coincidenza,” rispose lui, ripiegando sul pensiero che
attraversava la sua mente, prima che la formica lo facesse divagare.
“Parli per
enigmi?” riprese lei, seccata. Non c’era nulla di enigmatico in quello che
aveva detto, a parte il fatto che i pensieri
a volte seguono dei loro percorsi in libertà.
“Scusami, anch’io
non ne sapevo niente fino a pochi mesi fa... poi per caso m’è venuto uno
stimolo ad approfondire...”
“Che stimolo?”
“Un giorno, quasi
un anno fa, una donna del mio paese, un’amica
d’infanzia, mi ha raccontato un sogno
ancora più fantastico del tuo, che però, ora che ci penso, ha delle
sconcertanti analogie con il tuo
racconto. E poco tempo fa me ne è stato raccontato un altro, con richiami che
mi sembrano ancora più espliciti al tuo. E infine anch’io, che non sogno mai, sono finito a sognare…”
“Quali analogie?
Quali richiami?”
“Anche se non
faceva espressamente riferimento al nome, quando mi è stato raccontato il primo sogno, ho pensato si riferisse ai Celti. La cosa mi ha
incuriosito e mi sono messo a leggere tutto quello che ho trovato scritto sulla
storia e sulla cultura di questo popolo”.
“Ma io ero andata
a passeggiare proprio nel villaggio dei Celti”
“Appunto. E hai
anche una istruzione che ti consente di sapere che queste montagne sono state
abitate dai Celti. Le mie amiche di infanzia invece, al mio paese,
hanno fatto soltanto le elementari... Come era vestita la tua
Lauriscia?”
“Non lo so. Non ne
ho idea. Ti ho parlato d’un camice, ma in effetti forse è più giusto dire che
ricordo il suo corpo come una macchia bianca, un batuffolo di cotone o di
nebbia. Anche a me è parso strano di avere un ricordo dettagliato
dell’ambiente, del villaggio e delle capanne, mentre della protagonista ricordo
solo l’espressione del viso, o più esattamente, solo l’espressione degli occhi.
Sforzando la
memoria, invece che trovare l’associazione tra la voce e l’immagine, finisco al
contrario per pensare d’aver colto nell’aria sguardi e parole, e d’averle
associate istintivamente e casualmente
all’idea d’una ragazza. E’ assurdo
mi ricordi che era una ragazza, senza ricordare come fosse fatta, quali
lineamenti avesse, come fosse vestita”
“Certo! Ma ciò che
più mi sorprende del tuo racconto, è il
riferimento all’immortalità dell’anima. E’ stata anche per me una sorprendente
scoperta nei miei studi sulla filosofia dei Celti. Forse è stata la cosa che
più mi ha colpito su questi nostri antenati. Eppure anche Cesare nel De Bello
Gallico è esplicito: “Il principale loro insegnamento è l’immortalità
dell’anima”. In precedenza non l’avrei
in nessun modo potuto immaginare. Il fatto che tu abbia avuto attraverso un sogno la rivelazione che a me è venuta
dalla lettura dei libri, mi lascia perplesso e sconcertato”.
“E sulla barbara
usanza di costringere al suicidio le primogenite, hai avuto qualche riscontro?”
“In verità, mi
sono fatta l’idea che i Celti, chiamati “barbari” dai romani, avessero una concezione della vita ed una
filosofia, in qualche modo più evoluta di quella dei conquistatori. Tuttavia è
storicamente provato che facessero dei sacrifici umani agli dei, ed a questo
potrebbe quindi in qualche modo richiamarsi il tuo sogno. Anche se, va
aggiunto, avvicinandosi a questo popolo non si può mai dimenticare che la diversità più profonda con i popoli
latini, sta forse proprio nella diversa concezione della vita e della morte,
per cui per loro poteva risultare logico, (come appunto nel sogno ti avrebbe
detto la tua Lauriscia), ciò che a noi sembra assurdo”.
“Da dove mi può
essere venuta una idea così bizzarra?”
“Bizzarra non
direi, perché anche lo storico Jan de Vries, afferma, pur senza citare le
fonti, che “il sacrificio dei primogeniti costituiva probabilmente il mezzo per
placare le potenze degli inferi”. D’altra parte
anche il falò che descrivi, da un lato richiama la citazione di Cesare
quando scrive che, alcune tribù galliche costruivano dei panieri di vimini a
forma di uomo e dopo avervi messo dentro la vittima, li incendiavano,
dall’altro è un evidente riferimento all’usanza, ancora presente in Friuli, di
accendere la notte dell’Epifania dei falò molto simili a quello che tu hai
descritto come il rogo di Lauriscia.
Comunque se
vuoi capirne qualcosa di più, credo sia
necessario tu sappia qualcosa di più anche sulla storia dei Celti.”
Luciano prese così
a riassumerle ciò che, attraverso tante letture, aveva ricavato ed era riuscito
a ricostruire, pur senza alcuna presunzione di scientificità, sulla storia del
popolo dei Carni.
Dallo stesso ceppo
indoeuropeo, stanziato attorno al mar Caspio, si erano staccate diverse genti
che, separate e senza contatti tra loro, avevano sviluppato diverse culture. La
corrente greco-latina si era stabilita sul Mediterraneo, mentre quella celtica
aveva occupato l’Europa centrale.
Nella fase
iniziale di sviluppo, per centinaia d’anni
le due civiltà non avevano avuto
contatti. Nella fase successiva di espansione, muovendosi gli uni verso
nord e gli altri verso sud, erano finiti per
entrare obbligatoriamente in contatto e conseguentemente in conflitto.
Come si sa alla
fine ebbero la meglio quelli che provenivano dal sud, e come d’uso, i vincitori hanno scritto anche la storia dei vinti, per
cui la nostra storia, la storia dei
romani, registra i Celti come “barbari”.
La storia dei
vincitori mette di solito in evidenza anche la forza dei vinti, non fosse
altro per sottolineare la grandezza, ed
il merito della propria vittoria. Così tutti hanno studiato di Roma invasa da
quelli che i Greci chiamavano Keltoi e che invece i romani nella loro lingua
chiamavano Galli, guidati dal feroce Brenno. Nella sede del Senato, a Palazzo
Madama, campeggia il quadro del senatore Papirio offeso da un celta che gli
tira la barba, e famosa è rimasta la battuta di Brenno “Vae victis, guai ai
vinti” che i romani dimostreranno d’aver imparato alla perfezione per poterla
ripetere in ogni parte d’Europa e del Mediterraneo.
A occidente i Celti cisalpini
avevano occupato gran parte del Piemonte e della Lombardia, e i Cispadani
oltrepassando il Po si erano insediati nell’attuale Emilia Romagna. Ad oriente
invece, la loro calata è stata bloccata dai Veneti, e i Carni, la tribù più
avanzata, aveva dovuto limitarsi
all’occupazione delle alpi e delle
prealpi carniche e del Carso, fino al
“vicus carnorum – villaggio carnico” di Trieste.
Stanziati sulle
montagne, non avevano avuto modo di
scontrarsi con i Romani se non quando questi avevano deciso l’occupazione del Norico, l’attuale Germania,
e avevano dovuto quindi assicurare la
viabilità di collegamento attraverso i passi alpini, ed in particolare
attraverso il passo di Monte Croce sulle
alpi carniche.
Nel frattempo i
Romani, mescolando sapientemente armi e diplomazia, erano venuti già a patti con i Celti
transalpini insediati nell’Austria attuale. Li avevano convinti a rientrare nelle
loro sedi, una prima volta quando questi avevano invaso la pianura friulana,
ponendo un caposaldo sul colle di Medea, a poca distanza da Aquileia. Successivamente avevano anche accettato che
si stabilissero a coltivare la pianura friulana, fino ad allora pressoché
deserta. Poi a seguito d’una rivolta di questi primi celti, importati in Friuli
dall’Austria, ai tempi dell’imperatore Tiberio, “il fiore della gioventù
carnica fu levato dalle montagne e tradotto ad abitare nel piano”.
I celti-carni furono così utilizzati dai romani per tenere
sotto controllo i cugini friulani celti-transalpini, importati da oltralpe!
Comunque pur nella diversità tra Carni e transalpini-friulani, che tuttora
rimane, (nella distinzione che i carnici
tendono sempre a marcare nei confronti dei friulani) i Celti
svilupparono in seguito, tra il Tagliamento e l’Isonzo, una loro civiltà con
una autonomia anche linguistica, che rimase, malgrado e oltre l’occupazione
romana.
Sulle montagne gli insediamenti celtici
continuarono a convivere con i nuovi
insediamenti fondati dai conquistatori, come Julium Carnicum oggi
Zuglio, ma i Celti non si assimilarono mai ai conquistatori latini, tant’è che
rimane ancora viva una lingua, quella friulana, che ha grandi affinità con il francese, la lingua della Gallia.
Come ricorda lo scrittore Tito Maniacco: “E’
certo che lo strato gallico che sta alla base della parlata friulana è rimasto
uno degli elementi costitutivi della fisionomia linguistica e culturale del
Friuli”.
Maria lo stava ad
ascoltare senza avere il coraggio di interromperlo. Forse il localismo
campanilistico l’aveva anche portato a delle interpretazioni che andavano al di
là di quello che era consentito dedurre dall’esame critico delle poche fonti
storiche a disposizione, ma se anche avesse avuto le conoscenze necessarie per
confutarlo, non era certo la verità storica
che le interessava in quel momento. Più che di conoscere i Celti lei
sentiva la necessità e l’urgenza di darsi una spiegazione del suo sogno. Doveva
trovare il modo di liberarsi dell’idea di Lauriscia e della sua orribile morte,
per evitare d’essere turbata dal riaffiorare continuo nella sua mente delle
immagini del sogno.
“Interessante!” lo
interruppe infine “anche se deve essere la prima volta che ad una richiesta di
interpretazione di un sogno, si risponde con una pagina di storia”.
“Era per farti
capire il contesto”, obiettò Luciano risentito alla provocazione.
“Certo, l’ho
capito e ti ringrazio. Non essere così suscettibile. Ma, capirai, mi hai
parlato di analogie con altri sogni di altra gente, e la cosa al momento mi
interessa più della storia dei Celti”.
“Già, capisco, ma
non ti ho fatto la storia per sfoggiare la mia cultura. Come ti ho detto,
anch’io ho cercato di risalire alla storia, proprio per capire dei sogni”.
Maria si sentiva
più interessata ai riferimenti e alle analogie degli altri racconti che alla
storia. Non sapeva tuttavia che i racconti che le avrebbe fatto l’amico erano destinati ad aumentare ed approfondire,
invece che a sciogliere, il suo turbamento.
Cap. 3
Mede
Da
bambino, al paese dove era nato, era stato amico intimo d’un’altra Maria.
Vicini di casa, ambedue senza fratelli,
avevano sviluppato un legame d’amicizia molto stretto e sentito.
Dicevano tutti che sembravano come fratello e sorella. Lui era il figlio della
maestra, lei era figlia di contadini. Ma per i bambini le differenze sociali
non contano. Anzi quando non sapeva come
passare le giornate d’estate, per lui era un piacere andare ad aiutarla nei
prati a raccogliere il fieno, assisterla mentre alla sera accudiva alle bestie.
Poi, dopo le elementari, lui era stato
messo in collegio per proseguire gli studi, lei li aveva interrotti, per dedicarsi
a tempo pieno all’azienda agricola familiare.
“Tu
te ne sei andato. Per te s’apriva la possibilità di vedere il mondo. Per me
invece…” così aveva preso a raccontargli una sera, l’estate precedente, seduti
sul muretto sul quale erano soliti fermarsi a parlare da bambini. Come se la
loro storia nel suo moto circolare fosse tornata al muretto dell’infanzia.
Per
lei s’apriva invece, aveva continuato, la prospettiva ristretta della vita d’un
piccolo paese di montagna. La monotonia del ripetersi dei giorni, sempre
uguali, con i ritmi modificati appena al cambiare dei tempi del sole, veniva rotta soltanto dalla
possibilità di frequentare la chiesa, dove il vecchio parroco la faceva
fantasticare raccontando le avventure
dei santi e dei martiri.
Altro
diversivo era il racconto delle leggende. Alla sera si incontravano nella stalla di qualcuno del
paese, a rotazione. Riscaldandosi al
calore degli animali e lavorando la lana, le vecchie raccontavano storie ancora
più fantasiose di quelle dei santi. Erano di solito storie di demoni e di
dannati, di diavoli e di streghe. Quelle del prete parlavano di speranza,
quelle delle vecchie ricostruivano scene di vita segnate soltanto dalla paura e
dalla sofferenza. Lei che pur seguiva
con attenzione anche le vicende edificanti narrate dal parroco, si sentiva
attratta ed affascinata da quelle raccontate dalle nonne.
Quando
poi, nel buio della notte, doveva rientrare a casa da sola, correva terrorizzata, credendo di sentire il
respiro affannoso, il rantolo disperato di quei morti, di quei dannati, che, nei
racconti, non riuscivano mai a trovare pace nel cimitero e s’aggiravano
cercando sollievo tra le case dei vivi.
Una
di quelle storie di dannati era entrata a far parte della sua vita,
diventando un elemento del proprio modo
di essere e di sentire.
Tutte
le famiglie in paese avevano un soprannome, la sua si chiamava, la famiglia
della Mede. Nella lingua friulana la “mede” è quel grande covone di fieno che i
contadini costruiscono quando il fienile non ha sufficiente capienza, o nel
quale si raccoglie il fieno d’alta
montagna per poterlo portare a valle a primavera, quando c’è meno lavoro. Come
per altri in paese, il nome della famiglia era poi diventato il suo nome, da
“Maria da mede” era diventata soltanto “Mede”.
Mentre la gente prendeva a chiamarla in quel modo, in lei s’era come
sviluppata una sorta di identificazione con quel nome e con la costruzione alla quale il termine
si riferiva, al punto da sentirsi
attratta ed in un certo modo magicamente
coinvolta nella scena, quando partecipava alla costruzione d’una nuova
“mède”.
Seguiva le varie fasi, affascinata, come davanti a un rito magico nel quale era stata appunto, suo
malgrado, in qualche modo implicata. E c’era in effetti qualcosa di rituale e
di magico nel ripetersi di quella scena.
Qualcosa che lei finiva indirettamente per sottolineare, riportando nel
racconto a Luciano tutti i particolari
anche i più secondari d’una episodio che egli evocava a fatica nella memoria,
ricomponendo i brandelli dei ricordi dell’infanzia al paese.
“Tu
eri il figlio della maestra, non ti ricordi certo come si faceva”.
Ricordava
invece, seppure a fatica, ora che il racconto lo riportava ai giorni
dell’infanzia al paese.
Per
assicurarne la stabilità, continuava lei, ricostruendo la scena nei minimi
particolari, suo padre tagliava, nel bosco vicino, un albero alto e sottile. Ne
infilava una estremità in una buca che aveva scavato nel luogo destinato alla
realizzazione della “mede”. Facendosi aiutare da sua madre, rizzava il palo,
che prendeva il nome di “medìli”, poi mentre lei lo teneva fermo, infilava
nella buca alcuni sassi che batteva con la
mazza di ferro, finchè sua madre
gli confermava che il palo aveva raggiunto una sufficiente stabilità.
Il
rituale prevedeva pure che anche lui controllasse la stabilità del medìli,
trovandola evidentemente inadeguata, il che gli dava la possibilità di
aggiungere a commento qualche imprecazione rivolta alla moglie, mescolata con
altre rivolte al padreterno, come se fossero effettivamente le parole magiche
del rito. Batteva allora ancora qualche
colpo di mazza, per constatare infine
che tutto era a posto.
Come
base per il covone, lasciando al centro il palo, veniva realizzato un quadrato
di circa due metri di lato,
formato con quattro tronchi non molto grossi che si incrociavano ai
lati, dove poggiavano su dei paletti a forca, infilati nel terreno.
Si
portava in questo modo a livello il
sistema della base , anche se il luogo prescelto per la “mede” era di solito in
pendenza. L’impiantito veniva completato
con un traliccio di frasche per staccare il fieno dal suolo, in modo che non
marcisse a causa dell’umidità del terreno.
Aveva
quindi inizio la costruzione. Tutt’intorno, assieme a sua madre, altre donne ed
uomini venuti in aiuto, raccoglievano il
fieno con la forca e lo gettavano in alto contro il palo, con uno sforzo sempre
maggiore, man mano che la costruzione s’elevava. Dovevano fare attenzione a non
inforcare suo padre che, tenendosi con una mano al palo, con l’altra sistemava
il fieno che gli veniva lanciato, calpestandolo poi con i piedi, per farlo assestare, mentre girava
in tondo. La necessità di lanciare il fieno davanti a suo padre che girava
attorno al palo, imponeva l’ordine con il quale quelli a terra sollevavano la
forca piena di fieno, e dava a tutta la
scena quell’idea d’ordine e d’armonia,
per la quale le pareva veramente d’assistere a un rito.
Suo
padre lassù che girava pestando il fieno, poteva ben essere un mago o uno
stregone impegnato in un qualche rito.
Il fatto che non la smettesse un momento
di criticare perché, a suo dire, facevano sempre i lanci al momento o nel posto
sbagliato, accompagnando ogni parola con una bestemmia, poteva anche far pensare si trattasse di un rito satanico.
Dovendo
chiudersi il covone a punta, perché la pioggia potesse scolare senza penetrare
nel fieno, il piano di calpestio di suo padre diventava sempre più stretto: e
più il lavoro si complicava, più aumentava l’intensità delle imprecazioni e
delle bestemmie. Infine, sigillata la “mede”
con una treccia di fieno, posta ad anello attorno al palo, suo padre scendeva, aiutato da qualcuno
che gli sorreggeva la scala.
Non
restava che contemplare il capolavoro! La mede doveva avere la forma di anfora,
stretta alla base, doveva aprirsi rapidamente nella pancia, per poi andare
rastremando più lentamente e chiudersi a punta. Da tutte le parti,
armonicamente, doveva avere le stesse proporzioni. La prima parte della cerimonia si chiudeva
sempre con le parole di autocompiacimento di suo padre. La comitiva che aveva
partecipato alla realizzazione dell’opera, si radunava quindi all’ombra d’un
albero, dove sua madre traeva dalla gerla un involto fatto con un tovagliolo
annodato. Slacciava i nodi, aprendo sul terreno il tovagliolo, e come d’incanto
si trovavano di fronte ad una mensa imbandita: c’era tanta polenta, un po’ di
formaggio, ed anche del salame che veniva riservato per le occasioni
importanti. E quella della “mede” era una occasione straordinaria, tant’è che c’era sempre anche una bottiglia
di vino.
Si
sarebbero potute anticipare a memoria
anche le parole che si sarebbero dette,
perché la merenda sotto l’albero, guardando il capolavoro appena realizzato,
pareva costituire la seconda parte del
rito, e come nei riti, le parole usate non potevano non essere
quelle degli anni precedenti, della tradizione.
“Ho
la gola secca,” cominciava suo padre, “ perché lassù il pulviscolo del
fieno ti entra da tutte le parti, e non
solo dalla bocca e dalle narici, ma
persino dai pori della pelle. E ti viene una sete!..”
“Per
te, per bere, c’è sempre una scusa buona,” commentava sua madre.
“Ecco!”
replicava allora suo padre, andando di nuovo su tutte le furie, “non si può
vivere con una donna che ti dà dell’ubriacone, perché senti la necessità, dopo
una fatica del genere, di un bicchiere
di vino”. Continuava poi con una cascata di improperi rivolti a sua madre,
finché qualcuno riusciva a farlo smettere. Si proseguiva allora parlando di
come, immancabilmente, l’andamento del tempo fosse così stranamente diverso
rispetto a quello degli anni precedenti, ricordando come e dove s’erano
incontrati gli altri anni per la cerimonia della “mede”.
Suo
padre ritornava poi più e più volte a sottolineare la sua perizia perché, a suo
dire, il lavoro era d’una estrema
complessità ed anche d’una grande
pericolosità. Per ribadire la
difficoltà, come un salmo dei morti che termina sempre in requiem, anche quello
di suo padre finiva immancabilmente con
il racconto della storia di Rinaldo il
dannato della “mede”.
Rinaldo
da Mede, era un loro antenato. Ma quanto antenato? Secondo suo nonno, era di
molte generazioni prima, dei tempi dell’Inquisizione, di quando ancora la
Chiesa non era riuscita ad eliminare le streghe, come precisava lui. Il
soprannome stava proprio a sottolineare la sua grande abilità nel costruire
questi covoni. Da lui, probabilmente,
era venuto il soprannome alla famiglia.
Rinaldo
appunto, diceva suo padre, aveva appena
finito di costruire una “mede” sui prati d’alta montagna. Invece di attendere
la scala, realizzato l’anello di fieno
che completava la costruzione, per scendere a terra, s’era lasciato scivolare sul fianco della
costruzione.
“Quando
si dice il destino!” commentava sempre
suo padre “ non aveva per caso sua moglie lasciato accostato alla mede, un rastrello
con il manico in aria? E il rastrello non era esattamente nel punto dove
Rinaldo aveva deciso di lasciarsi scivolare?”
“Gli
entrò da dietro e gli uscì dalla bocca.” Ripeteva ogni anno suo padre.
“S’insaccò a terra con un urlo disumano. Poi l’uomo e il rastrello si
rovesciarono a terra. Rinaldo restò lì,
con il rastrello sotto il sedere, come si vi si fosse seduto sopra
inavvertitamente, mentre il manico gli usciva dalla bocca, sporco del sangue
che continuava a scorrere a rivoli. La moglie s’era messa a chiamare aiuto, con
quanto fiato aveva in gola. Ma quando erano arrivati finalmente quelli dei prati vicino, non avevano
potuto che constatare la sua morte.”
Il
modo di raccontare di suo padre, a mozziconi, quasi dovesse prendere fiato ad
ogni frase, per sottolineare la gravità di quanto veniva dicendo , faceva sì
che gli altri stessero ad ascoltare attoniti, come si fosse trattato della narrazione d’un fatto
appena avvenuto, e non d’un racconto sentito per l’ennesima volta. “Dicono,”
aggiungeva suo padre, a mo’ di conclusione “che ancora nelle notti di luna, su
in montagna si senta quell’urlo
straziante, e qualcuno ha raccontato anche, d’aver visto di notte nonno Rinaldo
che gira ancora da quelle parti senza pace.”
Poi,
infine, a mo’ di battuta finale, sghignazzando aggiungeva: “Qualcuno
ritiene che il suo tormento sia nato, quando S.Pietro gli ha rivelato che il
rastrello non era lì per caso.. “
“Sei
sempre il solito!” chiudeva la madre, sempre con la stessa frase, come con
l’amen” si chiude sempre anche il “requiem”.
Nel
suo racconto Maria sottolineava d’aver sentito ripetere questa storia infinite
volte, di essersi subito sentita coinvolta
e di essere rimasta in certo senso affascinata, come se il soprannome
che le era stato dato istituisse un
rapporto particolare tra lei e il suo antenato Rinaldo. Già la prima volta che
aveva ascoltato il racconto, s’era trovata a fare un sogno
dal quale aveva avuto la
conferma dello strano rapporto che aveva avvertito istintivamente realizzarsi
tra lei, quella costruzione di fieno, e
il racconto della morte di Rinaldo.
Anche
nel sogno era in corso la costruzione della “mede”. Non era però suo padre che calpestava il fieno, ma lei bambina. Si
muoveva quasi a ritmo di danza, come quando si divertiva a saltare in cortile,
facendo volteggiare la corda. E come se stessero danzando attorno a lei, anche
gli uomini con le forche, continuavano a gettare in alto il fieno senza mai
fermarsi. Poi il movimento cominciava ad accelerare, a svilupparsi sempre più veloce, fino a farsi frenetico, a
diventare un vortice.
Come personaggi di una giostra impazzita, gli
uomini attorno si muovevano alzando le forche verso l’alto, con movimenti
bruschi e cadenzati. Un mulinello di fieno avvolgeva la “mede”, che ruotava attorno
al palo centrale come presa in un
vortice. Ad un certo punto lei, aggrappata al
palo, non riusciva più a resistere alla spinta centrifuga di quel
turbinio vorticoso, era così costretta a
lasciarsi scivolare, e si ritrovava come
Rinaldo con il manico del rastrello che le fuoriusciva dalla bocca. Con
quell’asta, si sentiva come
trasformata in uno strano uccello, dal
becco troppo sottile e troppo lungo.
Il
sogno si era ripetuto poi tante volte ed ogni volta si era svegliata di
soprassalto con l’incubo di quell’asta in bocca. Ma, da sveglia, mentre la sua ansia s’acquietava, nella constatazione che s’era trattato soltanto d’un sogno, allo
stesso tempo, prendeva corpo a poco a poco
in lei la sensazione di non
essere sola nella stanza. Sentiva una presenza, come un alito di vento, passare
sulle pareti, sfiorare il letto, accarezzarle il viso.
La
prima volta aveva avuto paura ma già la
seconda sera, quell’alito di vento le pareva avesse qualcosa di familiare e di
amico, come l’aria fredda che lasciava entrare la mamma quando passava a
controllare alla sera, se già stesse dormendo.
Cercando
di darsi una spiegazione di quella sensazione si era trovata a pensare che lì,
con lei nella sua stanza, ci fosse Rinaldo. L’idea non l’aveva turbata, le era
parso anzi un fatto naturale. Forse anche Rinaldo era diventato un bellissimo
uccello notturno, con un becco lungo e sottile, come quello delle upupe, che si
racconta volino di notte sui cimiteri, e
la veniva a trovare, volando nella sua stanza. E uscivano assieme, lei e
Rinaldo, non più in quella stanza, ma due upupe, che la notte svolazzano sopra
le tombe, nei cimiteri, come se fossero pipistrelli. Questo pensava, e si
stupiva di ritenerlo normale…
La
sera continuava a rivivere quel sogno, e in lei cominciava ad affermarsi uno
strano bisogno: di seguire quella
presenza amica nel luogo dal quale veniva.
Di giorno si spaventava del sogno, delle
riflessioni che aveva fatto Ma quando tornava la notte, tornava il sogno,
tornava il desiderio di seguire il richiamo di quella presenza che avvertiva
muoversi nella camera, il desiderio di
trovare il coraggio per seguirla fino al cimitero.
Finché
una sera (aveva ormai quindici anni) il
richiamo divenne più forte delle sue paure. Uscì di casa, come una sonnambula, e
prese la strada del cimitero. Il bosco che la
fiancheggiava le parve vivesse. Non erano gli alberi a muoversi alla brezza e le fronde
a stormire, ma sentiva che, lasciate le tombe, erano i morti ad affollare il luogo.
E quel pensiero invece di incuterle
paura le aveva trasmesso la sensazione
d’essere arrivata, di trovarsi dove aveva voluto andare, con le persone che
aveva voluto incontrare.
Aveva
l’impressione di trovarsi in compagnia di persone felici di vederla finalmente,
ad alleviare quel loro tormento che si
manifestava nello stridìo sinistro del
cancello di ferro del cimitero. Anche quella notte il cancello aveva cigolato,
ma le era parso un suono diverso, più un grido di gioia, che di dolore.
La
luna, alta nel cielo, illuminava ogni cosa a giorno anzi la ghiaia bianca dei
viali e il bianco delle croci di marmo sulle tombe, risaltavano ancor più che
al sole, rilucendo come se fossero alabastro, creando un’atmosfera magica e
incantata.
Era veramente in cimitero? O era un sogno? Si
chiedeva, senza riuscire a darsi una risposta.
Da ogni tomba vedeva usciva un
filo di fumo che prendeva lentamente
consistenza fino a diventare uno sbuffo
di nebbia che poi assumeva le sembianze umane, per allontanarsi dalla
tomba e venire verso il viale centrale.
E un altro refolo di fumo si formava sulla stessa tomba, e poi un altro ancora,
come se stessero uscendo e riprendendo
una presenza, tutte le persone che nei
secoli erano state sepolte in quel posto.
Al centro del cimitero s’era così formata una
folla. Enorme il numero delle persone,
ma come se avessero potuto sovrapporsi le une alle altre, stavano tutte nel
viale centrale, attorno a quella che in paese chiamavano la tomba del prete,
costituita da un cippo di pietra annerita dal tempo, sormontata da una alta stele che finiva in una piccola croce. Come d’istinto, con un
balzo, lei era salita sul cippo ed aveva preso a parlare alla folla che
rispondeva alle sue parole con un lamento muto, simile in qualche modo al grido strozzato della civetta.
Mentre ancora parlava, (ma le sue parole erano
suoni senza significato, parole d’una lingua sconosciuta), la folla s’era
mossa, verso di lei, come la nebbia
quando sale nei giorni di pioggia,
addensandosi poi sempre più fitta attorno al cippo. Come risucchiata da tutte
le parti sulla tomba centrale la nebbia si infittiva e prendeva sempre più
consistenza, assumendo attorno a quel cippo la forma d’un covone di fieno,
d’una “mede”. Lei vi era rimasta imprigionata, come un baco da seta nel suo
bozzolo. In alto emergeva soltanto la
sua testa, come il busto d’una statua,
incastonata nella piccola croce.
Dopo
un po’ di tempo, come ad un segnale, la
costruzione aveva preso a sciogliersi. La nebbia aveva ripreso a diffondersi per tutto il cimitero per
essere poi assorbita dalle tombe, lentamente, fino agli ultimi refoli
sparsi qua e là per il cimitero. Un ultimo soltanto
aveva indugiato, sulla tomba di famiglia, e s’era trasformato nella figura d’un uomo. Era un giovane, in
piedi, accanto alla lapide. E la cosa, anche questa volta, non l’aveva
stupita, le era parsa del tutto naturale. Era scesa dal cippo e gli
si era avvicinata.
Era
piccolo ed esile, con un corpo quasi da bambino, con un vestito d’una foggia
strana, troppo grande, troppo pesante per quelle membra così minute. E la
pesantezza dell’abito, sembrava si riflettesse nella sofferenza del viso,
troppo vecchio e raggrinzito, troppo segnato dalle fatiche e dagli stenti per
quel corpo così gracile e infantile.
“Finalmente
ti sei decisa!” sembrava dicesse quel
giovane, e le pareva una voce amica, già udita tante volte in quel respiro di
vento che entrava nella sua camera, ogni volta che faceva il suo sogno.
Malgrado quella sensazione di familiarità, si sentiva in imbarazzo, non riusciva a trovare le parole
per iniziare un discorso.
Poi
come un sogno che si discioglie nel dormiveglia, la figura era svanita. Come la
nebbia quando si disperde al levare del sole, era svanita anche l’atmosfera
incantata che aveva avvolto il cimitero. Si era
guardata allora attorno
rendendosi conto d’un tratto d’essere
nella notte di luna, da sola, nel cimitero. Un pipistrello che svolazzava, tra
le croci le aveva sfiorato il viso.
Allora, con un urlo disperato,
finalmente s’era messa a correre,
svegliandosi di soprassalto, nel suo letto, madida di sudore..
Ricordava
questa prima volta al cimitero con una precisione nei dettagli e nei
particolari come se la stesse rivivendo ogni volta che ci pensava. Ma c’erano
poi state tante altre volte. Il sogno si era ripetuto sempre allo stesso modo,
con quella luna piena che illuminava con una luce irreale il cimitero.
Ma
era poi un sogno? Risvegliandosi, agitata ed accaldata non riusciva mai a
capire se aveva sognato di correre o se aveva veramente corso da sonnambula.
Sognando di sognare non riusciva a capire se tutto era un sogno nel quale si
inserivano altri sogni, o se invece alcune cose le aveva vissute ed altre
invece solo sognate. Ma se anche così fosse stato, quale era il sogno e quale
la realtà vissuta?
L’interpretazione
involontaria della scena comunque (o del
sogno?), anche le volte successive, si era ripetuta identica
nella parte iniziale, con delle varianti sostanziali negli sviluppi al cimitero.
Il
ragazzo che le appariva sulla tomba (che lei aveva identificato con Rinaldo,
anche se in effetti non aveva mai parlato e non si era mai presentato), si
veniva trasformando sotto i suoi occhi. Il refolo di nebbia che aveva preso le
sembianze del giovane con i vestiti troppo grandi, si trasformava lentamente
prendendo sembianze diverse in diverse fogge di vestiti, come una immagine
riflessa nell’acqua che cambia ad ogni muoversi d’onda, per lasciare emergere
nell’acqua finalmente quieta, una
persona diversa. Era un altro giovane, diverso nelle sembianze da Rinaldo, ma soprattutto
diverso nei vestiti.
Era
biondo con i capelli lunghi e un viso lentigginoso. Portava una sorta di tunica
corta, stretta in vita da una cintura con una grande borchia di metallo
lavorato. Le faceva ricordare in qualche modo le figure dei soldati romani, nei
quadri della Via Crucis in chiesa. Con la differenza che sotto alla tunica, il
giovane portava dei calzoni che scendevano stretti fino al collo del piede,
chiusi in fondo, come se avessero avuto un elastico.
Tanto
era serio ed avvilito Rinaldo, tanto il giovane che prendeva il suo posto, era
allegro e sorridente. Si capiva che avrebbe voluto parlare, comunicare
qualcosa. Muoveva anche la bocca come ad articolare delle parole. Ma dalle
labbra non usciva alcun suono. O almeno lei non lo sentiva...
E
mentre lei stava a guardare il giovane, non s’accorgeva che il cimitero si
riempiva di nuovo. La folla d’ombre tornava, ma non erano le stesse, erano
tutte vestite come quel giovane. Anche le nuove ombre le si stringevano
addosso, costringendola a ritirarsi ed a rifugiarsi di nuovo sul cippo
centrale. Di nuovo si raccoglievano e stringevano attorno formando una sorta di
“mede”. Poi però, la costruzione si trasformava, allo stesso modo del refolo sulla tomba. Il cippo con lei sopra e
le ombre addossate, diventava la catasta di fascine che, secondo la
tradizione, si costruiva all’Epifania
per bruciare la strega.
Al
paese, come in tanti paesi della montagna friulana, pur con alcune varianti da
borgo a borgo, c’era l’usanza di costruire per l’Epifania una catasta di
fascine di stecchi, a forma di covone. Ogni famiglia portava la sua fascina,
poi i coscritti dell’anno le addossavano e le sovrapponevano con maestria, in
modo da realizzare una costruzione che nella forma ricordava la “mede” del
fieno. Sopra, nella parte di asta che restava scoperta, con dei vestiti pure riempiti di fieno, realizzavano il
pupazzo d’una strega.
La
sera della vigilia dell’Epifania, dopo aver controllato che le ultime lingue di
sole si fossero definitivamente spente sulle montagne ad oriente, e si fosse
chiusa anche l’ultima fessura di luce con la quale muore il sole ad occidente,
la “più bella della classe”, (quella che i coscritti avevano prescelto come la
più bella coetanea), accendeva il fuoco.
Anche
lei l’aveva acceso a ventun anni, ed ora quella
scena si ripeteva nel sogno. Ma lei era su, al posto della strega, e le
fiamme l’avvolgevano e si sentiva mancare il respiro. Allora l’affanno con il
quale si svegliava, non era più quello della corsa spaventata per la fuga dal
cimitero, della prima volta, ma quello del sensazione del respiro che le veniva
a mancare, come se stesse soffocando, tra il fumo e le fiamme...
“Perché
si possono fare sogni così strani?… Ma il mio è poi un sogno?…”.
Con
questa domanda aveva chiuso il suo racconto anche Maria da Mede. Se la
ricordava bene la domanda Luciano, non fosse altro per i tentativi fatti poi
per cercare risposta. Si ricordava bene
la scena: loro due sul muretto, di nuovo come da ragazzi, gli stessi, ma così
diversi nel corpo, nei lineamenti del viso, ma soprattutto nei pensieri, al
risveglio dai sogni strani che la vita riserva e propone…
Cap. 4.
Maria la
Svualda.
Da
quando, ragazzo, era partito per il collegio, aveva abbandonato definitivamente
il paese della propria infanzia. I suoi si erano trasferiti ed erano andati ad
abitare in città. Non aveva avuto più alcun motivo per tornare tra quelle
quattro case, abbarbicate a mezza costa in mezzo alle montagne. Aveva passato
tutta la vita senza mai tornarvi. Solo l’anno prima, aveva accettato
l’invito d’una cugina, che si era
più volte offerta di ospitarlo per dargli l’opportunità, diceva lei, di
rivivere l’umore delle radici. Era stato
così che aveva avuto modo di incontrare nuovamente Maria da Mede, dopo
tanti anni, e di sentire da lei il racconto del suo strano sogno.
Ma
era poi veramente un sogno? Come Maria, anche lui aveva cominciato a porsi la
domanda, ogni volta che ripensava alla stranezza del racconto, sia per i
contenuti che per il modo di presentarlo. Ripetendo un sogno si sorvolano i
particolari, invece Maria si era soffermata sui minimi dettagli. Ed anche la
premessa del racconto della costruzione della “mede”, reso con un
insistenza puntigliosa sui particolari più insignificanti, era stata
raccontata come un sogno…
Dopo
quella prima volta aveva ripreso a frequentare il paese. Non erano stati i
pochi giorni in casa della cugina, quanto forse proprio quel racconto, a fargli
rinascere l’interesse per i luoghi nei
quali aveva trascorso i primi anni della sua vita. Non era solo una
curiosità superficiale, ma un vero e proprio bisogno che gli era scoppiato
dentro, come per una sorta di maleficio.
Nel racconto così dettagliato che Maria gli aveva fatto della scena
della “mede” aveva preso a rivivere, assieme a quella scena, tante altre scene
della propria infanzia. Le immagini, dopo l’incertezza iniziale, avevano preso
a fluirgli nella memoria con una
nitidezza impressionante, come se le scene riprendessero a vivere, ripetendosi identiche nella sua mente.
E assieme al richiamo di quelle immagini, in
un certo modo aveva sentito anche lui, come Maria, il richiamo del cimitero.
Tra quelle lapidi rivedeva la storia recente del paese, ma in quella terra,
come per i due grandi cipressi di guardia al portale d’ingresso, sentiva che
c’erano le sue radici, c’era il senso della propria continuità con il passato,
e quindi il senso della propria esistenza.
La
sua vita era stata come una espressione algebrica, a forza di operazioni e di
semplificazioni, s’era annullato tutto quello che era all’interno della
parentesi, ed ora capiva che per risolvere l’espressione, doveva mettere in relazione i dati finali,
quelli che venivano dopo la parentesi, con quelli iniziali, che aveva incontrato prima della parentesi.
Aveva
deciso così di rimettere a posto la casa dei suoi. Dopo tanti anni, era ridotta
a poco più che un rudere. L’edera l’aveva avvolta, s’era insinuata tra le
fessure del muro, era penetrata negli interstizi tra le finestre, l’aveva
invasa dall’alto, strisciando tra le travi, infilandosi tra le tegole rotte e
sconnesse. L’edera, come le circostanze nella sua vita, aveva preso il
sopravvento, ed ora si aveva quasi
l’impressione che fosse l’edera a
reggere la casa e non viceversa.
“Non
vale la pena” gli aveva detto l’impresario a cui si era rivolto per avere un
preventivo.
“Ne
vale sì” aveva replicato, convinto. Anche se non riusciva bene a capire i
motivi di quella improvvisa convinzione, di quella decisione, tanto imprevista
quanto profonda, di riprendere il rapporto con quel paese al quale ora sentiva di nuovo di appartenere. Era il
suo paese, perché egli sentiva di appartenere al paese.
Già
quand’era ragazzo la piccola frazione non aveva molti abitanti. Ora erano
rimaste solo poche famiglie di gente anziana. Alla sera quando quei quattro
vecchi si ritiravano nelle loro case, girando per le strade deserte, si capiva che cosa fosse veramente la voce
del silenzio. Nel fruscio d’una foglia,
nel cigolare d’un ferro, nello scricchiolare d’un legno, il silenzio prendeva
la voce di loro: di quelli che erano già stati, di quelli che avevano lucidato
con i loro piedi i sassi del selciato, di quelli che avevano costruito con le
loro mani, pietra su pietra, i muri che chiudevano ai lati le strade. Corridoi
stretti che sfociavano nel buio senza fine della campagna circostante, oltre la
fioca luce dei pochi lampioni.
Non
era un paese di case, ma di vicoli stretti, segnati dalle ombre rotte da
chiazze di luce. Il dondolio dei lampioni, al respiro della notte portato dalla
brezza, muoveva le ombre, e tornavano le
persone di allora, i vecchi che pareva venissero dalla notte dei tempi e che si
sarebbero dovuti fermare per l’eternità tra quelle case. Eternamente vecchi ed
eternamente fuori dal tempo nei loro nomi così strani come usciti da antiche
leggende: Miàn da Midèse, Pièri di Bài, Sciulìn di Cròdie...
Per
esorcizzare quelle presenze, forse erano nate le leggende, nel tentativo di
trasferire nella dimensione della
favola ciò che faceva paura nella
realtà. E quei rumori che spezzavano con un brivido l’opprimente silenzio delle
calli dalla luce incerta, degli androni bui, era l’incespicare dei folletti
della notte, nelle cose degli uomini.
Sbilfs
li chiamavano i vecchi. Ed ogni rumore aveva un nome. Era Licj che si divertiva
a far saltare le cuciture, Braulin ad aggrovigliare le corde, Bèrgul a far
inciampare la gente. Ed assieme agli sbilfs burloni che giravano per le strade
c’erano anche quelli cattivi che si muovevano impazziti, come il vento di
marzo, cercando di infiltrarsi a forza nelle case degli uomini.
Cascugnìt
che faceva perdere la testa alle donne inducendole ad invaghirsi senza ragione delle persone più
sbagliate, e le costringeva poi a girare
per le strade, anche di notte,
come trasognate, e Cialcjùt
che riusciva ad entrare nelle
case, insinuandosi persino tra le fessure tra sasso e sasso, per
divertirsi, sadico, a trasformare in
incubi i sogni nei quali i poveri
montanari cercavano di dimenticare la vita grama che si viveva su quelle
montagne.
All’inizio
dell’estate, aveva appena preso ad abitare la casa, nei fine settimana, anche
se i lavori erano ancora in corso, quando una sera era venuta da lui Maria La
Svualda. Era anche lei una sua coetanea. A differenza dell’altra Maria, era
stata sposata, aveva avuto due figli che avevano messo su famiglia in Germania.
Erano anni ormai, che non venivano però
a trovarla. Da anni le era morto il
marito, ed anche lei era sola. Anche per
lei s’era chiusa la parentesi, ed era rimasta soltanto la solitudine che
cercava di riempire con i sogni di quando era bambina, per dimenticarsi della
vita che aveva inutilmente sprecato..
Le
dispiaceva soprattutto per i figli: il non sapere dove fossero. L’indirizzo lo
conosceva con quei nomi così strani fatti di “h” e di “k”, ma non era mai stata
a vedere dove abitavano. Non riuscendo ad immaginarsi il paesaggio nel quale
vivevano, le pareva che fossero finiti nel vuoto o nel nulla, e quando pensava
a loro le prendeva appunto una sensazione di vuoto. Per il marito invece, non
le dispiaceva certo che fosse finito il tormento d’una convivenza con un
ubriacone volgare e violento...
Perché
l’aveva sposato allora? Ma!... Nella vita sono più le cose che ti accadono di
quelle che scegli, per cui alla fine, non sai se anche che ciò che credi di aver
scelto, ti è stato invece in qualche modo imposto dagli eventi... Non era però
venuta da lui per parlagli della sua vita e del suo passato. No, l’aveva scelto
per confidarsi con lui d’un sogno che aveva cominciato a fare con molta
frequenza, dopo la morte del marito. Si ripeteva sempre uguale...
Già
alle prime battute Luciano s’era trovato a pensare che sembrava la prosecuzione
dell’altro. Iniziava con il cimitero. Non c’era l’immagine delle tombe, ma come
la sensazione di averle appena viste. Era come se il sogno che le veniva
raccontato, partisse da dove finiva quella di Maria da Mede, come
si trattasse d’un altro capitolo della stessa storia.
Nel
sogno lei si vedeva ancora giovane ragazza, con l’impressione d’essere appena
rientrata dal cimitero dove si era recata, malgrado fosse notte. E lei di notte
non avrebbe certo avuto il coraggio di entrare in un cimitero. Si vedeva,
incapace di riprendere sonno, a guardare dalla finestra della sua camera, le
rare luci che giù nella valle segnalavano i vari paesi. Nel profondo della
notte vedeva muoversi delle luci sulle
strade e sui sentieri della montagna opposta.
Anche ad ore impossibili c’era qualcuno che si muoveva, che pensava...
Ed
anche lei pensava a quegli uomini chiusi
ognuno in un proprio mondo di angosce, e chiedendosi quale fosse il senso della
loro esistenza, cercava di trovare un senso alla propria: tanti lumi in attesa
di spegnersi, come lucciole impazzite nella preoccupazione di non venir meno al
proprio compito, senza riuscire a comprendere il disegno complessivo nel quale
la casualità della nascita, le aveva
collocate.
Poi,
si faceva mattina prima ancora dell’alba, e la montagna di fronte si animava di
tante piccole luci, che si spostavano lentamente, seguendo i sentieri per
raggiungere i vari stavoli disseminati su quei prati.
Erano
le donne che con sulla schiena una gerla carica d’erba, e sulle spalle
l’arconcello alle cui estremità erano appesi i recipienti per portare il latte,
facendosi luce con il lampione a petrolio
che portavano in mano, si recavano sulla montagna per governare le
mucche.
Pensava
a quelle donne e si chiedeva perché
anche la sua vita avrebbe dovuto svilupparsi con quei gesti, con quei
riti, guadagnando la sopravvivenza a
prezzo di fatiche senza senso.
Guardando a quelle luci, le vedeva moltiplicarsi, come
se le donne che avevano percorso quei sentieri negli anni e nei secoli
precedenti, uscissero assieme dal cimitero per ripercorrere unite nell’eternità
quei percorsi nei quali si erano succedute, in vita, di generazione in
generazione, e si sentiva sgomenta di
fronte a quella miriade di fuochi fatui in movimento, per i quali stava così
poco a finire l’olio della lampada, o sarebbe bastata una folata improvvisa di vento.
Poi
nel sogno uno di quei fuochi si staccava dagli altri per venire verso di lei.
Avvicinandosi si ingrandiva, diventava un fiamma sempre più viva e quindi un incendio che la
avvolgeva. E nel fuoco era come se
cambiasse scena. Era sempre lei
che guardava al buio della montagna di fronte, ma lei era un’altra ragazza,
vestita in modo diverso, la casa era costruita in modo più rustico, si vedevano
i sassi della muratura, non c’era l’intonaco.
Sentiva
ancora d’essere quella ragazza, la vedeva come la sua immagine riflessa in uno
specchio, ma allo stesso tempo la avvertiva come diversa, come se fosse
diventata un’altra persona. Di fronte
alle scena lei si sentiva come uno
spettatore che guarda ad un film. Pur rivivendolo con una completa
immedesimazione nei personaggi, pur partecipandovi con una grande intensità,
come se veramente fosse stata la protagonista,
intuiva tuttavia chiaramente che si trattava d’una scena, che si
svolgeva al di fuori di lei, in un’altra dimensione.
E
la ragazza alla finestra, con le sue sembianze, ma vestita in modo strano, ora
era preoccupata perché aveva ceduto al bisogno di sfogarsi, di raccontare della
sensazione che provava nel recarsi di notte in visita al cimitero, ed a parlare
con i morti. Si era confidata con il ragazzo che aveva preso a frequentarla.
Perché l’aveva fatto? Un segreto così preoccupante l’avrebbe potuto confidare
forse alla madre, ma non certo ad un ragazzo che
conosceva appena. Eppure gliene aveva parlato...
Ed
ora non si rendeva neppure conto del perché l’avesse fatto, del perché aveva
spaventato l’amico, con il racconto d’una esperienza che forse era soltanto una sensazione. Aveva
così messo a rischio una relazione alla quale teneva molto, con la
possibilità per giunta, che il ragazzo
ne parlasse con altri, chissà con quali conseguenze...Forse aveva immaginato di
poterlo legare a sé nella condivisione di quel segreto. Poteva essere una
spiegazione per il proprio comportamento, ma restava il fatto che non erano
cose da raccontarsi al primo venuto...
In
effetti il ragazzo (sembrava suo marito da giovane, commentava Maria
interrompendo il racconto, ma pure lui era vestito in modo strano) ne aveva voluto parlare con
il parroco. Questi l’aveva subito
convinto che aveva l’obbligo, se non voleva finire tra le fiamme
dell’inferno, di ripetere il racconto al frate inquisitore che stava in città.
Dai
particolari avuti dal giovane, il frate s’era subito convinto d’avere a che fare finalmente con un vero caso di
possessione demoniaca e non con i soliti bestemmiatori, denunciati dai vicini, per farsi delle vendette
a buon mercato.
Si
chiamava Rodolfo il Glabro il frate inquisitore. Anche lei ne aveva forse già
sentito parlare nei racconti del parroco. Veniva da Venezia da dove era stato
mandato a fare penitenza tra quelle montagne.
Non si sapeva di che cosa dovesse fare penitenza, ma comunque non era
certo una persona che ispirasse fiducia. Era piccolo, grasso e sudaticcio.
Dava
l’impressione d’essere affaticato dal peso della tonaca, come se lo strato di
grasso che ricopriva il suo corpo si fosse attaccato alla tonaca e si muovesse
con quella. Come al maiale, quando è pronto per essere ucciso, il grasso cola
dalla gola in sacche flaccide, così avresti pensato che il frate avesse tutto
il corpo coperto di sacche del genere, piene di grasso, flaccido e molliccio.
Un
po’ costretto dalla necessità di strascinarsi dietro la bardatura di grasso, un
po’ per un vizio congenito, camminava strisciando avanti i piedi l’un dopo
l’altro, quasi senza muovere le ginocchia, Così facendo, dimenava il sedere,
facendo ondeggiare la tonaca, assieme al grasso che si poteva immaginare
penzolasse dalle natiche.
Il
soprannome di Glabro gli derivava dal fatto che la testa fuoriusciva dalla
tonaca, come fosse un unico blocco di carne, senza collo e senza mento, e
finiva in una completa pelata. Anche la pelle sul cranio, era morbida e
flaccida, come quella delle guance.
Immaginando
di poter risolvere finalmente un caso importante, forse anche guadagnandosi la
possibilità di rientrare in città, aveva quindi lasciato ogni cosa, ed era salito in fretta al paese per affrontare
immediatamente la situazione. Dal vecchio prete del paese, si era fatto accompagnare al casolare.
“Guardi”
gli diceva il prete, già pentito di aver avviato uno scandalo della dimensione
che intravedeva nelle parole dell’inquisitore.
“Ho
detto io al giovane di venire a parlarle”.
“Come era suo dovere!”.
“Certo!”,
replicava il vecchio ansimando, seguendo a fatica il frate che quasi correva,
nella foga di arrivare ad assumere un caso dal quale si attendeva la fama che
aveva inutilmente cercato fino a quel momento. “Ma conosco bene la ragazza. E’
una brava giovane, che frequenta la Chiesa, i sacramenti... è devota”.
“Lei
non sa!..”
“Certo!
non ho i suoi studi. Ma la mia esperienza...”
“Ma
che esperienza ha lei del diavolo?”
“Fortunatamente
nessuna! Dicevo dell’esperienza di vita!”
“Lasci
giudicare a me! Che qui ci vuol altro che esperienza di vita”.
E
intanto era toccato a lui, mormorava tra sé il vecchio parroco, presentare l’inquisitore ai genitori e
cercare di far capire loro che la figlia..., poteva essere...
“Era!”
lo correggeva perentorio l’inquisitore.
“Si!
Certo! Era... come dire... forse poteva aver incontrato il diavolo”.
La
madre si sentiva mancare. Il padre invece, cominciava ad imprecare e a dire che
a casa sua non voleva preti e tantomeno inquisitori, che la sua non era la casa
del diavolo. A sentire quegli spropositi sulla figlia, l’uomo si lasciava
andare a tanti altri spropositi ed imprecazioni che, se non fosse stato lì per un caso ben più importante, frate
Rodolfo l’avrebbe fatto arrestare subito, per bestemmia ed eresia.
Per
fortuna, s’era ripresa sua madre. Si rendeva conto della situazione e pur non riuscendo ad immaginare
che cosa fosse all’origine di quell’equivoco, tuttavia capiva che era meglio
assecondare quegli uomini di chiesa, e soprattutto quello che veniva dalla
città, con quella testa tutta lucida da far
impressione.
“Scusatelo!”
intervenne. E’ fatto così, si lascia trasportare dal discorso e non sa quello
che dice. E così, che cosa avrebbe fatto
nostra figlia?...”
“Nulla!
Dobbiamo solo accertare” disse il frate. “La Chiesa deve accertare!” Messa così
la cosa sul piano dell’ufficialità della Chiesa che doveva accertare, anche suo
padre aveva capito che la cosa era seria, che non poteva opporsi.
“Cosa
dovremmo fare?” chiese.
“Dov’è vostra figlia?” domandò il frate.
“Al
pascolo.”
“Quando
ritorna vorrei star solo con lei”
“Va
bene! Se è la Chiesa che lo vuole. E per quanto?”
“Tutta
la notte”
“E
noi?”
“Cercate
ospitalità da qualcuno in paese!”
Ma
come avrebbero potuto? Che spiegazioni avrebbero dato per chiedere ospitalità?
Che c’è un frate che vuol passare la notte solo con la figlia?. La cosa non aveva proprio senso! E
c’era poi da fidarsi a lasciare una ragazza sola con quel mostricciattolo informe? Si fa peccato solo a
dubitare d’un frate... La tonaca deve
valere a garanzia della serietà dell’uomo...
Tuttavia non si fidava. Non afferrava il senso
di quella strana situazione, eppure capiva di essere costretto ad assecondare
quel frate. Infine aveva pensato che suo fratello, in paese, avrebbe in qualche
modo capito, e un posto per passare la notte l’avrebbero trovato... se questo
poteva servire alla figlia…
“Dobbiamo
andare a chiamarla?”
“No!
Attendiamola qui. E’ meglio che non sospetti nulla.”
Era
già buio fitto quando lei era tornata
dalla stalla nella quale aveva rinchiuso le mucche riportate dal pascolo. Dovette arrivare
proprio vicino alle persone che stavano parlando nel cortile per rendersi conto
di chi fossero. Quando s’accorse che c’era il parroco, accompagnato da un frate
si sentì mancare.
“Come?”
le era venuto di pensare “ha già parlato?” Si augurò comunque che i due fossero lì per qualche altro motivo
Salutò
imbarazzata, avvertendo anche l’imbarazzo dei suoi. ..
“Il
padre cappuccino, qui,” le disse la madre, vuole farti delle domande. Vuole
sentirti da sola. Noi andiamo in paese. Poi, per non preoccuparla, aggiunse:
“Torneremo più tardi!”. Lei aveva capito che s’erano già accordati, che era stato già tutto deciso, che non le
restava se non di obbedire.
“Si
accomodi!” aveva detto allora al frate,
invitandolo ad entrare in casa, e lo aveva seguito, dopo aver salutato gli
altri tre che partivano per andare in paese.
Nelle
relazioni tra gli uomini ci sono momenti magici nei quali, d’incanto nasce un
rapporto. Può trattarsi d’un rapporto positivo o negativo, può nascere un
sentimento d’amore o un sentimento di odio, un’attrazione o una repulsione.
Appena la intravide, al fioco lume delle lampada ad olio che rompeva l’oscurità
del casolare, il frate aveva provato un brivido di desiderio.
Era
sudata ed accaldata per la corsa che aveva fatto per radunare le mucche. Era vestita con una corta vestaglia che al frate poteva
sembrare fatta più per mostrare che per
coprire... Poteva dare l’impressione
d’uno straccio posato a caso, a rendere più viva la sorpresa d’un corpo che
sembrava preso dal desiderio di darsi..
Lei
non la pensava evidentemente allo stesso modo, ma capita spesso che si vedano
gli altri come proiezione di sé stessi immaginando che la realtà debba
conformarsi ai propri desideri...
Le spalle scoperte per far aria al viso,
lasciavano intravedere i seni. Le gambe allargate sulla sedia nella quale sia
era buttata a prendere fiato, avevano fatto scivolare in alto la vestaglia,
lasciando ben poco all’immaginazione del frate.
Rodolfo
cercava di ricordarsi quel che significava la veste che portava, del suo dovere
di resistere al demonio, visto che era entrato in quella casa proprio per
controllare che il demonio non si fosse impossessato di quella ragazza. Si sforzò anche di concentrarsi sui suoi
obblighi di inquisitore e sulla prassi che doveva seguire per fare il suo
dovere, tentando di riprendere con la ragione una situazione
che per i sensi era già precipitata.
Tossì
per cercare le parole con le quali iniziare l’indagine per la quale era venuto.
Lei avvertì in quel colpo di tosse un richiamo a stare più composta. Si scusò
di non aver avuto il tempo per vestirsi come si conveniva. Raccolse e abbottonò
la vestaglia sul petto, e si cinse, (come
forse era solita fare), con un drappo di canapa con il quale aveva
formato una sorta di gonna lunga
lasciando la vestaglia a fare da sottoveste.
Si
scusò di nuovo perché non ci aveva pensato prima. “Sa, la fretta, il caldo...”
“Si,
capisco...” aveva detto lui, e la sua voce tremava. “Sai perché sono qui?”
“Perché
ho parlato con un ragazzo che facevo meno stupido di quanto si è rivelato”.
Avrebbe dovuto dire, se fosse stata sincera, pensò tuttavia che era il caso di
non dir nulla, senza sapere prima che
cosa volesse veramente il frate. Forse era un altro il motivo per il quale era
venuto.... “No, non lo so” aveva detto infine, esitando.
“Che
cosa sono i riti satanici ai quali hai partecipato in cimitero?” aveva chiesto allora lui. Lei non capiva
perché nel fare la domanda gli tremasse la voce. Di fronte a quella richiesta
comunque, non aveva avuto più dubbi sul motivo della visita. Nelle parole “riti
satanici” aveva avvertito però anche tutta la gravità della situazione. Pensava
tuttavia di non doversi preoccupare più di tanto, perchè in qualche modo
sarebbe riuscita a spiegarsi. Era
dispiaciuta più che preoccupata. Era dispiaciuta per il ragazzo: se
aveva parlato, allora voleva dire che
l’aveva tradita, e che quindi l’aveva perduto.. e questo le dispiaceva, più
delle complicazioni che le sarebbero potute derivare dal frate....
“No!
No!” rispose, senza forza, come rassegnata a spiegare tutto il resto senza
importanza, ora che sapeva d’aver perso
l’unica cosa che, in quella vicenda,
aveva importanza per lei. “Non so
che cosa vi abbiano detto, ma non c’è stato nessun rito satanico”
“E’
vero,” aveva aggiunto, “che alle volte mi pare di sentire la voce di qualcuno
che mi chiama, che ho l’impressione di andare al cimitero, ma è solo una
sensazione e in effetti io non faccio nulla, non prendo nessuna
iniziativa. Ne avrei voluto parlare con
il parroco, ma non ho mai trovato il coraggio...”
Ma
lui non l’aveva sentita. I gesti di lei per nascondere il suo corpo avevano
soltanto reso in lui più vivo il desiderio. Si era sentito dentro un’onda di
fuoco che lo riempiva e che voleva tracimare. La subiva, inarrestabile,
mentre lo spingeva contro quella carne giovane e sudata.
Le
si avvicinò posandole una mano sul petto.
Lei
sentì il sudore di quella mano tremare contro il sudore del suo petto, vide gli
occhi del frate stralunati ed ebbe paura.
“Che
sta facendo?” gli chiese, prendendo con tutte e due le mani la mano del frate,
e spingendola lontano.
“Non
ti faccio niente,” biascicò lui, “lascia soltanto che ti accarezzi”.
“Non
voglio!” gridò lei.
Il
suo grido fu come il tuono che rompe l’argine, e l’impeto del torrente si
rovesciò su di lei con una furia incontenibile, travolgendola.
Lei
urlò, pianse, si dibattè come una vera indemoniata. Certamente sua madre, che non era ancora arrivata in paese, l’aveva sentita. Ma aveva sempre
saputo, la donna, che il demonio prima di rinunciare alle sue
vittime, urla e si ribella. Quelle grida purtroppo, (avrà pensato
certamente), erano la conferma che il frate inquisitore aveva trovato il
diavolo, come aveva sospettato, ed ora
lo stava scacciando.
Quando
il Glabro fu stanco di palparla, di leccarla e di possederla, giacque esausto
sulla panca che circondava il focolare e lei si lasciò cadere sulle pietre
levigate del pavimento.
Si
sentiva sporca. Altre volte era caduta nel fango, anche nel letame le era
capitato di cadere, ma mai s’era sentita così lurida. Il sudore del frate era
entrato nella sua pelle e si guardava le mani e le braccia con lo stesso schifo
con il quale guardava al frate. Doveva far qualcosa per pulirsi, non avrebbe
potuto più vivere con quella sporcizia addosso. Immaginò il sangue uscire da quel corpo flaccido e
obeso, disteso sulla panca e capì che neppure quel sangue l’avrebbe pulita.
Anche se l’avesse ucciso, nulla sarebbe cambiato per lei.
Uscì
allora nella notte e prese a camminare sul sentiero che portava verso la
montagna.
Il
cielo era terso, splendeva la luna, brillavano le stelle. Tutto era così bello,
così pulito e puro. L’aria sfiorava l’erba come se la volesse spazzare dalla
polvere del giorno, filtrava tra i rami degli alberi a pulire anche le foglie,
ma non riusciva a pulire la sua pelle. Al contatto provava un brivido, ma non
di freddo: era la sua pelle che si irrigidiva che non riusciva a lasciarsi
pulire. La luna che in tante storie sentite nelle stalle, inseguiva nella notte
con il rimorso gli assassini, ora inseguiva anche lei. Non era rimorso il suo,
non era vergogna, (colpe non ne aveva!),
era un senso di nausea e di ripugnanza nei confronti del proprio corpo.
Il
sentiero entrava nel bosco fitto di faggi. Aveva sempre avuto paura anche di
giorno ad attraversarlo. Ma ormai non c’era nulla che le potesse fare paura. Che cosa avrebbe dovuto temere? E poi
non si sentiva sola. Come in una processione sentiva che c’era tanta gente
dietro di lei che la seguiva, incitandola ad andare.
“Ma
sai dove?” le mormoravano tra le fronde.
“Certo
che so!” rispondeva.
Le
tornava in mente la parabola degli
indemoniati di Gadara. Erano in due, usciti da un cimitero, ed erano venuti
contro Cristo urlando infuriati. Avevano capito, i demoni, che il Signore li
voleva mandare via dal corpo degli uomini di cui si erano impossessati e
ributtarli all’inferno. Domandarono
allora un favore.
C’era
lì accanto dei maiali che pascolavano, e
loro chiesero: “Se ci vuoi scacciare, mandaci nel branco dei maiali!”
Gesù
disse loro: “Andate!”
Essi
uscirono ed entrarono nei maiali. Subito tutto il branco si mise a correre giù
per la discesa, si precipitò nel lago e gli animali morirono annegati.
Ecco
lei ora era più sudicia dei maiali. Lo schifo di quella carne flaccida sudata e
maleodorante era entrato in lei. Il demonio che aveva preso il frate, ora si
era trasferito in lei, e toccava a lei
compiere l’opera del Signore.
Al
limitare del bosco gli alberi diventavano più radi e cominciò a sentire il
rumore dell’acqua. Il sentiero deviava in basso verso il torrente e lei prese a
correre, come rispondendo ad un richiamo improvviso.
Non
era un grande torrente. Nasceva poco più sopra, ma subito si gonfiava
raccogliendo tutta l’acqua della montagna e precipitava in un orrido che s’era
scavato nei millenni, stretto e profondo. Per attraversarlo sarebbe stato
necessario risalire fino alla sorgente, ma gli abitanti di Vàs, il paese al di
là del torrente, per abbreviare il percorso, avevano realizzato un ponte di
corde nel punto più stretto. Le due rive in quel punto, sembrava volessero
toccarsi, e non era stato difficile congiungerle con il ponte. Ma quel che non
aveva potuto in larghezza l’acqua l’aveva guadagnato in profondità. Scorreva
tanto nel profondo che non si riusciva a
vederla. S’udiva soltanto rimbombare il frastuono della corrente che si scagliava contro le
rocce.
Era
il Vinadia. Le storie di dannati che aveva sentito da bambina raccontare nella
stalle finivano tutte in quel posto, e lì sapeva che sarebbe finita anche la
sua.
L’avevano
cercata per giorni non riuscendo a capire per quale sortilegio avesse potuto
finire nel nulla.
All’alba
suo padre tornando al casolare, aveva trovato un frate distrutto dalla fatica
d’una nottata passata a scacciare demoni.
“E
Maria ?”, gli aveva chiesto.
“Ma!”
aveva borbottato il frate tirandosi su dal bancone dietro al focolare, sul
quale aveva dormito. “L’ultima volta che l’ho vista, prima di addormentarmi,
era seduta lì, a terra”.
“E
come era?”
“Stanca...
Anche lei...” aveva precisato il frate, poi, a scanso d’equivoci aveva
aggiunto, “ma finalmente serena!”.
L’uomo
non sapeva cosa pensare, perché veramente, sua figlia serena lo era sempre
stata. Anzi! Anche troppo. Grilli per la testa? Certo! Ma diavoli no...
Mentre
la cercavano aveva sentito la testimonianza del ragazzo che cominciava a farle
la corte. Ma anche lui era sempre più incerto nel ricordo. Non riusciva più a
precisare ciò che veramente le aveva raccontato Maria sui suoi rapporti con i
morti, con il cimitero.
Anche
il frate inquisitore, con la profonda conoscenza che gli veniva dai suoi studi,
escludeva comunque si fosse volatilizzata...
“Anche”
diceva, “nella peggiore delle ipotesi che il diavolo sia rientrato in lei
mentre dormivo, la casistica non riporta di indemoniati che siano spariti nel
nulla. Il diavolo sa che il corpo deve essere reso alla terra!”.
Il
corpo invece se l’era tenuto il Vinadia. L’acqua alcuni giorni dopo, più a
valle, dove il torrente s’apre prima di confluire nel Tagliamento, aveva
deposto sulla sabbia i vestiti stracciati. Rodolfo il Glabro allora sentenziò
che, come purtroppo aveva sospettato, il diavolo se l’era ripresa mentre lui
dormiva, e l’aveva portata a suicidarsi.
Non
finiva di dispiacersi, per non aver avuto più fisico e resistenza. Si sentiva
colpevole, e aggiungeva anche che avrebbe portato sulla coscienza per tutta la
vita il peso di quella morte:
“Se
non mi fossi lasciato prendere dal sonno,” mormorava, “lei non sarebbe morta”.
Con
quelle parole del frate nelle orecchie, concludeva Maria il suo racconto, anche
lei finalmente si svegliava. Ogni volta stanca e vuota, come uno straccio, come
i vestiti della donna del sogno abbandonati sul greto del torrente.
“Lei
non sarebbe morta!” Sentiva rintronare nella mente, anche da sveglia le parole
del frate. Ogni volta lo stesso sogno, sempre uguale, con le stesse parole.
Ogni volta lo stesso risveglio, con quelle parole e con un profondo senso di
nausea…
Cap. 5.
Vinadia.
Quello della terza
delle Marie, s’era subito detto, non era il racconto d’un sogno. Sugli altri ci
potevano essere dei dubbi, ma questo era, sia per quanto riguardava il
contenuto che la forma, una leggenda e non un sogno. E’ vero che anche lei
aveva precisato di rivivere da un certo
punto la scena come ne fosse fuori, ma il sogno è qualcosa che si vive da
protagonisti, non è possibile ricordarlo
ed allo stesso tempo ricordare di esserne stati fuori. Non si possono riportare
scene e dialoghi come se fossero vissuti da altri e non dalla protagonista del
sogno. I suoi genitori che parlano con il frate, sono elementi d’un racconto,
non d’un sogno.
I personaggi del
sogno sono riconoscibili soltanto all’interno del sogno stesso. Non si può dire
del frate d’un sogno che “si chiamava Rodolfo il Glabro” e riportare elementi
esterni alla vicenda del sogno. Comunque, ciò che gli pareva straordinario, era il fatto che avendoglielo
fatto ripetere più volte, l’aveva raccontato con le stesse parole, le stesse
battute, come una favola imparata a memoria. Diceva di raccontare un sogno ma
in effetti, come anche lei aveva notato, era come se avesse raccontato un film
nel quale si riconosceva come attore protagonista, ma del quale riportava anche
le scene nelle quali non compariva. La sua era evidentemente una leggenda, che
non si capiva bene perché si ostinava a raccontare come sogno.
Probabilmente
nella sua solitudine la donna riviveva il sogno da sveglia e ne aveva fatto un
racconto che ripeteva a se stessa, mescolando elementi del sogno con
reminiscenze di racconti che aveva sentito. Il frate con quel nome così strano
era certamente importato da un altro racconto. Non a caso infatti, anche lei
aveva lo stesso soprannome della protagonista d’una leggenda popolare ambientata proprio sul torrente
Vinadia, ove moriva suicidandosi anche la protagonista del suo racconto.
Luciano ricordava
d’aver ascoltato da bambino la storia di Maria Svualda. Il soprannome “svualda”
in friulano vuol dire ragazza leggera sia nel senso di facili costumi che
soltanto amante di cose futili, dedita al ballo piuttosto che al lavoro. Per
Maria la sua coetanea, il soprannome non aveva nulla a che vedere con i suoi
comportamenti, era quello della
famiglia, e le era derivato probabilmente dal fatto che qualche sua antenata
s’era meritata questo soprannome, come l’altra Maria si chiamava “da Mede”, a
causa di Rinaldo.
Maria poteva aver
letto o sentito la leggenda di questa sua omonima, e la sua immaginazione
poteva aver ricostruito nel sogno una vicenda che finiva nel Vinadia. Lì
d’altra parte, in quell’orrido, vicino al paese, finivano quasi tutte anche le
altre storie di streghe e dannati…
Ma ciò che più lo
sorprendeva del racconto era il fatto che
quello della Svualda, era in un certo modo la continuazione del racconto di Mede.
Poiché ambedue dicevano che capitava loro
di fare quel sogno in continuazione,
sembrava quasi che la stessa vicenda tornasse a rivivere ripetendosi nel sogno,
sdoppiata in due persone. Ma l’enfasi con la quale, in quella della Svualda, si
viveva il tema dell’inquisizione, che collegamento poteva avere con l’altra,
che riferimento con il mondo dei Celti, al quale in qualche modo gli pareva
d’essere riuscito a collegare l’altro sogno?…
Stava pensando a
queste cose, ponendosi queste domande un giorno dopo che Maria se n’era andata,
avendogli ripetuto per l’ennesima volta lo stesso racconto, quando gli venne
l’idea di rileggere la leggenda di Maria Svualda, per vedere se riusciva o
ricostruire una qualche relazione con il racconto del sogno.
Cercò nei pochi
libri che aveva cominciato a portare nella libreria con la quale aveva arredato
un’intera parete del salotto. La dimensione degli scaffali testimoniava del suo
desiderio di fare di quella casa un rifugio per potersi dedicare alla lettura e
allo studio. C’erano ancora però soltanto pochi libri. Alcuni accatastati alla
rinfusa, altri già affiancati con un certo ordine. Soprattutto quelli sulla
storia dei Celti: Il mistero dei celti di Gerhard Herm, l’Impero dei Celti di Peter Berresford Ellis, I Celti di Powell
e tanti altri.
Non fece fatica a rintracciare la raccolta di
leggende locali. Era una dei primi che aveva portato. Aveva riletto molte parti
anche in relazione agli studi che aveva preso a fare sui Celti, pensando che
alcune di quelle leggende potessero risalire ancora al periodo pre-romano..
Si lasciò
sprofondare nella poltrona e lesse di nuovo che Maria Svualda era una ragazza
alla quale piaceva sopra ogni cosa ballare. Un giorno mentre attraversava il
bosco del Bant sopra il Vinadia, fu sorpresa da una strana musica, dal ritmo
vibrante che coinvolgeva nella danza, ma dalla melodia lugubre e lamentosa. Si
mosse nella direzione dalla quale arrivavano i suoni e sbucò in una radura
piena di sole in mezzo alla quale in un cerchio d’erba falciata di fresco,
danzavano scatenati un gruppo di Sbilfs.
Come quando nelle feste del paese si ballava sulla
piazza, non riuscì a trattenersi ed entrò anche lei a ballare. Le si avvicinò
un giovane bellissimo per farle da cavaliere. Assieme danzarono freneticamente,
senza un attimo di sosta al ritmo della musica che sembrava uscire dalla terra,
scendere dagli alberi, filtrare con l’aria dentro di loro.
Mentre si lasciava trasportare dal suono,
accompagnata dal giovane con il quale aveva trovato un’intesa perfetta, sentì
qualcosa pungerle un piede. Si chinò per vedere che cosa fosse stato e vide un
grosso chiodo arrugginito. Lo raccolse per gettarlo lontano e... si ritrovò sola
in una radura piena di erbacce, nel bosco che lasciava trasudare una fitta
nebbia, sotto una pioggia battente e fredda.
Tutto era così diverso ed anche lei si sentiva
diversa. Si sentiva vecchia, sempre più vecchia come se la nebbia l’avesse
penetrata e facesse marcire le sue membra. E gli aghi di pioggia che la
colpivano presero a scioglierla, come fosse un pupazzo di neve, trasformandola
in un rivolo d’acqua biancastra che precipitò di balza in balza fino a perdersi
nelle profondità del torrente Vinadia. “Di lei non rimase che la voce
implorante, e ancor oggi c’è qualcuno che giura di sentirla, quella voce
lamentosa, mentre si perde nelle gole del Vinadia”.
Il libro era
scivolato sul pavimento a fianco della poltrona, anche lui aveva provato per un
attimo la sensazione di sciogliersi in quell’acqua biancastra e, nel sogno, si
era ritrovato sulla spalletta del ponte
sul Vinadia a guardare l’acqua che scendeva scagliandosi con forza contro una
parete per rimbalzare su quella opposta e perdersi nel labirinto scavato attimo
per attimo nei secoli e nei millenni...
E lo sguardo che
inseguiva l’acqua mentre spariva tra le
rocce aveva incontrato Maria Svualda che lo chiamava. Era su un costone appena
lambito dagli spruzzi che scintillavano in
un vorticare di luce al riflesso della luna. Nuda come una ninfa, appena uscita
dall’acqua ad asciugarsi nei riflessi di luce.
Davanti a quella
apparizione aveva subito pensato a Maria, della quale s’erano ritrovati solo i
vestiti più a valle. Non era la donna ormai anziana che gli aveva fatto il
racconto, ma la giovane che aveva subito le violenze del frate, con il volto di
Maria come lo ricordava da bambina.
Nel frastuono
fatto dall’acqua, non s’udiva chiaramente cosa dicesse la sua voce, ma gli
pareva comunque che stesse ripetendo il suo nome. Con ampi gesti delle mani lo
invitava ad andare, a raggiungerla. Ma come poteva scendere fin laggiù? Si
guardava attorno esitando senza trovare traccia d’un sentiero, ma quando
invece, superando ogni paura, si decise a seguirla, per quelle soluzioni che
avvengono soltanto nei sogni, riuscì a scendere
leggero come una foglia che d’autunno si lascia cadere dall’albero.
Arrivandole vicino s’accorse che non era più lei... Maria
aveva i capelli neri, mentre la ragazza
che l’aveva chiamato dalle forre del Vinadia,
invece li aveva biondi, raccolti
ed intrecciati a formare un casco sulla nuca... Come avrebbe fatto Maria,
quando giocavano bambini, mentre stava per raggiungerla, anche la ragazza che aveva preso il posto di lei, fuggì costringendolo a seguirla.
Scese fino ad un
piccolo specchio d’acqua che stagnava tranquilla, su un’ansa nascosta, sulla
quale non riusciva a riversarsi la furia della corrente. Immersa nella polla
d’acqua come in una teca c’era una piccola statua di colore scuro, forse di
bronzo. Non era riprodotta con la perfezione delle forme dell’arte greca,
ricordava piuttosto l’arte etrusca. Il busto era doppio rispetto alle gambe
distanti e rigide, ma aveva la grazia dei disegni dei bambini. Sul viso erano
solo accennate le forme del naso della bocca e degli occhi. Con la mano
sinistra si copriva il sesso, mentre il braccio destro era piegato con la mano
sul cuore nell’atto del giuramento. Anche lei aveva i capelli raccolti in un
baschetto che scendeva a punta dietro alla nuca.
Un raggio di sole
parve illuminare la piccola statua e come un raggio di sole la ragazza si perse
nel riflesso dell’acqua, e nel riflesso anch’egli si sentì sciogliere tra
giochi di luce che la luna riusciva a disegnare fin nelle profondità più
recondite del torrente.
Vinadia! chiamò.
Nessuno glielo aveva detto, eppure sentiva e sapeva che Vinadia era il nome
della ragazza che l’aveva chiamato.
Vinadia! E il
richiamo si perse attutito nell’acqua nella quale gli pareva stesse filtrando
per sciogliersi anche il suo corpo.
Oltre l’acqua lei
c’era ancora. Era in un oceano di luce. Ma l’oceano è vuoto nel suo essere
infinito, è piatto sulla linea uguale dell’orizzonte, uniforme nella monotona
distesa d’acque. Quella luce invece aveva gli orizzonti che Luciano si portava
dentro nel pensiero, e l’alternarsi dei monti e del piano, del bosco e del
prato, dei fiori e dell’erba in una varietà infinita di sensazioni e di
emozioni rivissute nello stesso momento.
Lei non era più
nuda… non era neppure era vestita, non
aveva i capelli ed il viso, non aveva nulla. Era soltanto…
“Chi sei?” le
chiese.
“Già lo sai!”
rispose, “Vinadia, l’anima del torrente.”
Come avrebbe
potuto già saperlo? E come avrebbe poi potuto sapere che era l’anima del
torrente? Certo, aveva letto di come i Celti sentissero la poesia dell’acqua,
delle sorgenti e dei fiumi. L’acqua che sgorga dal sasso, è la vita che nasce
dal seme, è l’alba che nasce dalla notte, l’acqua è l’immagine d’una natura che
si trasforma in movimento e diviene. Per questo ogni fonte per i Celti aveva un
nome, e un nome aveva il torrente... il nome d’una ninfa, d’una divinità del
luogo che segnalava come anche quel
luogo fosse manifestazione dell’unica divinità dell’Essere Assoluto.
Pensò che gli
sarebbe stato più facile capirla se fosse riuscito ad inquadrare l’ambiente nel
quale si trovavano:
“Dove siamo?” le
chiese.
“Finalmente vivi!”
gli rispose.
Non era
evidentemente una risposta coerente. S’era addormentato pensando a Maria
sciolta nel Vinadia, ora si ritrovava con qualcuno che si definiva l’anima del
torrente Vinadia. Ma vivo era già prima, non aveva alcun motivo per dirsi
“finalmente vivo”.
“Se ti dicessi che
Vinadia è il nome d’una ragazza celtica”, riprese lei, “torneresti con il
pensiero a quello che hai letto sui Celti, e capiresti anche il senso delle mie
parole”.
Aveva in effetti
anche letto della necessità, per capire i Celti, di spogliarsi degli schemi
mentali che ci derivano dalla tradizione greca e latina. Il visibile e
l’invisibile, l’al di qua e l’al di là non devono essere intesi
materialisticamente come luoghi e quindi come dati inconciliabili.
Visibile ed
invisibile sono modi di essere dello stesso soggetto mortale. L’uomo può vivere
nello stato di mortalità o di immortalità, e da mortale può vivere nello stato
di visibile o di invisibile. Ne discende quindi che deve esistere anche un
mondo invisibile, che non è tuttavia fuori o diverso rispetto a quello
visibile, ma si compenetra e si fonde con questo. Diventa quindi possibile
pensare che ognuno di noi possa trasferirsi dal mondo visibile a quello
invisibile, se soltanto riesce a liberarsi delle maschere e delle scenografie
con le quali ci ha ricoperto la storia e la cultura.
Vinadia sorrise
compiaciuta come se avesse potuto ascoltare le sue riflessioni.
“Vieni! Andiamo!”
gli disse, prendendolo per mano.
“Dove?” chiese con
un filo di voce, sentendosi mancare come se stesse per svenire.
“Nel Sidh, nel
mondo dell’invisibile.”
S’incamminarono
per un prato d’erba fresca. Era primavera. All’erba appena spuntata
s’alternavano a macchie i bucaneve e le primule, e il luogo gli era
familiare...
Ecco infatti, il
prato era attraversato dal ruscello al quale giocava bambino assieme a Maria.
Costruiva con il fango piccole dighe per arrestare l’acqua. Ma questa saliva
lentamente nel piccolo invaso, per poi tracimare travolgendo alla fine anche
l’argine. E c’era ancora, che stava divertendosi con l’acqua, Maria l’amica
d’infanzia con la quale passava le ore giocando al ruscello. In un primo
momento sembrava ci fosse! Dall’altra parte del ruscello dove sempre si metteva
lei, c’era in effetti l’immagine di qualcuno... Ma non era l’amica, era lui,
era la sua immagine, come riflessa in uno specchio…
“Che ci fai lì?”
chiese come quando scherzando alla mattina, facendosi la barba, si parlava allo
specchio.
“Che ci fai tu
piuttosto?” domandò l’altro, per risposta.
“Dovrei chiederlo
a lei,” replicò Luciano, accennando a Vinadia. “Non so dove mi sta portando”.
Lei e l’immagine si fecero un cenno d’intesa. Gli fecero scavalcare il ruscello, e l’immagine prese la sua mano,
che intanto lei aveva lasciato. Camminavano assieme, identici, come in un
negozio di abbigliamento quando ci si mette a fianco dello specchio, per
controllare meglio come ti sta il vestito.
Si sentiva
attratto dalla immagine nello specchio, fino a fondersi in lei ed a credere che
quella fosse la realtà che generava l’immagine e non viceversa. Attratto dal
riflesso di sé, si sentiva trasportare nel vuoto, come se stesse precipitando.
Preso da un senso di vertigine, chiuse gli occhi. Quando li riaprì era in un
deserto. Solo. Non c’era più la sua immagine. O si era fuso lui nell’immagine?...
Ricomparve Vinadia
e si sentì rassicurato. Ma fu un attimo. Il tempo di avvertirne la presenza
come in un lampo, e la vide sciogliersi per riformarsi nelle sembianze d’una
orribile vecchia.
S’era appena
riavuto dallo spavento, che la vecchia prese a incalzarlo spintonandolo,
urtando la spalla contro la sua. Provava un senso di ribrezzo, ma non riusciva
a staccarsi. Come nell’autobus affollato quando ti si incolla addosso una
presenza sgradita, ma non riesci a spostarti, per liberarti.
“Che vuoi?” chiese
infine facendo il seccato, cercando di darsi un tono.
“Se vuoi queste
pietre le facciamo diventare soldi, le facciamo diventare pane?”
Non capiva il
senso di quella proposta, non capiva che analogia ci poteva essere tra quella
scena e quella del Vangelo, alla quale pure quelle parole gli sembrava che in
qualche modo dovessero riferirsi. Pensò
si trattasse d’una formula magica, a cui era tenuto a contrapporne
un’altra. Per fortuna si ricordava bene la risposta:
“Non di solo pane
vive l’uomo, ma di ogni parola che viene da Dio”.
Aveva pensato
giusto! A quelle parole la vecchia si era sciolta come aveva fatto prima Vinadia. Al suo posto
era comparso un uomo vestito come un romano, o meglio come un apostolo. Forse
gli faceva tornare in mente una figura
vista in qualche quadro di qualche
chiesa. Senza sapere bene perché, finì col pensare si trattasse di Giuda. Con
la nuova figura era cambiata anche la scena. Si trovavano ora sulle rive d’un lago.
“Hai cambiato
l’acqua in vino?” gli chiese, ma la domanda era retorica, “hai sfamato
cinquemila persone?” continuò, “hai guarito ogni sorta di malati?...
“Guarda che ti
sbagli,” lo interruppe Luciano, “non sono io...”
Ma l’altro
continuò come se non avesse sentito l’interruzione:
“Puoi anche
resuscitare i morti. Ma cosa credi di ottenere se anche lo facessi, oltre
all’ingratitudine ed all’invidia? Più darai agli altri e più gli altri ti
odieranno, offesi dalla provocazione del tuo comportamento, offesi dalla tua
disponibilità...”
Pensò a quale
potesse essere la formula per farlo smettere. Gli pareva d’essere finito in una
sorta di gioco a quiz...
“Ama il prossimo
tuo come te stesso!” si provò a dire. Esatto! Giuda infatti scomparve (se poi
era veramente Giuda!).
Cambiò di nuovo la
scena e si trovò in una prigione. Una di quelle dove i primi cristiani venivano
raccolti, per essere dati in pasto ai leoni. Accanto a lui invece di Giuda
c’era un angelo. Bianche e luminose le vesti e le ali (anche questa scena
l’aveva forse già vista in qualche quadro). E lui era condannato a morte, lo
sapeva, sarebbe stato crocefisso.
L’angelo però aveva in mano una spada fiammeggiante e si offriva di salvarlo.
Avrebbero ucciso, diceva, tutti gli ingrati e gli invidiosi e avrebbero fondato
il regno dell’amore.
Non aveva l’idea
di quale potesse essere la formula.
“Con la spada non
si fonda l’amore!” mormorò, ed era soltanto una riflessione tra sé e sé.
La frase fece comunque
l’effetto d’una formula magica, oppure intervenne qualcosa di estraneo che determinò lo
sviluppo della scena, si trovò infatti
di nuovo ai bordi del ruscello, e c’era di nuovo Vinadia, al posto di Maria l’amica
d’infanzia.
“Che strano
sogno!” ed era ancora soltanto una riflessione.
Ma forse senza
accorgersene aveva parlato e lei l’aveva sentito: “Non è un sogno,” replicò.
“Che altro può
essere stato se non un sogno! E poi la stranezza di mescolare con i Celti il
Vangelo!”
“Non c’è nulla di
strano, siamo nel mondo dell’invisibile dove il tempo e lo spazio si fondono
nei simboli. I simboli sono gli stessi, dovunque ed in ogni tempo, sono gli
strumenti con i quali il mondo invisibile interagisce con quello visibile. Non
ti ho portato in un luogo o in un tempo, ma nell’Invisibile nel Nostro Oriente
che non è un paese o una entità geografica, ma la patria e la giovinezza
dell’anima, il Dappertutto e l’In-Nessun luogo, l’unificazione di tutti i
tempi.
“E’ una citazione
da Hesse,” la interruppe, “Il pellegrinaggio in oriente.”
Sorrise. “L’ho
fatta, per aiutarti a capire. Hai incontrato il tuo essere quale avrebbe potuto
diventare, ma non è diventato. Avresti potuto fermarti a giocare al ruscello per continuare a vivere
la vita come un gioco...”
“Ma la vita non è
un gioco!”
“E che altro può
essere se non un gioco? Per noi, che voi chiamate “barbari”, era un gioco, per voi è diventata una
finzione e quindi una farsa, e questa la chiamate civiltà. Ingenuo è colui che
non si mette la maschera, che si presenta così com’è, ma per la vostra civiltà,
l’ingenuità è il più grande dei difetti...
Tante altre cose
gli aveva detto Vinadia che però non riusciva a mettere a fuoco nel ricordo.
S’era svegliato sorpreso d’avere sognato e di ricordare per la prima volta se
non tutto, buona parte del sogno.
Anche lui, non sognava mai.
Cap. 6
Pitagora.
Quando Maria di Raveo aveva pensato a Luciano come persona ideale alla quale confidare il proprio sogno sulle Laurisce non
si sarebbe certamente aspettata di avere
di rimando tutto quello che l’amico gli aveva raccontato del suo
rapporto con i Celti, attraverso i sogni o racconti suoi e delle sue amiche. Aveva sentito il bisogno di
raccontare per avere in cambio parole di assicurazione, qualche spiegazione che
le consentisse di superare la preoccupazione che le era rimasta a seguito di
quel sogno così strano. Invece di rincuorarla e di convincerla a dimenticare
Lauriscia, Luciano, gli aveva in qualche
modo posto il problema analogo, del suo rapporto con Vinadia, con le varianti
dei sogni delle altre due Marie. Il tutto pareva potersi intrecciare e
ricomporre in qualche modo all’interno dello stesso mosaico. Mancavano però
troppi tasselli perchè fosse possibile
leggere con chiarezza, il disegno complessivo, il messaggio che il
mosaico avrebbe dovuto comunicare.
S’erano lasciati su queste considerazioni, dandosi
appuntamento a presto, per “chiarirsi le idee” a vicenda. Ma Luciano non
immaginava certo di dover tornare in fretta
al paese di lei già la mattina del giorno dopo.
Si stava precipitando in macchina perché gli aveva appena
telefonato che c’era stato un incendio al “monastero”. Era già stato spento.
Non c’erano molti danni. Ma sembrava comunque fosse stato appiccato da
qualcuno.
L’ansia con la quale Maria gli aveva comunicato queste
cose, era diventata la sua ansia di raggiungerla il più presto possibile. Non
era solito correre in macchina. Preferiva partire sempre cinque minuti prima,
per arrivare senza dover correre. La macchina è un piacere senza lo stress
della fretta del dover arrivare. Quel giorno però voleva correre, perché gli
sembrava cortese verso l’amica arrivare rapidamente, o forse anche per la
curiosità di vedere con i suoi occhi il mistero quell’incendio, probabilmente
doloso, come gli aveva detto Maria, spento subito appena scoppiato.
No, non poteva essere
solo la curiosità per un incendio o la cortesia a spingerlo a correre.
Sentiva dentro la necessità di correre, perchè sentiva dentro l’urgenza
d’arrivare. Era come un richiamo profondo non definibile, come se il suo essere
avesse intuito l’esistenza d’un rapporto con quell’incendio, e sentisse il
bisogno urgente di capirne la relazione.
Come poteva
apparire inspiegabile l’ansia di Maria
nel raccontargli d’un fatto già concluso, così era inspiegabile la sua urgenza
d’arrivare, ove la sua presenza non sarebbe stata necessaria.
Ma vuoi perché quando vogliamo correre ci sembra che
tutti gli altri vadano piano, vuoi perché in effetti quella mattina il traffico
era particolarmente lento e pesante, malgrado qualche sorpasso azzardato, non
gli era mai riuscito di lanciare la macchina a piena velocità.
Mentre armeggiava nervosamente tra freno e frizione,
scalando e rimettendo le marce, pensava a chi mai poteva essere stato ad
appiccare il fuoco al monastero...
Fra le cose originali che caratterizzavano il paese di
Raveo, la più notevole é senza dubbio il convento. Di solito un monastero è
proprietà di un ente o di una istituzione religiosa. Quello di Raveo era invece
privato, di proprietà d’una famiglia di amici di Maria. Lei aveva avuto così la
possibilità di visitarlo spesso, ci aveva lavorato anche, aiutando gli amici a
rimetterlo a posto, quando era stato danneggiato dal terremoto.
Non era
evidentemente abitato né da frati né da suore. Era ormai inutilizzato da diverso tempo. Era stato costruito nel
Cinquecento e rifatto ed ampliato successivamente. Nel Settecento si aveva
notizia che fosse diventato il centro culturale e scolastico per gli studi
superiori di tutta la Carnia. Lupieri,
un medico del tempo, nei suoi diari ricorda le giornate passate a studiare
latino tra quelle mura.
E’ una piccola costruzione a due piani, situata a mezza
costa sul declivio ai piedi del quale sorge il paese. A metà strada tra
l’abitato e il monte Sorantri, sia
percorrendo l’attuale carrareccia asfaltata che dal paese porta agli altipiani
di Valdie, sia seguendo la vecchia carrareccia lastricata che in passato veniva
usata per portare in paese, con le slitte, il fieno dei prati di alta montagna.
La nuova strada delimita la proprietà del monastero verso nord, mentre la
vecchia lo delimita a sud. Alla parte residenziale si affianca una piccola
cappella dedicata a S. Rocco.
Il fabbricato è ora completamente immerso nel bosco. In
passato però quando ci abitavano i frati, probabilmente non c’erano gli alberi
davanti, e dal cortile l’occhio poteva
spaziare su tutta la valle nella quale il Tagliamento scorre insinuandosi tra
le quinte di montagne che segnano le
vallate degli affluenti. Ogni volta aveva pensato che gli sarebbe
piaciuto tagliare quegli alberi, riaprire al convento quegli orizzonti…
Quando, con questi pensieri, finalmente arrivò a Raveo, a
casa di Maria non trovò nessuno. Pensò che fosse andata a tener compagnia agli
amici proprietari del convento. Nel cortile di questi trovò infatti che s’era radunato tutto il paese. Gli uni
erano già stati su al convento a vedere,
e raccontavano, gli altri ascoltavano e commentavano. Tutti erano presi da una
sorta di frenesia, coinvolti da quella novità che finalmente aveva rotto la
monotonia della vita del borgo. Nei paesi è sempre così. Lo ricordava
dall’infanzia, qualsiasi fatto nuovo viene vissuto come una sorta di
liberazione dal grigiore della quotidianità. Sembra quasi si viva nella speranza
e nell’attesa che avvenga qualcosa di nuovo. E quando avviene, si diffonde
l’eccitazione di chi ha avuto qualcosa da sempre desiderato.
Vedendolo entrare in casa, Maria lasciò di colpo le donne
con le quali stava parlando.
“Finalmente!” gli disse a mo’ di saluto, venendo verso di
lui, e nel tono con il quale aveva pronunciato la parola, lasciava intendere
l’ansia con la quale lo stava attendendo.
Non ne capiva il motivo! Che cosa avrebbe potuto portare
lui con la sua presenza? E poi, se si fosse trattato d’un incendio scoppiato a
casa sua, ma si trattava d’una casa d’amici, d’un convento disabitato. Per
giunta l’incendio era già stato spento, ed al massimo restava da fare la
denuncia ai carabinieri di Villa Santina perché aprissero una inchiesta,
nell’improbabile speranza di trovare chi aveva appiccato l’incendio.
“Ho corso come un matto. Sono venuto il più presto
possibile,” rispose un po’ risentito per l’implicito rimprovero che c’era nelle
parole di lei. Anche se fosse arrivato
in ritardo, cosa sarebbe cambiato? Certo, la sollecitudine è in relazione con
la simpatia che proviamo nei confronti della persona che richiede il nostro
intervento. E lui per quella donna sentiva un sentimento di profonda amicizia.
Come se alla morte del primario, per successione, avesse dovuto prendere il suo posto non solo all’interno
dell’ospedale, ma anche nei rapporti all’interno della famiglia.
Ma la sollecitudine deve essere anche in relazione con il
bisogno! E in questo caso non aveva senso tanta fretta, dal momento che si
trattava d’un problema che riguardava altri, e peraltro per il momento già
risolto. Non si aspettava un rimprovero, anche perché in verità aveva corso,
era venuto con la massima fretta possibile.
Come non si era spiegato prima la fretta così ancora meno si spiegava
l’apprensione ed il rimprovero racchiuso in
quel brusco “finalmente!”. A meno che non ci fosse una relazione tra la
fretta di lei e la fretta con la quale egli era venuto, tra l’apprensione di
lei e l’inspiegabile urgenza che anche lui s’era sentito dentro.
“Andiamo su a vedere” proseguì lei, più come ordine che
come invito, prendendolo anche per mano per costringerlo a seguirla.
“Ma aspetta almeno che saluti,” obiettò.
“Avrai tempo al ritorno.”
Certo che avrebbe avuto tempo al ritorno, ma andarsene
così senza neppure salutare quelle persone che pur conosceva, senza neppure
usare la cortesia di informarsi su come fossero andate le cose…
“Aspetta. Non c’è nessuna fretta,” replicò, ed avrebbe
voluto insistere. Maria però lo
costrinse a mettere da parte ogni esitazione o problema di cortesia ed a seguirlo, strattonandolo con decisione.
Che diavolo stava succedendo! La sua inutile ansia, l’agitazione di Maria e la
sua prepotenza nell’obbligarlo a seguirla...Che giornata era mai quella!
Appena fuori, in macchina, capì il motivo di tanta
fretta, almeno da parte di lei. Gli disse subito, infatti, appena chiusa la
portiera, come liberandosi d’un peso già
troppo a lungo portato:
“Mentre andiamo ti devo raccontare un sogno...”
“Un altro ancora?” sbottò tra il rassegnato e lo
spazientito.
“Ti secca?”
“No. Ma, te l’ho già detto ieri, è un po’ di tempo, che tutti mi vogliono
raccontare dei sogni, come se fossi uno psicologo. Sai bene che sono un
chirurgo e che non ho alcuna dimestichezza con i sogni e le loro possibili interpretazioni.
Anche ieri, con il sogno del rogo di quella ragazza, non ti sono stata certo d’aiuto.”
“Sento la necessità di raccontarlo ad un amico, non ad un
medico” ribatté risentita. “E tu sei l’unico amico con il quale posso confidarmi”.
“Grazie per la fiducia! Ma non capisco tanta urgenza per
raccontare un sogno. Potevamo aspettare un momento. Siamo anche spariti senza dire niente, senza
neppure salutare.”
“Non c’è problema, i proprietari del convento li
ritroveremo al ritorno ancora lì. Ma io
avevo l’urgenza di confidarmi con qualcuno, perché...non so come dirtelo, ma il
mio, questa volta ne sono sicura, non e’ certamente un sogno.”
“Ci risiamo,” pensò lui. Anche il giorno prima aveva tenuto a precisare che il suo racconto si riferiva
ad un sogno che in effetti non era un sogno, e anche le altre Marie, per i loro
racconti, avevano detto la stessa cosa.
“Ma cosa dovrebbe essere
dunque, se non un sogno?”
Lei prese allora a raccontare che la sera prima in verità
non era neppure andata a dormire. Si era fermata in salotto a finire un lavoro
a maglia. Si ricordava ancora perfettamente di come, seduta sul divano, stesse
calcolando i punti per risolvere un passaggio complesso del suo lavoro. Per
verificare che l’angolo fosse retto, misurava sei su un lato, otto sull’altro,
controllando poi se l’ipotenusa
corrispondeva a dieci.
Aveva saputo che
si faceva così. Lo faceva allo stesso modo il muratore misurando l’angolo della
casa, e il falegname l’angolo del tavolo. Suo fratello gli aveva spiegato una
volta che si trattava di un modo elementare di applicazione del teorema di
Pitagora, ma lei non s’era neppure fatta premura di capire che relazione ci
potesse essere tra il teorema e il suo sistema pratico di misurare sei ed otto
e controllare che la distanza tra i punti così individuati fosse dieci, per
essere sicura di costruire una forma ad angolo retto.
Si ricordava perfettamente di come stesse misurando con
il metro delle sarte sei da una parte e otto dall’altra, quando qualcuno aveva
interferito nel suo ragionamento dicendo: “Trentasei, il quadrato di sei, più
sessantaquattro il quadrato di otto, fanno cento, la cui radice quadrata è
dieci. Appunto perché il quadrato costruito sull’ipotenusa è uguale alla somma
dei quadrati costruiti sui cateti”.
S’era addormentata mentre misurava, e il sogno si era
innestato, senza soluzione di continuità, con quel che stava facendo prima di
addormentarsi? O si trattava invece d’una visione?
Chi aveva parlato comunque, era senza dubbio un uomo uscito da un film ambientato al tempo dei romani.
Portava una corta tunica bianca e sopra un largo mantello verde. Ai piedi
calzava una sorta di sandali, allacciati alla caviglia. Aveva i capelli neri e
corti e un viso bruciato dal sole come quello dei contadini alla fine
dell’estate. Ma ciò che l’aveva impressionata maggiormente, e le restava
ancora vivo nel ricordo, era lo sguardo
di quella persona. Gli occhi erano... come non ne aveva visti mai! Vivaci ed
attenti, ed allo stesso tempo remoti, profondi e sfuggenti. Come l’acqua del
rio Chiantone, quando si raccoglie negli incavi nella roccia levigata, e si
intravede tra il folto del bosco, mentre riflette un raggio di sole filtrato
tra le foglie degli alberi .
In un primo momento aveva avuto l’impressione che quella
presenza gli fosse comparsa in casa, nel salotto ove stava sferruzzando. Ma
quando la sorpresa per lo sconosciuto e
per le sue parole erano venuti meno e la sua attenzione aveva potuto spostarsi
sul contesto, si era accorta di essere in un altro locale, che pure le sembrava
familiare, ma che non riusciva a riconoscere, anche per la stranezza delle
persone che lo occupavano.
La stanza era lunga e stretta e lei si trovava su uno dei
lati minori. Sulla parete dietro a lei,
s’apriva una porta, su quella di fronte invece c’erano tre finestre strette ed
alte, chiuse da una volta ad arco. Quella centrale era più alta, le altre due
la affiancavano simmetriche. Non c’erano altari od altri segni particolari, ma
forse proprio soltanto la disposizione delle finestre, creava l’impressione che
ci si trovasse in una chiesa, o comunque in un luogo di culto.
L’uomo che aveva parlato, stava a ridosso della finestra
di destra, sulla parete di fronte. Al suo fianco c’era un vecchio con i capelli
bianchi ed incredibilmente lunghi, che scendevano fino al petto, come quelli
d’una donna. Bianca era anche la barba che pure scendeva lunga, fino alla
cintola. Portava anche lui una tunica bianca e corta, ma sotto aveva dei
calzoni bianchi che si chiudevano al malleolo sui piedi nudi. La sala era piena
di gente vestita come il vecchio. Alcuni avevano come lui i capelli bianchi,
altri, i più giovani, erano invece
biondi.
Se anche lei fosse vestita nel sogno come loro, se gli
altri si fossero accorti della sua presenza, ed avessero notato la sua
diversità, non ricordava. Si era sentita presente, nella sala, senza vedersi
presente, e si era infine anche resa conto di trovarsi proprio nella sala
grande del convento. Le tre finestre erano una invenzione del sogno perché
nella realtà non ci sono, eppure, malgrado la diversità dei particolari, aveva
la netta sensazione e la certezza di trovarsi al convento.
Il personaggio vestito alla romana che era entrato nel
suo ragionamento ripetendole il teorema di Pitagora, si riprese, come se avesse
fatto una divagazione fuori luogo, e volesse tornare a quanto stava dicendo
prima. Sembrava stesse tenendo un conferenza, affiancato dal vecchio, che lo
assisteva e lo presentava.
“Scusate la divagazione,” riprese infatti, “come vi stavo
dicendo, sono un uomo, un filosofo direbbero i miei concittadini abitanti della
Grecia, che sta studiando per darsi delle risposte sul senso della vita. Quando
ho saputo dai mercanti cercatori d’ambra, che sulle montagne al nord, dove
finisce il mare Adriatico, c’erano popoli tutt’altro che barbari che avevano
sviluppato una teoria molto interessante sul senso della vita, non ho resistito
ed ho voluto venire a cercarvi, e da Crotone nella Magna Grecia, dove nel
frattempo mi sono trasferito, mi sono imbarcato con la prima spedizione che
risaliva nuovamente l’Adriatico. Ma di me vi ho già detto troppo, vi ho già
raccontato di come si vive sulle sponde del Mediterraneo. Se sono venuto fin
quassù è per imparare, non per raccontare.”
Allora aveva preso a parlare il vecchio, con una voce che
sembrava esile e stanca. Ma le sue parole si sentivano distintamente,
risuonavano dentro al cervello, come se stesse parlando vicino all’orecchio, o
si sentisse in cuffia. I lineamenti del suo volto si confondevano nel bianco
dei capelli e della barba. Sembrava che fosse la macchia di bianco a parlare e
non un uomo, e il bianco dei capelli, della barba e del vestito, fondendosi con
il bianco della parete, dava l’idea che le parole venissero dall’infinito, come
dall’infinito del cielo dovevano essere venute a Mosè le parole della legge sul
Sinai, riflettendosi nelle vibrazioni del fuoco del roveto ardente.
“La nostra non è una teoria” prese a dire, “ma la verità.
Come il tuo teorema non è una teoria ma è una verità, scoperta da te, ma che
esisteva indipendentemente da te e prima di te.
Così prima del mondo c’era la legge che ha fatto il mondo
e la legge è Dio che noi chiamiamo Lug. Non c’era la luce ma solo la sua
mancanza, e c’era il dio Ogmios lo spirito che vede senza la luce. Si formò
allora il suo contrario Dàgda la luce, il mondo. Con la morte di Dàgda, Ogmios
può ricomporsi nell’unità con Lug. Come
nel cosmo così nel microcosmo d’ogni uomo, c’è lo spirito che pensa e vede
senza bisogno della luce e il corpo che vede nella luce, l’unità si realizza
nella morte del corpo, che consente allo spirito di riunirsi a Lug.
Il nostro ragionamento si sviluppa dalla parte del corpo,
e quindi pensiamo che la luce sia bene e le tenebre male. Basterebbe pensare
che il nostro pensiero, la parte più nobile di noi, si sviluppa meglio nelle
tenebre che nella luce...
“Ora capisco,” aveva commentato il greco, “perché da noi
si dica che siete discendenti della
Notte e che non calcolate il tempo contando i giorni ma le notti, e che anche
le date natalizie e il principio dei mesi e degli anni li contiate facendo
incominciare le giornate con le notti…”
Luciano e Maria erano intanto arrivati al convento.
Dovevano lasciare la macchina e procedere a piedi per un centinaio di metri
attraverso uno stretto sentiero.
“Continua!” le disse, aprendo la portiera per scendere
dalla macchina, e confermandole il suo interesse per ciò che gli stava
raccontando.
“No!” disse lei “prima che tu vada giù, devo dirti
l’ultima parte del sogno. Ti finirò un altra volta il racconto di che cosa si
sono detti il vecchio e il giovane vestito alla romana. Ma ciò che non posso
rimandare di dirti è la parte conclusiva del
sogno.”
Dopo aver finito di discutere, (aveva ripreso a
raccontare, obbligandolo a chiudere la macchina) il vecchio era uscito, seguito
da tutti gli altri in processione. Si erano quindi recati nel cortile davanti
al convento, disponendosi a semicerchio. Avevano di fronte la parete
dell’edificio, nella quale campeggiava una grande meridiana. In terra, al
centro del semicerchio, c’era una sorta di ruota fatta con stecchi, raccolti in
piccole fascine accostate e legate in modo da simulare appunto il cerchio
esterno e i quattro raggi di una ruota. Il vecchio, con una torcia, aveva poi
appiccato il fuoco in più parti, e la
ruota s’era trasformata in un falò.
Le fiamme lambivano la parete con la clessidra, e il
ferro centrale che segnava le ore con l’ombra del sole, al riflesso delle
fiamme sviluppava delle ombre che si muovevano come impazzite, come a
significare, aveva pensato, che il tempo dell’uomo fosse impazzito.
Fu allora che fu risvegliata dalle grida dei vicini di
casa che davano l’allarme perché s’era visto del fuoco, a mezza costa sulla
montagna, probabilmente in corrispondenza del convento. Era corsa anche lei,
con i primi, per spegnere l’incendio. Ma al loro arrivo avevano trovato che il fuoco si era già spento da solo.
Avevano solo potuto constatare che c’erano veramente in terra
i segni d’un falò con le ultime braci, e il muro di fronte era annerito
dalle fiamme.
“Ecco”, concluse “per questo sentivo il bisogno di
raccontarti, per questo ti dicevo che
non sapevo se si fosse trattato d’un sogno, o non so di che altro. Il fuoco del
sogno c’è stato davvero!...”
“Come il fuoco del sogno?”
“Vai avanti, che ti faccio vedere...”
Scesero
al convento, lui davanti e lei dietro, come l’assassino che ha paura di
tornare sul luogo del delitto nel timore si possano trovare le prove della sua
colpevolezza. Arrivato nel cortile, anche Luciano rimase sbalordito e
sconcertato allo stesso tempo. In effetti c’erano i segni d’un fuoco, d’un falò
o di qualcosa del genere. Guardando attentamente si vedeva che i carboni erano
disposti come a formare una ruota con quattro raggi. Il falò era stato acceso
quasi a ridosso della parete. L’intonaco era infatti sporco di fumo. Si
avvicinò al muro, per guardarlo attentamente, come si guarda ad un quadro per
vedere la composizione delle pennellate, e gli parve d’intravedere dei segni,
sotto all’ultima mano di calce, con la quale era stata imbiancata la facciata.
Credette anche di riuscire a ricostruire il simbolo d’un numero romano, forse
quel che restava d’una meridiana, ma non
disse niente a Maria.
Lei lo stava a guardare con l’ansia con la quale il
paziente guarda al medico che con le mani percorre il suo corpo, tastando,
battendo e premendo, alla ricerca dei sintomi d’un qualche male.
“Cosa mi dici?” chiese infine.
Cosa avrebbe potuto rispondergli? Che non ci capiva
nulla? Che comunque il suo scetticismo innato lo portava a ritenere che da
qualche parte ci dovesse essere una soluzione al presunto mistero?
Al limite poteva essere stata proprio lei, da
sonnambula...Ma come aveva poi fatto a rientrare se le grida dei vicini
l’avevano svegliata sul divano di casa? Ma se anche l’avesse fatto da
sonnambula, per quale strano impulso avrebbe dovuto fare un falò a forma di
ruota?
Rientrati in paese trovarono la casa degli amici
proprietari del convento ancora occupata dagli ultimi curiosi.
“Dove siete finiti, senza dire niente?” chiese qualcuno.
“Maria ha voluto
farmi vedere,” rispose Luciano più che altro per scusare il comportamento di
lei nei loro confronti.
“Cosa le è parso?”
“Mah! Non saprei...Sono
già stati avvertiti i carabinieri?”
“Non ancora!”
“Direi di non farlo. E’ senz’altro opera di un balordo che
ha voluto fare uno scherzo. Non andrei a fare ulteriore confusione...”
Cap. 7
Bordana.
Di confusione
c’era già troppa, almeno nella sua testa. Aveva sempre creduto d’essere un
laico, uno che, (era solito dire), come san Tomaso crede soltanto a ciò che
vede, ma ora, dopo l’ultimo racconto di
Maria, gli si andava formando nella mente una teoria che aveva dell’assurdo. E
pur assurda, gli sembrava credibile!
Da qualche parte
c’era qualcuno che lanciava messaggi in forma di sogni. La fantascienza ci fa
immaginare come possibile il fatto che dallo spazio qualcuno possa lanciare dei
messaggi. Perchè non pensare che sia possibile un lancio analogo, dal tempo,
invece che dallo spazio?
E così, cercando di darsi una
interpretazione del sogno (o della visione) di Maria, riusciva persino a
immaginare che Pitagora nelle sue peregrinazioni nel Mediterraneo, si fosse
veramente spinto fino ad incontrare i
Carni.
Nella storia della
filosofia si legge che, nell’evoluzione del pensiero greco, è stata uno
sviluppo a sorpresa ed una innovazione non prevedibile, l’intuizione di
Pitagora sull’immortalità dell’anima. Perché allora escludere che il filosofo sia potuto veramente
venire in contatto con popoli che
avevano già sviluppato una tale idea? I
seguaci del filosofo, per spiegare l’originalità delle sue scoperte,
sostennero che le sue rivelazioni gli venivano
dal rapporto con una certa
Temistoclea sacerdotessa di Delfi. Alla fin fine, pensava, è meno fantastico e più credibile ritenere che
il suo rapporto, piuttosto che con una profetessa, sia avvenuto con la cultura
d’una società, al di fuori della civiltà mediterranea, che aveva un pensiero
filosofico più sviluppato di quello greco.
Per chi ritiene
che il Mediterraneo sia stato il centro dello sviluppo della civiltà europea,
l’ipotesi non può che essere valutata una cialtroneria. Ma chissà di quanto si
discosta la storia scritta, dalla vera storia dell’umanità!
Che in quegli
stessi anni, nel 600 a.C., quando
fondarono Marsiglia, i Greci abbiano
risalito anche l’Adriatico, costituendo una omologa base, dall’altra parte
della penisola italica, non si può escludere. E questa potrebbe essere
l’origine di Aquileia preromana. Non è quindi da escludere neppure che i greci
siano venuti in contatto anche con le popolazioni carniche attestate sulle
montagne che fanno da cerniera alla costa altoadriatica. Del resto, i
ritrovamenti fatti ad Hallstatt, vicino a Salisburgo, dimostrano lo sviluppo e
lo splendore raggiunto dalla civiltà celtica nell’area dell’Alpe Adria.
D’altra parte ci
doveva pur essere una spiegazione al fatto che Maria aveva avuto una visione,
allucinazione, sogno o che altro dir si voglia, nella quale un greco parlava
del teorema di Pitagora ed un celta invece spiegava i concetti della metempsicosi o trasmigrazione delle anime.
Come avevano potuto nella sua mente mettersi in relazione le due cose? Come
aveva potuto riuscire ad inventarsi lei, pur nella libertà delle immagini del
sogno, che in un convento disabitato, qualcuno vestito d’una strana foggia di indumenti, parlasse delle anime che vivono
senza il corpo?
Per lei, il
monastero era stato costruito nel Cinquecento. Lo poteva quindi immaginare
abitato soltanto da frati. Poteva immaginarsi domenicani invece che cappuccini,
ma non poteva pensare a frati che non esistono, con delle tuniche corte sotto
alle quali si vedevano i calzoni. Lei non poteva sapere della relazione
istituita dallo storico Diodoro quando dice che tra i Celti “vive ancora la
fede di Pitagora nell’immortalità dell’anima e nella successiva rinascita” e
tanto meno poteva pensare di rovesciare la relazione, pensando che invece sia
stato Pitagora a fare propria ed a portare in Grecia, la fede dei Celti.
S’era in seguito
fatto raccontare più volte da Maria quello strano sogno, e restava sempre
colpito dal fatto che anche lei, come le altre Marie, la Svualda e la Mede, lo
ripeteva sempre con le stesse parole, come si trattasse d’ un copione imparato
a memoria, e con le identiche parole
ripeteva la lezione del vecchio Druido al presunto Pitagora. Una teoria che non era quella della metempsicosi,
cioè della possibilità dell’anima di trasmigrare in altri corpi, ma una sua
evoluzione ancora più concettualmente raffinata: quella dell’anima che vive
immortale oltre il corpo.
Tra le varie
congetture ed interpretazioni sulla religione dei Celti che gli studiosi vanno
elaborando, nel sogno di Maria, trovava conferma quella che Luciano aveva già
finito per condividere e fare sua.
I celti avevano
anticipato in qualche modo il concetto di base dell’informatica: tutto e
riconducibile all’antinomia tra zero e uno, e quindi tra pari e dispari, tra
acceso e spento. L’azione dello spegnere è irrilevante perché non è uno stato,
ma un momento di passaggio. Così l’uomo, può essere corporeo od incorporeo. La
morte come l’atto dello spegnere non esiste, le due condizioni sono la vita e
l’immortalità. L’uomo è un essere spirituale che sta vivendo con il corpo una
esperienza materiale.
Da una sorta di
limbo o di Eden nel quale l’uomo vive senza la coscienza di sé, l’individuo
viene gettato nella vita, a fare l’esperienza di sé, per tornare
nell’immortalità con la coscienza del proprio esistere, e della propria
individualità. Questa era in sintesi la loro concezione della vita.
In questa ottica,
come racconta Cesare, i Celti piangevano per la nascita e gioivano per la
morte. In questa ottica si possono capire, o almeno assumono un significato
diverso, anche i sacrifici umani che secondo gli storici testimoniavano la
“barbarie” dei Celti, e soprattutto si capisce e si spiega facilmente, lo
sprezzo della vita che faceva dei Celti guerrieri terribili ed esaltati che
combattevano come kamikaze ed a corpo nudo. La convinzione sulla migrazione
dell’anima da un corpo all’altro, ricorda ancora Cesare, eliminando il timore
della morte, diventa il più grande incitamento al valore. Tanto più, se invece
di trasmigrazione, si può parlare di immortalità.
Della loro
filosofia, l’aveva colpito anche l’importanza simbolica attribuita al
numero tre. Come numero perfetto rappresentava la sintesi ed
il superamento della contrapposizione tra pari e dispari, tra uno e due. Allo
stesso modo, nella religione, Lug il principio, la divinità suprema, era la
sintesi di Dagda e del suo contrapposto Ogmios. In una sorta di anticipazione
del concetto cristiano della Trinità, immaginando che il Figlio sia il Dio del corpo, lo Spirito il
Dio dell’anima, e nella morte del corpo, lo spirito possa riunirsi nell’unità
del Padre.
Allo stesso
modo l’uomo, dallo stato di essere, con
la nascita, entra nello stato dell’esperienza e quindi della conoscenza, per riunirsi al Principio,
dopo la morte, nella sintesi di essere cosciente immortale.
Avrebbe dovuto
farsi consigliare da qualcuno più esperto di lui. Non aveva una preparazione
filosofica e teologica sufficiente per
lasciarsi andare ad interpretazioni così spinte. Ma a chi avrebbe potuto
rivolgersi, senza essere preso per pazzo? C’era una sua amica che, in pensione
come insegnante, aveva deciso di laurearsi in teologia, forse da lei avrebbe
potuto avere qualche lume...
L’avrebbe dovuta contattare, e
soprattutto avrebbe dovuto contattare qualcuno che gli potesse smontare quella
pazza teoria sui messaggi venuti dal tempo. Mentre ci pensava, venne
casualmente a sapere che a Bordano c’era qualcuno che s’era fatta una
competenza particolare nella filosofia e nella religione dei Celti. In attesa
di trovare altre strade aveva anche deciso di contattare questa persona, che
aveva poi saputo essere un architetto.
“Perché mai un
architetto?”, si chiedeva percorrendo la strada che dopo aver fiancheggiato il
lago di Cavazzo, sale accompagnata da una parte e dell'altra dalle case di
Interneppo, per raggiungere la sella ai piedi del monte S.Simeone, e poi
scendere a Bordano. “E perché mai in questo paese già fuori dalla Carnia, che
non può avere nulla a che vedere con i
Celti?” Così almeno pensava, (con la sua teoria per la quale i Celti s’erano
limitati ad occupare le valli più
interne delle alpi carniche), finché non si imbattè nella perpetua.
Stava
cercando del parroco del paese, con il
quale era in amicizia, per avere maggiori ragguagli sul fantomatico architetto
esperto di Celti. La vecchia che aveva risposto “avanti!” al suo bussare alla
porta della canonica, gli spiegò che il parroco non c’era, ma che sarebbe arrivato
a minuti e che quindi poteva accomodarsi ad attenderlo. Chiese anche d’essere
scusata perché non s’era alzata ad aprirgli la porta. “Sa, l’età, gli
acciacchi…”
“Capisco, capisco, non si
faccia un problema, commentò lui, accomodandosi al tavolo che occupava il
centro della stanza, prendendo posto sulla sedia più vicina all’ingresso. “Non
ha meno di novant’anni” pensò, incrociando gli occhi di lei che lo stavano
scrutando ed analizzando con estrema attenzione e grande curiosità.
Era seduta su una
sedia appoggiata alla parete di fronte all’ingresso. Sferruzzava, ma senza
guardare al lavoro, come se le sue mani si muovessero autonomamente per una
sorta d’inerzia che la costringeva a continuare in quell’esercizio fatto per
tutta la vita. Le mani giravano attorno al filo e gli occhi percorrevano un
loro filo logico, analizzando il nuovo arrivato, insistendo senza alcun pudore
a ripercorrerlo dalla testa ai piedi e dai piedi alla testa.
Luciano si sentiva
imbarazzato per l’insistenza di quello sguardo addosso ed era pentito d’essersi
intrattenuto. Avrebbe potuto cavarsela con un “torno più tardi”, per attendere
il prete all’esterno, e invece s’era messo nelle condizioni di non potersi
sottrarre all’inquisizione di quei due occhi che tra le rughe del viso raggrinzito,
avevano mantenuto la vivacità e la curiosità di due occhi da bambino. La
vecchia peraltro non si accontentò dell’anamnesi visiva, finita l’analisi
oculare, passò alle domande, con altrettanta mancanza di pudore. “Perché vuol
vedere il parroco?”
“Non sono fatti
suoi!” sarebbe stata la risposta più logica, ma anche la più impossibile per il
rispetto che richiedeva l’età della vecchia. Pensò di sconcertarla con la
verità e le disse:
“Sono qui per
chiedergli qualcosa dei Celti”. Invece che stupirsi la vecchia gli diede
l’impressione di trovare del tutto normale la domanda.
“Allora è cascato
bene” disse, “perché la storia dei Celti la so io meglio di lui”
“Quale storia?”
“Quella dei Celti
a Bordano. Sulla Bibbia e sul Vangelo, non metto lingua, anche se alle volte…
ma sui Celti, ne so più di lui.”
Non aveva neppure
fatto in tempo a dirle che in verità lui non sapeva neppure esistesse una
storia dei Celti a Bordano, che era venuto soltanto per sapere qualcosa sull’architetto, che anzi
gli sembrava strano si potesse parlare di Celti fuori dalla Carnia, dal momento
che si era convinto si fossero insediati soltanto sulle montagne…lei, non gli
aveva lasciato la possibilità di aprire bocca, ed aveva preso a spiegare, come
se glielo avesse espressamente chiesto, con un
racconto, evidentemente già detto mille volte, ripetuto ancora una volta
con le stesse parole.
A quei tempi,
aveva preso a dire, Bordano, il nostro
paese stava a guardia della porta di passaggio tra la Carnia ed il Friuli. Come
è oggi, messo in disparte dalla storia,
“al di là dell’acqua” del fiume Tagliamento, non sta proprio a guardia
di nulla. Ma una volta, la strada principale passava di là. I romani infatti
non si fidavano dei fiumi, sapevano delle piene impetuose e imprevedibili, per
questo tracciavano le strade lontano dagli alvei che potevano allagarsi,
creando problemi alla viabilità. La strada per salire dal Friuli in Carnia
appunto, invece che seguire il corso del fiume, deviava per l’ampia sella tra i monti S.Simeone e Nar-u-vint, che ora
sembra costituire una finestra naturale per consentire agli abitanti della Carnia di intravedere uno squarcio del
Friuli, ed a quelli del Friuli di godere della bellezza del panorama della
catena del Cogliàns. La sella, a quel tempo, oltre che la finestra, costituiva
anche la porta dalla Carnia sul Friuli.
Il preambolo
storico geografico, aveva il preciso scopo di far intendere che quella che
andava raccontando non era una leggenda ma che si trattava di una “storia” vera
che lei aveva sentito da sua nonna, che a sua volta l’aveva sentita dalla
nonna. Di nonna in nonna, giurava la vecchia, iniziando il racconto, la storia
risaliva a quelli che erano stati i testimoni.
“No, è proprio una
storia vera”, ribadì notando la perplessità di Luciano, che s’era ben guardato
tuttavia di fare qualche commento e di esprimere i suoi dubbi, e poi iniziò a
raccontare, assorta ad un tempo nel racconto e nel lavoro a maglia, con il
quale si accompagnava come se, in qualche modo
i due ferri potessero essere gli
strumenti del racconto.
A quel
tempo, continuò a dire, il nostro paese non c’era ancora. I primi uomini che
vennero ad abitare da queste parti, costruirono le loro capanne nell’altopiano sul monte S.Simeone. Perché
sul monte? Si domandava, per dare enfasi al suo discorso. Perché erano Celti.
Si rispondeva dopo un attimo di pausa.
I
Celti, (spiegava poi, con sicurezza incurante delle perplessità che
sull’argomento anima il dibattito tra gli storici) entrati dal passo di monte
Croce, si erano insediati in Carnia, scegliendo, per insediare i loro villaggi,
gli altopiani o i terrazzi di mezzacosta, piuttosto che i fondovalle. Sulla
nostra montagna, dalla quale si domina tutta la pianura friulana fino al mare,
avevano costituito una sorta di avamposto per tenere sotto controllo i
movimenti dei popoli della pianura, prima i Veneti e poi i Romani.
Per
quel che occorreva ad un popolo di pastori, sulla montagna c’era tutto: c’era
l’acqua, (prima che i terremoti facessero abbassare la falda) c’erano i prati e
c’era l’orizzonte. Cosa c’entra l’orizzonte? I celti avevano una grande
sensibilità, erano dei poeti, e sceglievano per insediare i loro villaggi,
località dove si potessero ammirare panorami di ampio respiro, dove si potesse
sentir salire, come loro dicevano “il respiro della valle”. E sul S. Simeone
non sale soltanto il respiro d’una valle, ma di tutta l’ampia pianura friulana.
Sulla
montagna si sviluppò negli anni un piccolo villaggio. Vissero in pace i celti,
in quella sorta di paradiso sospeso tra cielo e terra, per un paio di secoli,
finché non arrivarono i romani ad imporre
la loro presunta civiltà. Per la
necessità di presidiare il passo, i
terreni che danno verso il Tagliamento, furono assegnati, come era usanza, ad
un gruppo di veterani che veniva dal
Salento, in cambio appunto dell’impegno a difendere il passaggio tra la Carnia
ed il Friuli.
Gli
abitanti del villaggio sotto il monte, erano entrati presto in contatto con gli
abitanti del villaggio di sopra, e se anche gli uni erano latini e gli altri
celti si era realizzata subito un
intesa. La povera gente non ha mai interesse a
farsi la guerra. La differenza di etnia o di religione diventa un motivo
di scontro solo quando i grandi vogliono inventarsi una scusa per contrapporsi
e farsi la guerra, e per i loro giochi di potere costringono anche la gente a
schierarsi da una parte e dall’altra.
Gli
uni erano originari del centro Europa, gli altri del Mediterraneo, gli uni
facevano sacrifici a Beleno, gli altri a Giove. Per entrambi però il problema principale era quello
d’arrangiarsi a sopravvivere, perchè alla fine sia Beleno che Giove toglievano
loro qualcosa attraverso le offerte che la religione imponeva di
fare ai sacerdoti, ma non era poi così sicuro che questi dei, potessero veramente dar loro una mano,
in quelle che sono le necessità
quotidiane, per poter infilare un giorno sopra l’altro, con tante bocche
da sfamare.
Malgrado
la differenza di lingua presero a frequentarsi ed anche a scambiarsi i prodotti, e l’andirivieni di
celti e latini, segnò il primo sentiero che dalla sella porta al monte
S.Simeone. Presero anche a partecipare alle rispettive feste e in particolare
la festa di Samhain che il Celti
celebravano il primo novembre, finì per
diventare una festa comune.
Per i
celti era la festa della relazione tra la vita e la morte, della chiusura della
stagione del sole, per entrare nella stagione della notte. Fino a quel giorno
nelle capanne il fuoco veniva acceso soltanto per cuocere i cibi. Da quel
giorno invece, e per tutto l’inverno, sarebbe stato mantenuto acceso sempre,
per riscaldare la capanna, e per tenere lontano gli spiriti dell’inverno,
la notte dell’anno. Per questo, il
giorno di Samhain, il Druido, il sacerdote della loro religione, sul far della sera
, nella valle di sotto, ove ora sorge la chiesetta di S.Simeone, appiccava il
fuoco ad un grande falò, dal quale ognuno poi accendeva una torcia che si
portava a casa, per accendere il fuoco nel proprio focolare.
La
festa coincideva anche con il momento nel quale il bestiame doveva essere messo
nelle stalle per trascorrervi la stagione fredda. E quello era per tradizione
il giorno della selezione, della macellazione, e della preparazione della carne
salata per l’inverno. Era quindi la grande festa del popolo dei pastori, come
oltre un mese più tardi il popolo dei contadini a valle, avrebbe fatto festa
per l’uccisione del maiale.
Erano originari da terre opposte e lontane
dell’Europa, eppure nelle tradizioni c’era qualcosa che li univa! Come li univa
la convinzione che quella fosse la notte dei morti.
Per i celti era la magica notte di Samhain, la
notte nella quale si aprivano le porte dell’Aldilà e i morti venivano a
intrattenersi con i vivi, come pure faceva quella notte il “piccolo popolo” dei
folletti. Per i latini era la festa degli antenati, dei Lari, che gli abitanti
del villaggio ai piedi del S.Simeone, finirono per celebrare in modo del tutto
originale, recandosi sul monte, invece che al cimitero. Ancor oggi, commentava
la vecchia, interrompendo per un momento il lavoro a maglia, nel nostro paese
si ritiene che la sera dei morti, i nostri defunti salgano sul monte S.Simeone,
e che, sulla via del ritorno, passino poi a visitare le loro case. E le
tradizioni non nascono a caso!…
Alla
mattina, (riprendeva il racconto, assieme al movimento dei ferri), i latini
salivano sul monte per aiutare i celti nella macellazione del bestiame, poi a
sera partecipavano alla festa per l’accensione del fuoco, accomunati dalla
suggestione dei bagliori del falò che s’incrociavano con i riflessi del tramonto
che incendiava le ultime propaggini delle dolomiti carniche, gli uni pensavano
all’immortalità gli altri alla resurrezione nell’ultimo giorno.
Infine,
anche gli uomini della pianura, accendevano le
loro torce nel grande falò, per
poi scendere al villaggio, ad accendere il fuoco nelle loro case. Da tutta la
pianura friulana la gente mentre accendeva fiaccole ai propri defunti, ammirava quel grande punto di fuoco sul
S.Simeone e quella catena di piccole luce che si snodava sinuosa seguendo i
ripidi tornanti del sentiero.
Così
per anni...E non a caso, ribadiva ancora la vecchia, anche oggi a Bordano, si
dice che la sera di Ognissanti, i morti escono dalle loro tombe per salire sul
S.Simeone. Forse, nella dimensione senza corpo, la festa tra celti e latini continua
ancora…
Ma nella storia invece, ci fu la guerra. Qualcuno a Roma aveva deciso
che anche la Carnia era dei Romani, ed avevano preso allora ad avanzare
minacciose le cohorti, salendo le valli carniche. I celti si ritirarono, alcuni
ripassarono le alpi, altri si attestarono negli altopiani meno accessibili.
Quelli del S.Simeone restarono isolati e si convinsero che avrebbero potuto
continuare ad abitare sull’altopiano, perché nessuno si sarebbe interessato ad
un piccolo gruppo di capanne, isolato su una montagna. I rapporti del villaggio
di sopra con quello di sotto continuarono, anche se nel frattempo sulla sella
ai piedi del S.Simeone s’era insediata una vera e propria guarnigione di
soldati romani.
Anzi,
destino volle che la figlia del comandante la guarnigione, si innamorasse di
Bor Dano, il figlio del capovillaggio dei celti. Il padre l’aveva sconsigliata,
aveva provato con tutti i mezzi a far in modo
che non si frequentassero. La storia avrebbe potuto cambiare, le
continuava a ripetere, e quando cambia,
guai a chi si fa trovare nei suoi ingranaggi.
La
figlia però non pensava alla storia di Roma, pensava soltanto alla sua,
stregata com’era dal fascino di quel ragazzo dai biondi capelli lunghi dagli
occhi azzurri, profondi e trasparenti come le acque del lago. Saliva rapida
come una cerbiatta sul ripido sentiero, mentre lui come se in qualche modo
l’avesse sentita venire, scendeva a grandi balzi. S’incontravano ogni giorno
sul “pulpito”, uno sperone di roccia aggettante sulla valle, da dove meglio si gode l’ampio panorama che
si apre sulla pianura. La fessura del mare che, lontano, segnava il passaggio
tra la terra ed il cielo, sembrava loro
la linea dell’infinito, dove era possibile inserire senza alcun limite i loro
sogni, dove era possibile far crescere speranze senza confini.
La
guarnigione romana sapeva che non c’era nulla da temere da quel villaggio di
pastori, anche se erano Celti, ed avevano delle armi. Ma ad Aquileia, quando si
seppe di quella postazione nemica rimasta dietro le linee della conquista,
parve strano che la guarnigione ai piedi del monte, non avesse gia provveduto
ad eliminare quella sacca di resistenza. Si decise di mandare una intera cohorte ad eliminare
quell’anomalia.
Quel
giorno, sul far della sera dalla pianura
si vide sul S. Simeone un fuoco molto più grande di quello della festa di
Samhain. Pareva si fosse incendiata la montagna. Ma non ricorreva la festa di Samhain, e non ci furono più
feste di Samhain sul S.Simeone.
Erano
stati uccisi tutti, ed i loro corpi erano stati arsi assieme alle capanne. Così
almeno aveva riferito il comandante della cohorte. Ma invece uno era rimasto.
Forse era il Druido che era riuscito a nascondersi e si era salvato…
Uno
solo era rimasto. Almeno così si diceva. Nessuno infatti l’aveva visto. Nella
sua solitudine, covando l’odio per la strage dei suoi, era diventato feroce come un animale ferito.
Aggrediva chiunque gli si avvicinava. E si cominciò a raccontare di gente che
aveva avuto il coraggio di salire sul monte e che non aveva fatto ritorno, di
gente che era stata sbranata... Si parlò d’un uomo che in verità non era un
uomo, ma un lupo... di ululati che nelle
notti di luna piena riempivano il bosco di faggi che copre la cima più alta del
monte, che fu soprannominata appunto la cima del Lòf, (del Lupo in lingua
friulana).
Erano
passati quasi cento anni da quando i celti erano stati sterminati, ed ancora le
nonne raccontavano alle nipoti ciò che aveva combinato e stava combinando sul monte quell’ultimo celta mezzo uomo e
mezzo lupo.
“Ma
non è possibile! Sia che si tratti d’un uomo, sia che si tratti d’un lupo, dopo
tanti anni non può che essere morto”.
“Eppure!”
aveva soltanto saputo replicare la vecchia. “Eppure, Bordana, devi credere che
è così”. Bordana non era sua nipote, ma la vecchia centenaria che abitava nella
casa vicina al comando della guarnigione, la trattava come se lo fosse. Lei non
s’era sposata, non aveva nipoti cui raccontare le storie, lei era rimasta
legata ai sogni con Bor Dano sul “pulpito” guardando l’infinito. Ed ora s’era
affezionata a questa giovane, venuta da Roma, con un nome così stranamente
simile a quello del suo ragazzo.
“Che
coincidenza!” si diceva, “chissà se è di triste presagio!”. Ma questi commenti
li teneva per sè, ed alla ragazza non aveva neppure rivelato d’essere la protagonista di quel racconto. Il
suo viso, mentre raccontava, incartapecorito dal tempo e dal dolore, pareva quello d’una statua, non lasciava
trasparire alcun sentimento.
Bordana
era la figlia del nuovo comandante la guarnigione romana posta a difesa della
sella di ingresso alla Carnia. Ora il passaggio era diventato importate, la
strada era stata definitivamente sistemata e lastricata. Bordana aveva dovuto
lasciare Roma, con tutta la famiglia seguendo il padre. Era bella, piena di vita,
da bambina aveva sognato di poter partecipare alle feste della capitale ed ora
che aveva finalmente vent’anni, si ritrovava in una sperduta parte di mondo,
sulle prealpi carniche, a sentire raccontare le avventure impossibili d’un uomo
ultracentenario che sbranava le persone.
Per
rompere la noia del succedersi dei giorni nella monotonia del quotidiano tra quelle quattro casupole, addossate ai
tornanti della strada che dal fiume si inerpica fino alla sella, decise che
sarebbe salita sul monte per sfatare la leggenda del celta. Si sarebbe fatta
accompagnare da Tarneppus, il giovane attendente di suo padre.
Quando
gli fece la proposta, il giovane, che aveva sentito delle leggende riguardanti
la montagna, esitò:
“Sai,
si dice che nessuno è mai tornato vivo da lassù.”
“Sono
discorsi da femminucce,” replicò lei.
Toccato
sul vivo da una provocazione così pesante fatta da una donna ad un soldato, o
forse soprattutto perché si sentiva del tenero nei confronti della figlia del
suo comandante, il giovane Tarneppus alla fine si arrese alle insistenze della
ragazza.
Il
giorno programmato per la spedizione, il S.Simeone pareva imbronciato con un
cappello più grande del solito. Molto spesso, anche ora, attorno alla cima del
monte, s’addensa una nube come un grande cappello, per cui gli abitanti della
pianura per farsi le previsioni del tempo, guardano al S.Simeone per
controllare da che parte si mette il cappello. A Bordano invece si diceva che
le nubi s’abbassavano fino al avvolgere la cima della montagna per consentire a
S.Pietro di scendere a far tribunale assieme a S.Simeone.
Quel giorno però, il cappello era più fitto e più
nero del solito, e già questo avrebbe dovuto indurre i due giovani a desistere.
Ma Bordana era una ragazza di carattere, e Tarneppus, come capita a tutti i
giovani, a tu per tu con una bella ragazza, non riusciva a dir di no.
Salirono
velocemente la prima parte della
montagna, anche se non era facile trovare le tracce del sentiero abbandonato da
tanti anni. Le cose si complicarono terribilmente quando entrarono nella nube
che copriva la parte alta della montagna. Erano arrivati al tornante del
sentiero ove oggi si trova l’ancona detta di
S. Simonino.
“Guarda
che ci sono strapiombi impressionanti.” Fece notare lui. “Dobbiamo rientrare.
Ritenteremo un’altra volta”. Così
dicendo era tornato qualche passo indietro. Lei invece aveva fatto la
curva ed era avanzata di qualche passo,
sul tornante superiore.
“Torniamo
indietro!” la supplicava lui. “Ci perderemo.”
“Di
che cosa hai paura. Ci fermiamo un momento per lasciare che si diradi la
nebbia, e poi potremo proseguire. La cima non dovrebbe essere distante”.
Fu
allora che dalla nebbia uscì un grido, un urlo straziante.
Non
era un suono che venisse da un punto preciso. Sembrava piuttosto che tutta
quella nebbia si fosse trasformata in quel grido disperato. Un grido di dolore
e di rabbia che racchiudeva in sè infinite grida di dolore, infinite
espressioni di rabbia.
I due
giovani restarono come paralizzati. Non c’era direzione per scappare perché non
c’era direzione dalla quale veniva l’urlo, come se in un certo senso fosse scoppiato dentro a loro.
Poi
finalmente quell’urlo spaventoso parve smorzarsi, affievolendosi come se la
nebbia lo stesse assorbendo verso la sommità del monte. Nello stesso tempo, in alto,
in corrispondenza della cima della
montagna, emerse dalla nebbia un punto
luminoso. Mentre il suono si affievoliva, la luce prendeva vigore e si
dilatava, penetrando la nebbia come se il suono si fosse tramutato in luce,
come se quell’urlo orribile si fosse trasformato in quella luce irreale. La
nube sulla montagna divenne una nube di fuoco, forse come quella che un secolo
prima, s’era vista la sera della fine dei Celti.
Poi
nella luce, lentamente, prese corpo una figura d’uomo. Era un giovane bellissimo,
con i capelli lunghi e biondi e gli occhi azzurri. “E” quello del racconto ”,
pensò Bordana , e invece che preoccuparsi si sentì rassicurata. “E’ quello dei
miei sogni” mormorò, e fiduciosa si mosse
verso di lui.
Fu
allora, appena lei si mosse, che il bellissimo giovane pieno di luce, d’un
tratto, come per incanto, si trasformò in un mostro orribile. Era un drago con
tre teste, dalle tre bocche uscivano lingue di fuoco e allo stesso tempo, dalle
tre gole riprese ad uscire quell’urlo
terribile: assieme un sibilo di serpente, un latrato di lupo ed un rantolo
umano.
La
ragazza, quando vide il drago muoversi verso di lei, riuscì a raccogliere tutte
le sue forze per girarsi a correre. La
voce paralizzata dal terrore, si sbloccò in una invocazione straziante e
disperata di aiuto. Tarneppus forse non era neppure un eroe, ma se anche lo
fosse stato, neanche per un eroe sarebbe stato facile trovare il coraggio per
sguainare la spada ed affrontare quel mostro. Comunque, non si mosse. La vide
correre nella nebbia, che s’era diradata, e poi sparire come se il grido di
aiuto, fosse stato assorbito nel vuoto. Per lo spavento lei non si era
ricordata che il sentiero girava, e senza accorgersi s’era lanciata nel
crepaccio della montagna che in quel
punto strapiomba.
Quando
Tarneppus, che era svenuto per lo spavento, si risvegliò, la nebbia non c’era
più, le nubi s’erano diradate ed era apparso il sole. Il bosco del S.Simeone risplendeva in mille sfumature di
verde e sotto, la pianura friulana s’apriva in un respiro luminoso appena
incrinato dal rincorrersi delle quinte di colline digradanti. Il paesaggio
prima marcato si scioglieva a poco a poco in un velo di fumo che finiva per
confondersi con la grigia nebbiolina nella quale sfumava la volta del cielo. E
in mezzo, ove i due colori si fondevano,
come in una fessura tra la terra ed il cielo, s’intravedeva una
striscia di mare..
Di
Bordana non si seppe più nulla. Il suo corpo non fu mai trovato, malgrado tutto
il villaggio si fosse impegnato nella
ricerca sul costone della montagna sul quale, secondo il racconto
di Tarneppus, era caduta. La cercarono sui ghiaioni, la cercarono sulle cengie,
ma invano…
La spiegazione della scomparsa misteriosa la
diede Mòchile la maga che viveva in una
grotta sul Nar-u-vìnt, la montagna di fronte. Raccontò che lei l’aveva vista cadere. Era sbucata come un uccello dalla nube che
copriva la vetta della montagna, poi aveva preso a scendere, cullandosi nel
vento, come una foglia che d’autunno cade dall’albero. Infine si era rimpicciolita
fino a diventare una specie di farfalla, e, come una farfalla, invece che
posarsi a terra, era tornata sul monte,
a cercare l’immagine di quel giovane bellissimo che aveva potuto vedere
soltanto per qualche attimo.
Bordana, la prima delle tante farfalle che
hanno scelto di vivere su quella montagna, che per tutti ormai, è
diventata la montagna delle
farfalle. Tante farfalle a salire il
monte, commentava la vecchia, attratte anche loro dall’illusione che aveva
richiamato quella prima farfalla...
E per
tanti secoli su quella montagna non salirono che le farfalle. Nessun persona
ebbe più il coraggio di sfidare il mistero del celta che era rimasto a
difendere la memoria del suo villaggio e che s’era trasformato in un drago.
Solo più tardi, nel Medioevo, quando il paese s’era molto sviluppato attorno al
cippo che il comandante della guarnigione aveva voluto erigere a ricordo della
figlia, qualcuno pensò fosse necessario ritentare l’impresa.
Il paese era grande ed i pascoli erano pochi.
Sulle pendici del monte a fatica potevano pascolare le capre. Si doveva in
qualche modo trovare la soluzione per utilizzare anche i pascoli che, si
raccontava, c’erano sulla montagna. Ma chi aveva il coraggio di sfidare il
drago?
Finalmente
si presentò un monaco, un seguace di S.Simeone stilita, e si offrì di andare a
vivere sulla montagna. Il suo maestro aveva passato tanti anni in cima ad una
colonna, lui l’avrebbe imitato, ritirandosi su quella montagna che si ergeva
come una colonna isolata ai limiti della pianura friulana. La sua preghiera,
era sicuro, avrebbe sconfitto ogni drago.
Si
fece fare una croce di legno, con la base appuntita per poterla piantare nel
terreno. S’avviò quindi verso il monte,
portandosi sulla spalla la croce, come se quello fosse il suo calvario. Quando
fu sulla sommità del precipizio, da dove, come gli avevano detto, era caduta la ragazza, con tutta la
forza che aveva, conficcò la croce tra due sassi, sull’orlo del burrone.
Fu
come se l’avesse conficcata nella carne del drago, invece che nella terra.
L’urlo di dolore dell’animale ferito a morte echeggiò di balza in balza, entrò
negli anfratti, e la montagna s’agitò come se le rocce fossero diventate il
corpo del drago. Poi tutto tornò silenzio, come se il drago fosse stato
assorbito nella montagna, e il silenzio della natura l’avesse costretto al
silenzio.
L’Orcolàt,
così fu chiamato il drago, vive da allora dentro alla montagna, come un orso in
letargo. Non è più un pericolo per nessuno. Solo ogni tanto s’agita nel sonno,
e tutta la montagna allora si scuote nelle vibrazioni del terremoto.
Sulle
orme di frate Simone gli abitanti del paese avevano preso coraggio e avevano
cominciato a portare i loro animali al
pascolo sulla montagna. Erano stati poi
costruiti i ricoveri per l’alpeggio ed era stato sistemato il sentiero di accesso perché fosse
percorribile anche alle mucche. Il frate, che per rispetto del santo di cui
s’era detto discepolo, tutti chiamavano Simeone il piccolo o Simonino, s’era
sistemato nel pianoro di Val di sotto, dove c’erano ancora i resti del
villaggio dei celti. Con i sassi delle basi delle loro capanne, un poco alla
volta, s’era costruito il romitorio ed una piccola chiesa
Quando il
santo uomo, venne a morire, nel luogo ove aveva costruito la sua capanna
di eremita, gli abitanti di Bordano costruirono una chiesa dedicata allo stesso
tempo al frate e al santo suo maestro. Per loro, al di la d’ogni ufficialità
canonica, era più santo il loro frate che aveva osato liberare la montagna dal
drago, che il suo maestro vissuto a
meditare in cima ad una colonna.
Il
tempo e la storia però spesso cambiano le cose. Anche nel nostro caso, col
tempo la chiesa e tutta la montagna finirono per prendere soltanto il nome di
S. Simeone, che non aveva avuto nulla a che fare con le vicende di quei luoghi.
A Simonino, che ben si sarebbe meritato, di dare il nome alla montagna, resta
intitolata soltanto una modesta ancona, eretta nel posto ove aveva conficcato
la croce sconfiggendo il drago.
Alle
volte si inventano le leggende a spiegare i luoghi, alle volte sono invece i
luoghi a far nascere le leggende. Malgrado le proteste della vecchia, Luciano
non aveva dubbi si trattasse d’una leggenda per giustificare in qualche modo i
nomi sia della montagna che dei due paesi, Interneppo e Bordano, posti a
guardia, da una parte e dall’altra, della sella che fa da finestra alla Carnia
verso il Friuli.
Il
fatto che la vecchia parlando della festa di Samhain, dicesse Sciamàin, un
termine molto vicino a Scimòn (Simone nella lingua friulana), gli fece venire in
mente anche la possibilità che quella avesse potuto essere la vera origine del
nome della montagna.
Ma già il fatto che si fosse imbattuto nella
perpetua e nella sua leggenda sui celti, ora anche a lui sembrava più che una
coincidenza. C’era un presagio in quel
racconto, pensava Luciano, come era stato un presagio il fatto che una ragazza
venuta da Roma, portasse pur nella diversità delle lingua, un nome quasi
identico a quello d’un celta.
Cap. 8
L’Architetto
Sulle battute
finali del racconto della vecchia, s’era aperta la porta ed era entrato il
prete che Luciano aspettava.
“Che piacere
vederti, dopo tanto tempo. Come mai da queste parti?”
“È un piacere
anche per me. Il perché sono qui è un po’ più complesso da spiegare…”
“S’interessa ai
Celti,” lo interruppe la vecchia.
“Come mai? Allora
la mia perpetua ti ha di sicuro raccontato la sua storia.”
“Certo, e l’ho
ascoltata con molto interesse. La storia invece del mio interesse per i
Celti è una storia un po’ lunga perché te
la possa raccontare adesso, comunque ti basti sapere che sono qui perché mi
hanno detto che c’è un architetto che ha approfondito la conoscenza della
storia del Celti, e vorrei sapere dove posso trovarlo”.
Alla richiesta il
prete scoppiò in una grande risata e si sedette invitando Luciano a fare
altrettanto. “È una cosa tutta da ridere…”, prese a dire, e si diffuse in mille
ragguagli ed in mille particolari sulla vita di questa “specie di architetto”,
per il quale evidentemente non aveva molta stima.
Gli aveva detto
che l’avrebbe trovato sull’altopiano del S.Simeone, dove secondo il racconto
della perpetua s’erano insediati i Celti. Le stranezze di cui gli aveva parlato
il prete ridendo, avevano accentuato il suo desiderio di conoscere la persona,
e uscito dalla canonica aveva preso subito la stretta strada militare che a
ripidi tornanti porta sulla montagna.
Lasciata l’automobile vicina alla chiesetta di S.Simeone, s’incamminò a
piedi nella speranza di trovare l’architetto che, neppure il prete aveva saputo
indicargli esattamente in quale zona
dell’altipiano abitasse.
Forse anche il
nome di S.Simeone dato a quella montagna, pensava, non aveva nulla a che fare
con i santi. La vecchia perpetua che pur non aveva studiato la storia dei
Celti, aveva fatto esplicito riferimento alla festa di Samhain, chiamandola con
l’inflessione friulana, la festa di “scimàn”. E se nel tempo quel scimàm fosse
diventato scimòn, cioè Simone in lingua friulana? Con la diffusione del
cristianesimo, come ci fu un processo di cristianizzazione dei culti locali,
così ci fu un processo di cristianizzazione dei nomi. Non è da escludere quindi
che scimàn sia diventato scimòn e poi san scimòn…
L’altopiano è
diviso in due parti. La prima è leggermente inclinata verso la pianura, come
una gradinata dalla quale poter guardare meglio al panorama del Friuli che si
perde lontano contro il cielo. La seconda invece è come un grande catino con i
bordi sopraelevati tutt’intorno che si
innalzano verso nord a formare la cima della montagna, quasi fosse il manico
del catino. Qui non c’è panorama e la sensazione è quella di essere sollevati
contro la volta del cielo.
“È come sul
Sorantri,” pensò Luciano, riprendendosi dalle fantasticherie toponomastiche.
Anche lui come Maria avrebbe potuto adagiarsi sull’erba morbida all’ombra d’un
faggio e sognare. Avrebbe così potuto
trovare nel sogno la spiegazione a tutte le domande a tutti gli enigmi
ed i misteri che gli affollavano la
mente, si diceva con ironia. Un laico che cerca spiegazioni nei sogni!… No,
anzi, lui continuava al contrario a mantenere delle riserve assolute sui sogni
che gli erano stati raccontati, ed anche su quello che aveva fatto
personalmente. Prima o poi, era sicuro, avrebbe trovato una spiegazione logica
anche per le strana coincidenza di quei sogni, in relazione tra loro, ma fatti
da persone diverse, in luoghi diversi.
Ricordava il racconto della vecchia perpetua e
lo affascinava l’idea che millenni
prima, su quegli stessi sentieri
avessero camminato degli uomini. Non dei primitivi con la clava, in attesa che
i conquistatori romani portassero la luce della civiltà, ma persone con una
cultura raffinata, con un pensiero filosofico molto evoluto. Gli pareva in un
certo modo di poter passeggiare con loro, con i loro pensieri..
Si fermò d’un tratto sorpreso quando s’accorse che gli veniva incontro sul suo
stesso sentiero, uno strano pastore. Se non avesse avuto le anticipazioni del
prete, avrebbe pensato che, come a Maria, e addirittura in piedi, senza neppure appisolarsi, gli fosse
capitata una allucinazione. Aveva battuto le palpebre con forza come a
sincerarsi d’essere sveglio. Si, era assolutamente sveglio, e quello che veniva
avanti doveva essere certamente l’architetto che, come gli aveva anticipato il
parroco, s’era messo a fare il pastore.
Che fosse un
pastore l’individuo che gli veniva incontro lo si capiva dal fatto che era seguito da un piccolo
gregge di capre e di pecore. Se avesse potuto avere dei dubbi, la conferma gli veniva dal vestito, che era proprio da pastore, come
nelle raffigurazioni delle statuine del presepe. Portava i pantaloni alla
zuava, aveva calzettoni di lana bianca e calzava le “dalmine”, gli zoccoli
tipici dei contadini del luogo, con la suola scavata nel legno. Il maglione di
lana scura scendeva fino all’inguine, quasi fosse una tunica, e come le tuniche
era stretto in vita da una cintura di cuoio con una grande fibbia di metallo.
Portava un grande capello di feltro a larghe falde, come s’usa ancora in
Austria, e come, appunto, usano in pastori del presepe. La barba folta e
incolta gli ricopriva tutto il volto e scendeva fino al petto, lasciando
sbucare in alto due occhi spiritati, come due radure piene di sole, nel fitto
del bosco.
“Buon giorno!” lo
salutò Luciano mentre era ancora distante. “Cosa fa quassù?” aggiunse poi. Era
una domanda stupida, ma era un modo per significare che avrebbe voluto attaccare discorso. In
effetti, mentre l’aveva visto avanzare nel prato, come uscito da un quadro
agreste di qualche pittore fiammingo, gli si era confermata la curiosità di
fare la conoscenza di un personaggio che, così originale nell’abbigliamento,
non poteva non essere altrettanto
originale nel comportamento e nel modo di pensare.
“Cosa fa lei
piuttosto, qui” gli rispose con una voce profonda, baritonale, l’altro, “Io ci
abito”.
“Dove?” chiese
Luciano fingendosi sorpreso.
“Proprio lì,
dietro a lei”.
Sull’altopiano del
S.Simeone, ci sono diverse costruzioni. Ci sono casette per il fine settimana
bene inserite nell’ambiente e ci sono stamberghe di legno e lamiera. Quella che
aveva appena sorpassato, l’aveva notata per l’originalità, ed aveva in effetti
pensato fosse quella dell’architetto,
perché i prati attorno erano pascolati. Accanto ad un recinto
preesistente (forse risalente ai Celti?) costituito da un muro a secco di
grosse pietre non squadrate, con lo stesso stile, solo usando pietre più
piccole ed unendole con la malta, era stata realizzata una costruzione che
ricordava molto le casere delle malghe. Ad un primo blocco ad un piano se ne
affiancava uno a due piani, mentre il terzo addossato al recinto tornava ad
essere basso ma con il tetto aperto e sopraelevato nel grande camino tipico
delle casere. La costruzione proseguiva all’interno del recinto in una lunga
tettoia per il ricovero degli animali.
Mentre
riconsiderava la costruzione, l’architetto aveva continuato ad avanzare verso
di lui, ed ora erano l’uno di fronte
all’altro. Anche il gregge era venuto avanti. Alcune pecore li avevano
sorpassati, ed ora loro due si trovavano
proprio in mezzo alle bestie,
circondati dal gregge. Gli occhi spiritati lo guardavano sorridendo, come se
fosse divertito per la sorpresa che
notava nel suo volto, per quell’incontro inaspettato, e per l’imbarazzo, che
pure mostrava, vedendosi circondato da
quelle bestie. Le capre giravano al largo, le pecore invece si avvicinavano
curiose, lo annusavano. Qualcuna l’aveva anche spinto...forse anche la bestia
aveva voluto accertarsi che fosse realtà e non un allucinazione la presenza di
quell’umano estraneo....
“Non le fanno
niente!” aveva detto il pastore per rassicurarlo sull’eccessiva confidenza che
si stavano prendendo le bestie. ”Sono curiose... come le donne” aggiunse poi
con una risata.
“Lo so. Non ho
paura. Non sono di città, sono nato anch’io in un paese di montagna”.
In verità anche se
non veniva dalla città si sentiva perlomeno imbarazzato in mezzo a quel gregge
di pecore e capre a parlare con un personaggio così strano. Continuando ad
avanzare si stavano sfilando ormai le ultime bestie, il pastore sembrava volersene
andare per i fatti suoi, già pago delle quattro parole scambiate con
l’intruso venuto a disturbare la sua
vita. Luciano avrebbe voluto trovare qualche argomento per fermarlo, ma l’aveva
ormai di schiena e non sapeva che chiedergli. Fu allora che lui, senza voltarsi
gli disse:
“Posso offrirle un
caffé?”
“Volentieri!”
rispose, contento che fosse stato interpretato il suo desiderio. “Se non
disturbo,” aggiunse per educazione.
“E cosa vuole
disturbare. Semmai lei... se si adatta…”.
“Sono nato qui
vicino, a Cazzaso,” gli ripetè, “non sono di città”
“Ah! Cazzaso.
Conosco. Una borgata, più che un paese”.
“In effetti,
quattro case ormai. Anche quello è quasi tutto disabitato, come tanti paesi
della Carnia. Ma quassù non ci sono neppure le quattro case, queste poche
costruzioni da fine settimana, sembrano disperse nel deserto. Come può viverci
da solo?”
Erano intanto
arrivati nel cortile davanti alla casa. Il pastore lo lasciò per spingere il gregge dentro il recinto
attraverso l’apertura che lo interrompeva proprio a fianco dell’edificio.
Rinchiuse una sorta di porta a forma d’una grande palizzata di legno e sulla
palizzata si addossarono le pecore strette fra loro, in crocchio a guardare
l’estraneo. Guardavano e belavano. Avresti detto che si scambiavano le impressioni
sul nuovo arrivato…
“Via!” gridò loro
il pastore. Ma non si mossero. “Sono curiose come le donne” commentò lui di
nuovo, ridendo e tornando infine verso Luciano.
“Semmai vivere
insieme è un problema!” riprese poi quando gli fu vicino, rispondendo alla
domanda con la quale l’aveva lasciato. “Vivere da soli, è facile. A condizione
di non essere vuoti”.
Lo seguì, entrando
in un una grande cucina che dava direttamente sul cortile. Su un lato c’era un
grande “spolert”. La tradizionale cucina leggermente staccata dal muro, in modo
da ricavare un impiantito piastrellato a forma di elle, largo un cinquanta
centimetri sotto al quale erano fatti passare i condotti per il fumo. Luciano
ricordava da bambino, nelle fredde giornate d’inverno, nella cucina della nonna,
il piacere di stendersi a riposare su quelle piastrelle calde. L’architetto
aveva usato le stesse piastrelle dello
“spolert” della nonna: piccole piastrelle esagonali, colore rosso mattone.
Accanto, sulla
parete c’era un lungo secchiaio di pietra, sormontato da una trave di legno
scuro alla quale erano appesi tre “cialdìers”, secchi di rame per l’acqua,
smaltati di stagno all’interno. Di fronte, c’era un grande armadio di noce, e
in mezzo, un tavolo pure di noce massiccio.
Passando a fianco
dello spolèrt, lo introdusse in un altra stanza.
“Venga, le faccio
vedere la casa. Questo è il mio “sancta sanctorum”
La parete a destra
era ricoperta da una grande libreria, fitta di libri. Sulla parete di fronte un
grande caminetto, e sul muro attorno, a incorniciare le due finestre, tanti
trofei di caccia, tante corna di capriolo e qualcuna di cervo. Sopra il
caminetto un grande gufo impagliato su un trespolo, pareva il nume tutelare
della casa. Nel mezzo c’era un lungo tavolo di legno massiccio come quello della
cucina, ricoperto di libri aperti, e in fondo addossata alla parete una scala.
“Sopra c’è la camera” disse.
Tornati in cucina
prese ad armeggiare attorno al secchiaio. “Le faccio il caffè!”
“Si, grazie!”. In
effetti non aveva chiesto nulla, aveva semplicemente detto che gli avrebbe
fatto il caffè, con la stessa naturalezza e spontaneità con la quale gli aveva
mostrato la casa.
“Ha rifatto lo “spolert” come nella tradizione”!” disse
Luciano per commentare in qualche modo la visita che aveva fatto alla casa.
“Certo. Mi pare
una soluzione molto intelligente di riscaldamento. Chissà in quanti secoli si è
venuta sviluppando e consolidando l’idea di costruire una stufa a quel modo,
poi in pochi anni tutto è sparito, per far posto alle stufe in metallo od al riscaldamento
centrale”.
Ma più che dallo
“spolert” era stato sorpreso dallo studio, dalla grande libreria. In un
casolare, nella casa d’un pastore, non ci si aspetta di trovare una stanza piena di libri.
Lo guardava mentre accendeva il fornello,
preparava le chicchere... Nascosto in un armadio accanto al secchiaio aveva il
fornello a gas...
“Anche lei non
rinuncia ai vantaggi della vita moderna”.
“Perché dovrei?
Sarebbe anche stupido. Come tuttavia è stupido buttare tutto quello che di
positivo ci viene dal passato. Quanto zucchero?
“Uno, grazie!”
“Posso immaginare
che sia rimasto sorpreso dallo studio...”
“In effetti!”
“E forse te l’ho
mostrato, proprio per sorprenderti. Diamoci del tu, che va meglio. Al posto del
gufo, come si usa, avrei potuto appendere il quadro della laurea in
architettura, e così ti saresti reso conto che si può restare architetti pur
facendo i pastori. Ma allora ti sarebbe venuta la curiosità ancora maggiore
del perché un architetto faccia il pastore.”
S’era messo quindi
ad accendere il fuoco nello “spolèrt” e continuava a dire, come parlasse a se
stesso ad alta voce:
“Non credere che
inviti tutti quelli che passano per raccontare loro la storia dell’architetto
pastore. Sono mesi che qui non entra nessuno. Se mi chiedesse perché l’ho
invitata... Scusami, perché ti ho
invitato... non saprei darti una risposta. Mi è venuto così...istintivo. Come
m’è venuto logico mostrarti la casa.”
“Ti ringrazio, lo
apprezzo come un segno di fiducia!”
Avrà avuto quarant’anni… anche se non era
facile riconoscere un’età sotto quella
barba incolta, che non lasciava distinguere i veri lineamenti del volto. Si
muoveva con agilità. Del resto, girando
ogni giorno sulla montagna per portare
al pascolo il suo piccolo gregge, doveva essere allenato per forza...
“Ma come mai,” aggiunse, “questa scelta così radicale, di lasciare tutto per
fare il pastore?”
“Puoi ben capire
che non è cosa da potersi spiegare in quattro parole. Se avremo modo di vederci
ancora, forse te ne parlerò. Potrei sintetizzare tutto in una frase che
potrebbe però sembrarti un enigma o un
indovinello: ho creduto valesse la pena abbandonare la farsa, per riprendere il
gioco”.
“Come spiegazione
non è certo molto esauriente”. Si era
espresso come l’altro si aspettava, fingendosi sorpreso per le parole. Ma non
era proprio la verità. La frase gli era in qualche modo familiare. I termini
“gioco” e “farsa” gli avevano fatto tornare in mente il sogno con Vinadia. In
quel contesto, quelle parole non erano enigmatiche. Ma non si sarebbe certo messo
a raccontare i suoi sogni ad una persona incontrata per caso...
“Lo so, te l’ho
già anticipato. Se ne potrà parlare... Ma tu piuttosto. Che ci fai da queste
parti?”
Glielo poteva
dire? Era il caso di confidare ad un estraneo quello che non aveva confidato
neppure agli amici più intimi, neppure a Maria? Se non voleva raccontare i
sogni ancora meno poteva pensare di parlare dei propri segreti. Eppure lui si
era confidato, d’istinto, non l’aveva considerato un estraneo, ma un amico. E
d’istinto anche lui, contro la sua normale riservatezza, si lasciò scappare:
“Sto inseguendo la
suggestione dei Celti”.
Notò la sua
sorpresa e aggiunse subito:
“Lo so, non e’
cosa facile da spiegare ed ancor meno da capire, però è così… Mi hanno detto
che forse tu puoi aiutarmi”
L’architetto lo
guardava sorpreso. Evidentemente pensava. Ma a che cosa pensava? Che aveva
trovato un altro originale come lui?... Il loro discorrere s’era arenato in un
silenzio sempre più imbarazzante. Luciano non riusciva a capirne il motivo. Gli
pareva di intuire che l’altro fosse rimasto in qualche modo stupito per la sua
affermazione.
Certo, anche per uno che ha deciso di vivere
da solo lontano dalle gente, può non essere normale sentire un altro che ti
dice di subire la suggestione dei Celti! Ma quello che dice di sè una persona
incontrata per caso, non ti può che toccare marginalmente, non ti può certo
turbare...
“Cosa pensi ci sia
di strano?” chiese alla fine Luciano, anche per rompere in qualche modo
l’imbarazzo del silenzio.
“Nulla!” rispose,
come riprendendosi da un pensiero che l’aveva portato lontano. “Nulla! E’ solo
che se ben capisco, quello che tu chiami la suggestione dei Celti, è il vero
motivo per il quale ho lasciato tutto, per vivere tra queste montagne”.
“Appunto ed io
sono qui perché vorrei capire la tua storia, per cercare di capire la mia”.
“E’ una strana storia, troppo complessa, della quale i Celti sono
solo una componente... Devi sapere che io sono un benandante”.
“Cosa?”
“Non ne hai mai
sentito parlare? Si. Un benandante!”
“Cioè?”
“Uno nato con la
camicia”.
“Uno fortunato. E
cosa c’entra il fatto che tu sia fortunato”
“Te l’ho detto, la
cosa non e’ semplice. Nato con la camicia non è soltanto sinonimo di
fortunato....”
Prese allora a
spiegargli di come, fino a quando la Chiesa non li aveva sterminati per mezzo
del tribunale dell’Inquisizione, tra le montagne della Carnia erano esistiti i
benandanti. Si chiamavano così le persone che avevano avuto la ventura di
nascere con la camicia, che non è, come può sembrare ai più, soltanto un modo
di dire, ma una situazione per la quale
il feto viene alla luce ancora avvolto nella membrana amniotica, volgarmente
detta camicia.
Si diceva che il
fatto di venire al mondo con questa modalità particolare, conferisse alle
persone la possibilità di vivere anche in una dimensione extracorporea. Avevano
la possibilità di compiere il “viaggio dell’anima”, di liberarsi cioè dal corpo
e di muoversi in ispirito nell’ultramondo, incontrandosi con le anime dei
defunti per combattere contro i malandanti e garantire la fertilità della terra
e l’abbondanza dei raccolti.
Quanto fosse di
vero e quanto fosse di fantasia nei racconti che venivano dai verbali del
Tribunale dell’inquisizione, non lo sapeva. Poco gli interessava dal punto di
vista scientifico, ed ancor meno la cosa lo interessava dal punto di vista
storico. Ai racconti sui benandanti, era arrivato per capire se stesso.
Sua madre gli
ripeteva sempre che “era nato con la camicia”. Lei forse con la frase voleva
veramente riferirsi al fatto che era nato avvolto nella membrana amniotica. Lui
però prendeva l’affermazione nell’accezione che la frase ha assunto nel
linguaggio corrente. Non aveva motivo di darsi pensiero, se la madre lo
considerava fortunato. Veramente non c’era nulla in quel che gli era capitato
nella vita, per cui potesse dirsi fortunato, ma, si sa, le madri per i figli
spesso stravedono...
Forse sua madre
attendeva che crescesse, che avesse l’età per potergli rivelare il segreto, per dirgli che cosa intendeva
veramente quando gli diceva che era nato con la camicia, ma era morta
improvvisamente, quando lui era ancora un ragazzo. In seguito, quando anche il padre gli era venuto a mancare (aveva ormai quasi trent’anni, si era già
laureato ed aveva iniziato a fare l’architetto) aveva cominciato a vivere
strani sogni. Non erano veramente dei sogni, ma piuttosto visioni,
allucinazioni, vicende immaginate e vissute nella fantasia, come se fossero realtà.
Erano sogni di
processioni di anime che percorrevano di notte i sentieri della montagna. File
interminabili di fiocchi di nebbia con le sembianze umane che portavano in mano
delle fiaccole. Da lontano potevano essere scambiate per lucciole. Altre volte,
nel sogno, gli stessi fiocchi di nebbia illuminati si affollavano all’interno
del cimitero e lo facevano partecipare a strane cerimonie, recitando preghiere
in un linguaggio sconosciuto.
Per cercare una
spiegazione aveva cominciato a leggere tutto ciò che trovava e che aveva una
qualche attinenza con l’interpretazione dei sogni, con l’aldilà, con le facoltà
medianiche, e si era così imbattuto nella storia dei benandanti, trovando in
quelle vicende la spiegazione dei suoi sogni.
Se c’era una
qualche inspiegabile relazione tra il “nascere con la camicia” e il fare il
“viaggio dell’anima”, l’Inquisizione aveva potuto eliminare il fenomeno come
fatto sociale, ma gli individui “fortunati” avevano continuato a sperimentare
la possibilità di vivere nell’aldilà in una dimensione extracorporea. Alcuni
forse erano riusciti a convivere con questa facoltà, conducendo una vita
normale, malgrado i “viaggi dell’anima”, altri erano certamente finiti in
manicomio distrutti dall’incubo dei viaggi notturni. Lui aveva cercato di
trovare una soluzione diversa, ponendosi l’obiettivo di scoprire la verità sul
fenomeno.
Forse non era
vero, ma s’era immaginato che solo sulle montagne carniche fosse esistito il movimento dei benandanti.
Ci doveva essere quindi nella storia di quei luoghi, qualcosa che desse la
facoltà a qualche persona nata in quei paesi, in certe condizioni particolari,
di vivere delle esperienze originali e straordinarie. Non riusciva a capire
veramente se fosse stato l’approfondimento della conoscenza a chiarire i sogni,
o ci fosse stata invece una evoluzione dei sogni, che gli aveva consentito di
raggiungere la conoscenza.
Comunque quelli
che nei suoi primi sogni erano soltanto dei fiocchi di nebbia (così li aveva
chiamati, non trovando una immagine diversa per definire gli abbozzi di persone
che popolavano la sua mente nel sonno) divennero persone definite nei
lineamenti del volto ed anche negli abiti.
Scoprì allora che
il suo viaggio dell’anima, risaliva la storia che si era sviluppata su quelle
montagne, per ricongiungersi ai Celti, agli uomini che l’avevano abitata per
primi. Era come se in lui rivivessero in successione persone diverse, di epoche
diverse, e da persona a persona, gli fosse consentito di ridiscendere i gradini
della storia, fino ai primi, i più remoti nel tempo.
Piuttosto che
subire i Celti come incubo, piuttosto che lasciarsi condizionare dalla loro
presenza nella sua immaginazione, aveva allora deciso di vivere con loro, sulla
montagna che faceva da scenario ai suoi sogni, fondendo l’esperienza del
giorno, con quella della notte.
Era convinto così
d’essersi salvato, di aver evitato la pazzia nella quale sarebbe potuto finire,
subendo continuamente la lacerazione della propria personalità, tra sogno e
realtà.
Per Luciano era
già stata grande la sorpresa dell’incontro con quello strano pastore e poi
anche la sorpresa di quella casa piena di libri. Ciò che l’architetto gli
veniva raccontando, andava oltre la sua capacità di sorprendersi. Guardava alla
bocca che lasciava uscire quello strano racconto, e la barba folta che la
circondava prendeva le forme d’un bosco. In mezzo, nel più folto, profondo e
senza fine, c’era un baratro dal quale venivano dei suoni, e nell’aria
prendevano corpo le immagini evocate da quelle parole. Il sole che illuminava
la scena, si sdoppiava come filtrato tra le lacrime, per trasformarsi in quegli
occhi vivaci e brillanti.
Guardava
l’architetto che affermava d’essere riuscito a superare la pazzia e si chiedeva
se veramente fosse il caso di credergli. Ma in quello che gli stava capitando
dove finiva la logica e dove iniziava l’assurdo? Non era paradossale che nella
fantasiosa idea dell’architetto di poter rivivere a ritroso la storia,
trovassero una evidente spiegazione anche i racconti delle sue tre Marie? Ma
allora, su quelle montagne un Architetto ben più importante
dell’architetto-pastore stava sviluppando un suo disegno nel quale in qualche
modo inavvertitamente anche lui era stato coinvolto! E quale poteva essere il
disegno? Quale il suo ruolo?…
“Lo so che può
sembrare pazzesco, quello che dico” riprese l’architetto, ma se mi hai parlato
della “sugestione dei Celti”, forse sei l’unico che mi potrà capire. Per questo
te ne parlo”.
Riprese
quindi a spiegargli che, a suo avviso, i
sacerdoti dei Celti, i Druidi, in effetti erano degli sciamani. Avevano la
capacità di vivere il viaggio estatico verso l’ultramondo e di controllare gli
spiriti che lo popolano, facendosi ubbidire da loro. Così riuscivano a guarire
anche gli ammalati facendoli compiere
con loro il viaggio dell’anima e costringendo gli spiriti che avevano indotto la malattia, a liberare gli uomini di cui si
erano impossessati.
Si era anche
convinto che il viaggio dell’anima dei nati con la camicia potesse risalire di
epoca in epoca, incrociandosi con il viaggio di altri benandanti defunti, per
incontrarsi con il viaggio dell’anima dei primi abitanti del luogo, cioè dei
Druidi. “Non riusciamo ad immaginare o concepire una situazione del genere,”
aggiungeva, “solo perchè non riusciamo ad immaginare la possibilità di un’altra
dimensione, nella quale spazio e tempo si annullano..”
Preso dal fascino
di questi racconti, Luciano non si era reso conto del passare del tempo. Quando
finalmente l’occhio gli cadde sulla finestra, s’accorse che il sole era già
tramontato e che stava facendosi buio. Lo prese all’improvviso la paura. Come
se in quella stanza si fosse diffuso d’un tratto l’odore di qualcosa che
segnalava un pericolo. Si sentì preso e pervaso da un bisogno urgente di
fuggire, di abbandonare quella casa. Si ricordò d’un tratto dei racconti delle
sue amiche d’infanzia, e si vide nella notte che stava incombendo, condotto da
quello strano architetto, a seguire interminabili processioni di morti...
“Mi scusi” disse,
alzandosi di scatto e interrompendogli il racconto. “Scusami, ma non m’ero
accorto del passare del tempo. Avevo un impegno e devo correre, perché sono
terribilmente in ritardo”.
E corse in effetti
per quelle centinaia di metri che separavano il casolare dal luogo in cui aveva
parcheggiato la macchina. Corse, dopo aver salutato in fretta, ed aver promesso
che sarebbe tornato presto. Corse, sentendosele addosso quelle presenze, nella
luce incerta dell’imbrunire, nell’aria fresca della sera che lo sfiorava. Corse
per annegare nella foga della corsa,
l’idea degli spiriti che lo seguivano.
Quando ebbe chiuso
con forza la portiera della macchina, si
sentì finalmente al sicuro. Nella familiarità dell’ambiente trovò la sicurezza
di chi si sveglia e riconoscendosi nei luoghi abituali, riesce a superare
l’ansia con la quale si è ripreso da un
incubo. Sapeva che c’erano ancora. Ma erano fuori, in un’altra dimensione,
dalla quale non potevano toccarlo. Le lamiere della macchina lo separavano e
proteggevano.
Decise che non
sarebbe andato a dormire in paese, ma che sarebbe rientrato in città. Li
sentiva infatti che lo seguivano in folla, mentre scendeva per i ripidi
tornanti del S.Simeone, come se la macchina si lasciasse dietro una scia
luminosa. Una volta arrivato in paese, non avrebbe avuto il coraggio di uscire
dall’auto, mentre in città pensava
sarebbe stato diverso. E in effetti man mano che si allontanava dalle
montagne sentì che la scia si andava diradando, fino a sciogliersi del tutto.
Come aveva immaginato, non potevano lasciare i monti....
Cap. 9
Un sepolcro.
Nel suo
appartamento all’interno del grande condominio in città non aveva più paura,
tuttavia non gli riusciva di prendere sonno. Ripensava ai discorsi
dell’architetto. Nelle sue parole avevano trovato soluzione molte delle sue
domande. Il puzzle formato dalle tante cose che aveva letto e da quello che
aveva sentito negli strani racconti che si richiamavano in qualche modo ai
Celti, ora sembrava ricomporsi in un quadro che aveva una sua logica.
Era però la logica
d’un quadro astratto che un pittore aveva dipinto in preda ad un raptus, ad
un’allucinazione. Ci voleva la logica della pazzia per ammettere che tutti quei
racconti che gli erano stati fatti (e quante altre persone allora avevano
vissuto esperienze analoghe!) fossero riconducibili al fatto che su quelle
montagne si poteva vivere la facoltà di
mettersi in relazione con i morti e di risalire attraverso di loro nella
storia, per ritrovarsi nel mondo dei primi abitanti del luogo.
E il fatto che tutti i racconti risalissero ai
Celti, si giustificava proprio perchè che erano stati loro, i loro
druidi-sciamani a sviluppare questa facoltà, ed a trasmetterla come gene
ereditario ai loro discendenti. In questa prospettiva anche il sogno su Rodolfo
il Glabro che sembrava non aver nulla a che vedere con i Celti, poteva voler
significare, nella ripugnanza che suscitava il frate, l’esecrazione verso
l’azione cruenta condotta
dall’Inquisizione per eliminare i benandanti. Eliminando loro, eliminando i loro viaggi
dell’anima, si era in qualche modo eliminata anche la possibilità del ritorno
dei Celti.
Con l’Inquisizione
il mondo delle fate benefiche, delle Agàne, del misterioso rapporto dell’uomo
con il mistero della vita nella natura, del positivo rapporto con l’invisibile,
era diventato il mondo delle streghe malefiche da bruciare, il rapporto
perverso da maledire, da sconfessare come peccato.
Ripensava alla
originale concezione della vita e della morte dei Celti, così come credeva
d’essere riuscito a ricostruirla. Era la sua, una ipotesi come quella di tanti
altri storici, perché i Celti con la
regola che si erano imposta di non tramandare se non oralmente la loro cultura,
avevano posto le condizioni più
favorevoli perché tutto di loro andasse perduto, facendo sì che a loro non si possa risalire se non per
ipotesi.
Forse tutti quei
sogni così uguali in persone così diverse erano proprio il modo che i Celti avevano scelto per continuare a
trasmettere oralmente la loro cultura. I sogni come fonte storica!…Rise della
sua conclusione immaginando come si sarebbe arrabbiato il suo professore di storia al liceo se durante un’interrogazione, si fosse
permesso di aggiungere alle fonti tradizionalmente riconosciute, anche i sogni.
Eppure...
Eppure l’originalità di quella cultura, come
gli era riuscito di ricostruire, stava appunto nell’originalità con la quale
veniva concepito il rapporto tra la vita terrena e quella ultraterrena. Nella
nostra cultura, si parlerebbe del rapporto tra la vita e la morte, ma già nei
termini usati il problema viene falsato.
Ripensava a come
tutto fosse diverso rifacendosi all’idea della morte come azione e non come
stato. I modi di essere contrapposti
sono visibile ed invisibile, vivo con il corpo e vivo senza corpo, la morte è
solo il momento del trapasso…
Volendo riassumere
in una immagine quello che pensava d’avere capito, gli veniva in testa l’idea
d’una partita di calcio con una panchina infinita. L’allenatore secondo un suo
disegno, fa entrare un nuovo giocatore, e richiama in panchina a caso, uno alla
volta, quelli che stanno giocando. Il nuovo entrato viene accolto con un
applauso dai compagni già in campo, con
un applauso viene accompagnato anche quello che esce. Nel breve spazio di tempo
nel quale gli viene consentito di
giocare, ogni giocatore contribuisce positivamente o negativamente allo
sviluppo della partita. Alle volte è assolutamente ininfluente, altre
addirittura non riesce neppure a toccare
la palla. Ma la cosa è irrilevante, di fatto ha giocato! Ciò che conta, non è
il giocatore ma la partita.
Andava però anche scoprendo che, al di là
della partita, c’è una relazione stretta
tra chi ha giocato, tra chi gioca e chi deve ancora giocare, una relazione che
va al di fuori ed al di là della partita, che non si risolve nel gioco, ma vive
oltre il tempo passato in campo a giocare...
All’alba decise di
riprendere la macchina per tornare sul S.Simeone a parlare con l’architetto.
Capiva che sarebbe tornato in pace con se stesso soltanto quando avesse trovato
pace con i Celti, esaurendo il desiderio di conoscenza nei loro confronti. Fino
a quel momento li avrebbe vissuti con angoscia come un incubo. Solo quando li
avesse ritrovati, li avrebbe vissuti con la serenità del figlio adottivo che è finalmente riuscito a
ritrovare il padre naturale...
Rise in macchina
con se stesso pensando a come l’ambiente politico locale avrebbe preso l’idea
balzana d’uno che si sente adottato dall’Italia, e vuole ritrovare nella
cultura celtica la sua origine naturale. Ma in effetti, l’idea d’un figlio che
vuole ad ogni costo ritrovare il proprio padre naturale, dava bene l’idea
dell’ansia che lo accompagnava nella ricerca, dell’impegno che metteva per
arrivare ad un risultato.
Giunse
sull’altopiano che stava sorgendo il sole. Non si vedeva ancora, nascosto
dietro alle prealpi giulie ed al massiccio del Canin, ma tra una montagna e
l’altra era entrata una lama di luce che percorreva come un faro la pianura
oltre il forte di Osoppo. La lama si fondeva nella nebbia per sciogliersi ed
arretrare come un onda che risale verso le montagna e ritornare al sole che
finalmente spuntava dietro al Plauris,
facendo emergere l’ombra del S.Simeone
dalle opposte montagne di Peonis. Non era la prima volta che vedeva sorgere il
sole, ma era la prima volta che s’era fermato a notare i particolari della
scena, forse perché mai prima aveva visto la scena da un punto così importante
d’osservazione.
Trovò l’architetto
già al lavoro, impegnato a fare il formaggio nella stanza tra la biblioteca e
il recinto degli animali. Le pecore belavano accalcandosi alla porta del
“tàmar” a controllare l’arrivo del forestiero. Tàmar, si sarebbe appunto
chiamato il recinto se ci si fosse trovati in
malga. Parola celtica? Poteva
essere. In effetti poteva avere senso
pensare che si fossero mantenute soltanto le parole che si riferivano alle cose
che il tempo non aveva cambiato.
“Sono passati
quasi tremila anni, ma ciò che sto facendo è identico a quello che in questi
luoghi, si faceva tremila anni fa,” sottolineò l’architetto.
L’aveva salutato
senza alcuna sorpresa, come se fosse stato sicuro di vederlo e anzi si
aspettasse la visita.
“Già qui” gli aveva
detto vedendolo arrivare, ma avrebbe anche potuto dire “Così tardi? Ti
aspettavo all’alba!” Non aveva premesso alcuna parola di commento alla scena
della sera prima quando se n’era andato
così in fretta. Certamente non aveva creduto all’impegno del quale aveva detto
d’essersi ricordato all’ultimo momento. Forse
aveva capito il vero motivo di quella fretta improvvisa. Forse anche per
lui il percorso di avvicinamento ai Celti non era stato facile e quindi poteva capire
le difficoltà e le perplessità degli altri.
In effetti, il
celta di tremila anni prima al suo posto per certi versi poteva essere diverso:
aveva diverso il colore della barba e dei capelli, diversa aveva forse la
foggia dei vestiti. Ma non troppo, perché
l’architetto con quella grande vestaglia colore verde muschio dalla
quale uscivano appena i calzoni alla zuava, forse era meno diverso di quanto si
potesse immaginare. Le “dalmine” ad esempio, che aveva ai piedi, con le suola
scavate nel legno, chiuse sopra da un pezzo di cuoio, potevano ben essere le
stesse calzature del celti. Forse a quel tempo erano completamente
incavate nel legno, come s’usa ancora in
Olanda…
E sotto, quei due
pezzi di ferro attaccati alla suola come ramponi, a evitare pericolose
scivolate, anche nel nome “glacìns” facevano pensare a strumenti venuti dalla
notte dei tempi…
In un angolo, a
terra, c’era il fuoco acceso e sopra la “cjaldèrie”, il grande paiolo appeso
alla “cjàre”, il trespolo di legno che ruotava consentendo di allontanare senza
fatica il latte dal fuoco, quando avesse raggiunto la giusta temperatura. Il
latte si era rappreso, la cagliata era pronta per essere rotta e lavorata con
la “glòve”.
“Hai letto di
Menocchio?” gli chiese l’architetto.
Sorrise. Anche a
lui era venuto in mente il mugnaio Menocchio, guardando il latte addensarsi e
diventare una massa consistente.
“Attraverso la sua
storia puoi risalire a quella dei benandanti.” Su quel riferimento, anche Luciano era venuto in
mente d’aver letto che si discuteva tra gli storici locali se il mugnaio doveva essere considerato un
benandante. “Non so anch’io se lo sia stato, ma certamente è morto nella stessa
azione di repressione gestita dall’Inquisizione, che ha portato
all’eliminazione del fenomeno dei benandanti.”
Menocchio era stato una originale figura di
eretico in Friuli, giustiziato per non aver voluto rinunciare alle proprie
convinzioni e soprattutto per il desiderio di credere soltanto a ciò di cui era
convinto. Considerava “mercanzie” le
sovrastrutture imposte dalla Chiesa ai credenti, per complicare inutilmente
un Vangelo che, a suo dire, si
poteva riassumere in quattro parole.
Muore con il corpo anche l’anima sosteneva, ma
resta lo spirito, e gli spiriti possono essere in relazione tra loro. Per
questa convinzione il mugnaio poteva essere ricollegato ai benandanti, e
attraverso questi ai Celti. Anche se la
sua eresia andava ben oltre, fino a ritenere che Cristo fosse solo uno dei
figli di Dio, “perchè anche noi, (tutti gli uomini) siamo figli di Dio, della
stessa natura di quello che è morto in croce”.
Il motivo
però per il quale, ad ambedue, guardando
formarsi il formaggio, era venuto in mente Menocchio, era un altro: era la sua
originale cosmogonia. All’inizio, aveva cercato di spiegare agli inquisitori,
c’era il caos. Ma poi quel volume era diventato
una massa, appunto come si rapprende il formaggio nel latte. E infine
aggiungeva, con una immagine ancora più
ardita: “Come nel formaggio si formano i vermi, così si sono formati gli angeli.”
“Con l’immagine
del latte che si trasforma in formaggio e del formaggio che si trasforma in
vermi, cambiando natura,” aveva ripreso a dire l’architetto, mentre continuava
a tagliare la cagliata, “Menocchio cercava di spiegarsi e di ammettere
l’esistenza d’una natura diversa che nasce da una precedente e può esistere
senza di questa. Come i vermi si sono
sostituiti al formaggio, così la materia si è trasformata nella dimensione
spirituale degli angeli, così l’uomo può trasformarsi in una dimensione
extraterrena ed extracorporale.
Allo stesso modo, qualche
migliaio d’anni prima i Celti, forse anche loro guardando al formarsi del
formaggio, erano arrivati all’idea dell’unicità del mondo in due diverse
dimensioni, che convivono assieme. Non esiste quindi un al di qua e un al di
là. Sullo stesso campo c’è chi gioca, chi ha già giocato e chi in panchina
aspetta di giocare. Ma lo stadio è lo stesso...
Vivono assieme
quelli che hanno il corpo, con quelli che non lo hanno più, ma i secondi sono
come avvolti in una membrana, che li rende invisibili. Molti ne avvertono la
presenza, ma pochi possono raccontare d’essere riusciti a stabilire un
contatto. Forse nel nascere con la membrana amniotica, si acquisisce una
particolare capacità di superare la barriera che impedisce ai vivi col corpo, di vedere i vivi senza corpo.
Forse la “camicia”
è solo una allusione, e questa capacità è propria di alcuni, medium e
sensitivi, senza alcuna relazione alla modalità con la quale sono nati. Forse
invece il riferimento è più concreto,
perché in effetti la modalità del nascere influisce sulla modalità del
vivere, modificando le capacità sensoriali e di relazione proprie dei singoli
individui.
Forse. Una cosa
però è certa, che i nostri antenati Celti, erano tutt’altro che barbari, come
li definirono i conquistatori romani. Se ti fermi, voglio farti vedere una
cosa. Sono convinto di potermi fidare e che tu sappia mantenere un segreto.”
L’aveva lasciato
parlare senza mai interromperlo. Al suo invito aveva solo annuito, chiedendosi
quale altra sorpresa lo attendesse dopo la sorpresa dei discorsi appena
ascoltati.
Il sole era già
alto quando, finiti i lavori nella rudimentale latteria l’architetto aveva
aperto il recinto per portare al pascolo
il piccolo gregge. Si mise davanti e le pecore presero a seguirlo. Dietro
venivano le capre e infine Luciano che
chiudeva il corteo camminando in
silenzio e rimuginando su quale poteva essere il nuovo segreto che gli avrebbe rivelato lo strano
pastore alla guida del gregge.
Presero nella
direzione della cima del S.Simeone.
Lasciata però la
mulattiera che porta alla vetta, deviarono subito per un sentiero che
attraversa il monte a mezza costa, ed arrivarono in una radura circondata da
querce. Attorno il bosco era di faggi e colpiva la stranezza di quella macchia
di vegetazione diversa attorno alla radura. Non potè non pensare ai Celti ed al
culto che avevano per le querce che consideravano alberi sacri. Forse erano
stati loro a piantare quegli alberi diversi, portando le piantine come reliquie
dai loro paesi d’origine.
Qualche centinaio
di metri più avanti, s’apriva un altro avvallamento con un'altra radura,
segnata da grandi massi. Da lì il terreno cominciava a salire con una pendenza
maggiore e fra gli alberi c’erano sparsi dei grandi sassi. “Il cimitero
dei celti, la loro necropoli,” pensò tra sè, senza che l’architetto gli avesse
detto ancora niente.
Era stata una
intuizione. Dei massi su un terreno in pendenza non sono evidentemente
sufficienti per dire che si tratta d’un cimitero dei Celti. In verità, leggendo
la storia dei ritrovamenti sui Celti, era rimasto sorpreso dal fatto che le
necropoli spesso erano poste su terreni in forte pendenza. La nostra idea del
cimitero richiama terreni pianeggianti, chissà perché loro usavano anche quelli
in salita? Forse solo perché c’erano i
massi che venivano utilizzati
come delle lapidi naturali, aveva pensato Luciano: invece che costruire la
lapide sopra la fossa, scavavano la fossa sotto alla lapide. Ma anche questa
era una sua interpretazione personale della quale non aveva trovato nessuna
conferma.
Ai piedi di quello che aveva immaginato fosse
il pendio cimiteriale, c’era un gruppo di
enormi massi. Erano simili a quelli che l’avevano colpito sul Sorantri.
Forse proprio attorno a quelle pietre che le forze della natura aveva staccato
e fatto emergere a dare il senso di qualcosa d’eterno, i Celti celebravano i
propri riti. Accanto, c’era una
montagnola d’una decina di metri di diametro e tre o quattro d’altezza. E’ una
conformazione naturale abbastanza frequente nel suolo in montagna, ma per la
posizione al margine inferiore di quello che aveva immaginato fosse un
cimitero, era logico sospettare che potesse essere una rialzo artificiale, un
tumulo.
Così aveva infatti
pensato anche l’architetto e s’era messo a scavare un cunicolo alla base d’una delle
pareti laterali. Ci aveva messo mesi di lavoro perché voleva evitare il rischio
di far franare tutto. Ma i pastori hanno tanto tempo. Mentre il gregge pascola,
possono dedicarsi ad altre cose, e lui aveva preso a scavare attrezzandosi con
una paletta militare che poteva essere utilizzata sia come vanga che come
zappa. Procedendo nello scavo aveva rinforzato il cunicolo come si usa fare
nelle miniere, e finalmente, un giorno la piccola vanga che usava per lo scavo, gli era quasi
sfuggita di mano non trovando più resistenza nel vano che si era aperto
improvvisamente.
Gli stava raccontando queste
cose mentre spostava un sistema di frasche intrecciate con il quale aveva
chiuso l’apertura. In effetti sotto quel cumulo di stecchi secchi, come se ne
trovano tanti nel bosco, era impossibile immaginare che s’aprisse un passaggio
secreto. Tolte le frasche, era apparso alla vista un cunicolo di quasi un metro
d’altezza e cinquanta centimetri di larghezza.
“Seguimi!” gli
disse l’architetto, iniziando a strisciare carponi nella stretta galleria,
facendosi luce con una torcia elettrica.
C’erano tre metri
circa di cunicolo. L’architetto ormai pratico l’aveva attraversato velocemente.
Luciano, avanzando, lo intravedeva in fondo. S’era già seduto dopo aver raggiunto il vano al quale portava il
cunicolo. Quando anche lui riuscì a sbucare ed a mettersi seduto, come aveva
visto fare l’architetto, non riuscì a trattenere una esclamazione di stupore.
“Visto, che
meraviglia!” commentò l’architetto. Poi
prese a spiegargli, come un esperto cicerone, accompagnando con le
parole il fascio di luce della torcia
elettrica che indirizzava sui particolari che gli andava indicando. Commentava
con le deduzioni ed interpretazioni che si era dato, analizzando i reperti.
“Il tumulo,” prese
a dire, “contiene una doppia camera lignea fatta di mezzi tronchi. All’interno
misura quattro metri per quattro, per uno di altezza, (era in effetti appena
sufficiente per consentire loro di stare seduti). Come si intuisce dai resti,
il pavimento era coperto da tessuti, ed altre stoffe pendevano alle pareti,
tenute insieme da fibule di bronzo.” Continuò la spiegazione evidenziando che
lungo una parete della camera si trovava un sofà di bronzo sul quale giaceva il
morto, la cui testa era sostenuta da un guanciale riempito di erbe.
Erano ancora ben
visibili parti dell’abito oltre a tessuti e pelli che lo coprivano. Portava un
cappello conico di corteccia di betulla che certamente segnalava il suo ruolo
nella società. Il rango del defunto però, senza dubbio un “principe celta”, era
rivelato dal tipico torquis d’oro. In una borsa, portava anche oggetti da
toeletta e tre ami da pesca. Una faretra con frecce pendeva al di sopra di lui.
Portava anche un pugnale il cui lato rivolto verso l’alto era ricoperto d’oro,
anche questo indubbiamente un segno del suo potere. D’oro erano rivestiti
anche la cintura e le “dalmines” con la
punta molto rostrata come le pantofole dei principi orientali. C’erano poi
sparsi, alla rinfusa, anche altri bracciali e altre fibule sempre in oro.
In un angolo c’era
un servizio da banchetto e da simposio: nove corni potori erano appesi alla
parete della camera, e su un tavolino stavano nove piatti in bronzo, con tre
vassoi dello stesso metallo di notevoli dimensioni. Si poteva immaginare quindi
che fosse stato allestito un banchetto funebre per nove persone. La bevanda
invece (che se si fosse potuta analizzare certamente sarebbe risultato
trattarsi di idromele) , era contenuta in un calderone di bronzo di fattura
greca, sul cui orlo erano raffigurati tre leoni. Accanto al bacile si trovava
anche una tazza d’oro ed una situla
carnica.
“Usciamo!” disse
infine l’architetto, conclusa la sua presentazione.
In effetti pur non
essendo così piccolo lo spazio, che comunque prendeva aria a sufficienza dal
cunicolo, ci si sentiva mancare il respiro. Non era un problema di carenza d’aria. Era per la
prima volta che si trovava all’interno d’una tomba. Di quasi tremila anni
prima, certamente. Ma sempre d’una tomba si trattava. Nel buio squarciato dal
fascio di luce della torcia elettrica, la presenza del principe che era stato
inumato in quel luogo si sentiva ancora. Il vano sembrava pieno della sua
presenza, non c’era posto per gli intrusi. E chissà quali maledizioni erano
state poste a proteggere il sonno eterno del principe...
Certo, anche senza
credere alle maledizioni, la suggestione d’una tomba è sempre forte e con un
senso di liberazione respirò una boccata d’aria a pieni polmoni quando, uscendo
dal cunicolo, riuscì a rimettersi in piedi.
“Se hai studiato
qualcosa al riguardo...” riprese la lezione l’architetto appena fuori, “dovresti sapere che una tomba quasi
identica a questa è stata trovata a
Eberdingen-Hochdorf in Germania nel Wurtemberg settentrionale. Lì c’è anche un
carro, ma evidentemente da queste parti, su queste montagne, non aveva senso
andare con il carro, e quindi nel corredo funerario manca l’attrezzo”.
Aveva letto infatti sul
monumentale volume “I Celti” pubblicato in occasione della grande mostra
allestita a Palazzo Grassi a Venezia nel 1991, di questa tomba. Mentre
l’architetto continuava nella sue interpretazioni ricordava che gli studiosi per la tomba in Germania
sostenevano che dimostrava l’esistenza d’una forte corrente di scambi commerciali
con gli Etruschi dell’Italia centrale. In una posizione geograficamente molto più avanzata, come quella delle alpi
carniche, a ridosso del mare adriatico,
era quindi possibile immaginare scambi
commerciali e culturali ancora più intensi con gli abitanti della Magna Grecia.
Non c’era quindi nulla di strano nel pensare che su quelle montagne fossero
arrivati dei mercanti greci, seicento anni prima di Cristo.
Era salito
sull’altopiano per confrontarsi con l’architetto e trovare pace con i Celti. Ora si ritrovava invece con in testa una strana
teoria sui benandanti, un teorema ancora più originale sulla storia dei Celti e
nel cuore il vuoto che gli aveva lasciato quella tomba, e la paura per aver
violato il riposo di quell’antico guerriero...
Rientrando in
paese, in macchina, stava pensando che forse l’idea di liberarsi dei Celti
approfondendo la loro conoscenza non era stata poi così intelligente. Non si
spezza un amore continuando ad inseguire l’amante. Forse era preferibile smettere di inseguire i Celti, se non voleva
finire coinvolto e travolto in un incubo. La decisione estrema alla quale era
arrivato l’architetto, era un segnale da non trascurare...O forse l’approccio
doveva essere diverso…
Cap. 10
L’archeologa.
“Ci sarà pur
qualcuno che ha studiato in modo scientifico queste cose?” si chiedeva il
giorno dopo, aggirandosi tra gli scavi archeologici del colle di Mazeit a
Verzegnis. Aveva letto soltanto dei libri che trattavano della storia dei Celti
a livello europeo. Li aveva letti nel tentativo di superare con i dati della
ricostruzione storica le suggestioni che lo avevano collegato ai Celti in modo
tanto originale quanto poco scientifico. Ma dalle letture aveva finito di
trovare una conferma alle sue suggestioni, soprattutto quando gli autori
cercavano di interpretare i pochi dati a disposizione, per una ricostruzione di
quella che era stata la cultura dei Celti.
Anche nel caso
specifico della storia dei Celti in Friuli (se c’era stata una storia dei Celti
in Friuli), avrebbe dovuto smetterla di cercare quella che ormai chiamava
“l’atmosfera dei Celti” e che andava a rivivere, fermandosi nei siti che,
secondo le tradizioni o le leggende, avevano visto la loro presenza. Doveva
ritornare ai dati certi ai dati archeologici. Avrebbe dovuto riferirsi al elementi concreti, avrebbe
dovuto confrontarsi con qualcuno che si fosse impegnato a ricavare i dati sulla
storia dei Celti in Friuli, attraverso una seria indagine archeologica e non
con un architetto che, in un momento di depressione, s’era invaghito dei Celti
fino a decidere di andare a vivere in qualche modo con loro.
Non era la prima
volta che visitava quel luogo. Come un reduce visita volentieri i luoghi della
memoria, legati alle vicende della guerra alla quale anch’egli ha partecipato,
così anche lui era diventato un cultore del “luoghi della memoria” della storia
dei Celti, e per le sue passeggiate sceglieva ormai quasi esclusivamente i
luoghi ove, da quanto aveva letto, erano stati rinvenuti dei reperti, oltre a
Raveo, appunto Verzegnis, e poi Paularo, Lauco, Socchieve e il S.Simeone.
Non c’era mai nessuno in quei luoghi e
restò quindi molto sorpreso quel giorno accorgendosi d’essere stato preceduto
da qualcuno. Accanto agli scavi dai quali era emersa una torre forse d’origine
celtica, c’era una donna come assorta, intenta a guardare i resti della torre.
“Disturbo?” chiese avvicinandosi, usando
la domanda come saluto.
Lei si riscosse, a quella voce
imprevista, lo guardò sorpresa.
“Perché dovrebbe?” chiese infine, stando
al gioco dei convenevoli.
“E’ la prima volta che trovo qualcuno!”
“Ci viene spesso?”
“Io? Direi proprio di sì. E lei?”
“Io ci lavoro.”
“Come ci lavora?”
“Ho organizzato e diretto io, questi
scavi.”
“Lei è Giulia …?. L’ho trovata citata in
tanti saggi. E’ uno dei massimi esperti sui Celti in Italia.”
“Non esageriamo! É da tanto tempo che me
ne occupo, a partire da quando studiavo all’Università. Ho studiato il fenomeno della loro diffusione
soprattutto in Lombardia, partecipando a numerose campagne di scavo. Poi il mio
interesse si è spostato sui Celti in Friuli.”
“Come mai?”
“E’ una storia molto complessa e se vuole
anche molto strana.”
“Immagino che le possa apparire
indiscreto e forse anche maleducato proponendomi con queste domande. Non ci
siamo neppure presentati...”
Luciano spiegò in breve chi fosse e come
da appena un anno si fosse scoperta questa “insana passione” per la storia dei
Celti. Parlò evidentemente d’una sorta di hobby, senza fare cenno ai sogni,
all’architetto ed a tutto quello che gli stava capitando, a causa di questi progenitori
che stavano invadendo ogni giorno di più la sua vita personale.
“Sono nata qui, poi la mia famiglia si è
trasferita a Milano. Ho vissuto la mia vita in città ed alla fine, in pensione
ho deciso di ritornare. Perché? Non glielo saprei veramente dire. Mi pareva
d’avere una motivazione forte, per decidermi ad una scelta di vita così
definitiva. Ma ora non sono più sicura d’aver deciso per il meglio, anzi, alle volte mi pare di non sapermi dare una
risposta neppure sulle motivazioni della scelta. Sarà perchè avevo cominciato
ad interessarmi dei Celti in Friuli, sarà
perchè sentivo la nostalgia dei luoghi della mia infanzia, delle mie
vacanze da ragazza, sarà per cento altri motivi, comunque sono tornata. Abito
nella casa laggiù, la casa nella quale
sono nata, proprio lì, di fronte ai Celti”
Così dicendo indicava una vecchia
casa rimessa a nuovo. La facciata bianca
era segnata trasversalmente per tutta la lunghezza da una balaustra di legno scuro, ancorata alle travi
del tetto, da montanti ravvicinati pure di legno. Nei riquadri marcati dal
legno era incastonata una fila regolare di finestre bordate di pietra, ed al
centro spiccava una grande porta ad arco. Il motivo si ripeteva al piano terra,
simmetrico.
Anche nei ricordi
della sua infanzia, pensò Luciano, c’era
una grande linda come quella, nella casa del nonno. Bambino, a sera, si fermava
a volte a tenergli compagnia ed a guardare alla valle che diventava sempre più
cupa. Il nonno fumava la pipa e gli raccontava
le storie dell’Ebreo errante, e ogni tanto si interrompeva dicendogli: “Guarda,
c’è un’altra macchina!”
Come un bambino,
si divertiva a contare le macchine che passavano sulla strada nel fondovalle. Anche lui guardava allora, tra le assi della balaustra,
quel punto di luce che si muoveva nel buio della valle. Sembra soltanto un
punto di luce, commentava il nonno, ma è un’automobile, ci sono degli uomini.
Tutto dipende dai punti di vista, da qui è una luce, se fossimo invece al bordo
della strada, sarebbe una macchina. Tutto è una questione di punti di vista…
Ma la balaustra
della casa del nonno aveva un senso. Da lì si dominava tutta la valle ed era
bello fermarsi con l’occhio che spaziava lontano, fino giù nella pianura, a
parlare dei punti di vista. La balaustra che aveva davanti invece, non aveva
orizzonti, dava direttamente contro la collina. Che senso poteva avere,
fermarsi alla sera a contemplare una collina…
O forse era stata
fatta a posta, per passare le ore, soprattutto nelle notti di plenilunio a
contemplare il colle di fronte, il colle dei Celti, vedendoli muoversi nel
gioco delle ombre degli alberi mossi dalla brezza, sentendoli respirare nel
fruscio delle fronde, cogliendo il loro richiamo nel rumore d’un ramo spezzato,
nel gemito d’un tronco scheggiato. Forse anche la donna che ora guardava gli
scavi, da bambina, prima d’andare a letto, s’era fermata sulla linda con il
nonno che le raccontava dei Celti invece che dell’Ebreo errante…E poi li aveva
visti nei sogni di bambina muoversi sul colle, e le era rimasto il desiderio di
ritornare a scoprirli…
Tutte
fantasticherie! Fantasie sue, nate pensando che tutti debbano avere con i Celti
il rapporto sentimentale che aveva lui. No, per quella donna, i Celti erano
senza dubbio un argomento di studio, il suo approccio era razionale e scientifico,
ed era casuale che fosse nata di fronte
al colle di Mazeit.
“Non mi pare molto soddisfatta della
scelta di tornare.” Commentò per stare al suo discorso, non avendo il coraggio di interrogarla
sul suo rapporto con i Celti.
“In ogni decisione di tornare c’è in
fondo l’idea di poter far tornare il passato, e invece è proprio il ritorno a
far sentire più profondo il vuoto che ci separa da un passato che, in quanto
tale, non ci appartiene più...Ci si dovrebbe fermare ad alimentare la speranza del
ritorno, a farla vivere nel desiderio, nell’illusione che quello che è stato
possa tornare. Il ritorno invece è come l’alba che cancella i sogni nella luce
banale del quotidiano..”
“Ma forse,” sorrise tra sè,” tutto è meno
complicato e meno filosofico... Sono tornata
in un paese che non è più quello d’un tempo. E’ un paese morto, senza
più un luogo ove potersi incontrare, dove sentire che esiste una comunità fatta
di rapporti tra persone. Non c’è più alcuna vita di paese. E non è bello vivere
in un paese morto...”
Luciano condivideva appieno di discorsi
di Giulia, ma piacevolmente sorpreso dalla sua disponibilità a parlare, voleva
approfittarne di quella coincidenza così favorevole per tornare ai Celti. Si vedeva che aveva vissuto in città. Un
estraneo, ad una donna del posto, avrebbe fatto fatica a cavare un
“buongiorno”. Lei invece gli aveva parlato liberamente anche del suo rapporto
con i luoghi, forse allora gli sarebbe riuscito di farla parlare anche del suo
rapporto con i Celti.
“Mi scusi se approfitto di questo
incontro così casuale per chiederle qualche informazione sui Celti. Quando si
dice, le coincidenze... Proprio venendo qui, stamattina, mi dicevo che avrei
dovuto cercare qualche esperto...e, mi
sono incontrato proprio con lei...”
La libertà con la quale la donna gli
aveva parlato, avrebbe potuto indurlo a parlarle liberamente dei sogni che gli
erano stati raccontati, e soprattutto della tomba che gli aveva fatto vedere
l’architetto. Ma in lui la riservatezza del montanaro prevaleva. Restava
comunque e prima di tutto un carnico, di poche parole.
“Sa,” prese a dire “io mi sono fatta una
ricostruzione di tipo letterario, sono arrivato a pensare persino che da queste
parti si sia incontrato con i Celti nel VI secolo avanti Cristo, anche Pitagora”.
Giulia sorrise.
Con la fantasia si può tutto. Ma i reperti che abbiamo trovato sono successivi
al terzo secolo. Forse la nuova spinta all’emigrazione dai luoghi dell’Europa
centrale, che portò i Celti ad occupare anche Roma, li spinse ad est ad occupare
le Alpi Carniche ed il Carso. É probabile quindi che anche i Carni siano
d’origine danubiana e siano arrivati agli inizi del 300 avanti Cristo. Certo non si può escludere che prima di
questa ondata, il territorio fosse già occupato da altri Celti, le tombe
scoperte a Socchieve risalvono all’VIII - V secolo, un’ascia trovata ad Imponzo
sotto il colle di S.Floriano è ancora precedente, mentre risale al VI secolo la
fibula trovata sui resti murari venuti alla luce lungo la strada che sale alla
Pieve di S.Pietro.
È tuttavia
difficile distinguere ciò che è riconducibile ai Celti da ciò che non lo è. E’
fuori di dubbio infatti che i romani, al
loro arrivo su questi territori, trovarono una situazione multietnica, con due
gruppi dominanti, uno venetico ed un gallo carnico.
“Ma in conclusione in Carnia che cosa si
è trovato di veramente celtico?”
“Interessanti soprattutto i ritrovamenti
nella necropoli di Paularo che si sviluppa su terrazzi artificiali che si
adeguano al pendio...”
“In pendio?” ripetè Luciano, soddisfatto
d’avere trovato una ulteriore conferma dell’idea che si era fatta dei cimiteri dei Celti.
“Si, a terrazzi sovrapposti, ed anche le
tombe sono sovrapposte come se più generazioni successive fossero state sepolte
nella stessa tomba di famiglia.
Le più antiche
risalenti al 7° secolo sono in pozzetti contenenti le ceneri, poi ci sono delle
olle contenenti le ossa...”
“E a Raveo?” la interruppe, sorpreso che
non avesse iniziato il racconto da quello che, s’era convinto fosse il sito celtico meglio conservato, il
villaggio di Lauriscia.
“Ma! Il villaggio sul Sorantri, pare
piuttosto di epoca romana...”
“Come romano?” chiese sorpreso per la
sicurezza con la quale l’esperta smontava d’un colpo il punto centrale dal
quale era partita tutta la sua ricostruzione sui Celti.
“Sono state trovate fibule di età
imperiale ed anche monete di Costantino”
“Ma questo non vuol dire che il villaggio
non sia stato costruito precedentemente.”
“Non si può escludere nessuna teoria,
finchè non si hanno conferme o smentite. Anzi in una valletta sottostante, ove sono emersi dei
reperti riferibili alla presenza d’un santuario, la cronologia va dall’8°
secolo per un coltellino e al 6° secolo per una piccola pisside.”
“Quindi al 6° secolo c’era già qualcuno,”
constatò soddisfatto Luciano, pensando ancora alla visita di Pitagora.
“Certamente, come c’era già qualcuno qui,
dove siamo, sul colle di Mazeit, anche se ancora non siamo riusciti a
dimostralo con i nostri scavi. Sul colle attorno infatti, sono stati fatti vari
ritrovamenti casuali, da parte di persone che usano il metaldetector per
ricercare reperti archeologici. E’ stata trovata una laminetta votiva bronzea
con iscrizione venetica riportante un nome “Boijos Totojeno”, che fa supporre
sul colle ci sia stato un santuario, e fibule risalenti certamente al 6° secolo
avanti Cristo.”
“E dagli scavi che cosa è emerso?”
“Nulla di particolarmente interessante
ancora. L’interesse di chi procede con metodo nello scavo archeologico é
diverso da quello di chi si interessa ai ritrovamenti. Per noi conta la storia,
non il pezzo in sè...”
“Eppure il pezzo ha un fascino profondo.
Lo puoi vedere in qualche modo rivivere. Con la fibula rivive la rudimentale
fucina nella quale quasi tremila anni fa, su queste montagne qualcuno
realizzava l’oggetto, dopo averlo immaginato e progettato. Attorno alla fibula
riprende vita il mantello che l’oggetto chiudeva sulla spalla, e la donna che
portava quel mantello. La donna che aveva ricevuto in dono quella fibula, in
un’occasione importante della sua vita. E i pensieri, i sentimenti, le emozioni
di quella donna, sembra quasi che nell’oggetto,
riescano ad attraversare la storia, per rivivere nell’immaginazione
dell’uomo del duemila, che guarda compreso e ammirato la raffinatezza di quei
manufatti.”
“Certo. Ma è un fatto individuale. Nello
scavo l’emozione è un’altra: quella della storia che avanza cancellando gli
individui, come un rullo compressore che
copre il passato a strati. Ed ogni strato ha una storia, una voce...
Siamo partiti, ripulendo gli strati
superficiali, quelli della dimenticanza e della noncuranza. La torre, venuta
meno lo scopo per cui era stata costruita, è servita a chissà quali altri
scopi: ricovero per i cacciatori, ultimamente è stata anche utilizzata come stalla. Siamo così risaliti al momento
cruciale della storia del manufatto: i segni evidenti d’un incendio, databile
al 7° secolo dopo Cristo. Una data alla quale si possono far risalire i
ritrovamenti di tanti altri incendi. E in quei resti si vede allora la Carnia,
come tutta l’Italia, messa a ferro e fuoco dalle invasioni barbariche.
Nella torre non siamo ancora riusciti a
raggiungere il piano di calpestio, e non è quindi possibile esprimere opinioni
sulla sua fondazione. Ma negli scavi fatti a lato, sono emerse concentrazioni
di frammenti di tegoloni romani, un piano di calpestio rettangolare, costituito
da ciottoli collocati senza malta, su una roccia naturale di base, ed
all’interno si è rinvenuto un frammento di cesoie a molle...”
“E nient’altro?”
“Poco per chi pensa che l’archeologia sia
soprattutto ricerca di tesori nascosti. Tanto, se ci si sforza di leggere quei resti e di confrontarli con
altri analoghi, nel tentativo di recuperare il tesoro della storia d’un
luogo...”
“Capisco. E mi scusi per la battuta
stupida, ma in effetti il tesoro fa più effetto, anche perché dietro il mistero
del ritrovamento d’un tesoro c’è sempre il mistero del perché sia stato
nascosto...”
“Abile come giustificazione. Ma per la
sua curiosità le confermo che sono stati trovati anche dei veri tesori, come le
399 monete raccolte in una situla di bronzo rinvenute a Colza di Enemonzo
vicino ad una antica via di collegamento tra le vallate. Per l’esattezza 359
vittoriati romani e quaranta tetradrammi celtici del Norico occidentale.”
Nascosti vicino alla strada, pensava Luciano.
Da chi? E perchè? Da uno che avrebbe voluto tornare a riprenderseli, e non ha
potuto. Perchè? Morto? Dove? Forse proprio a causa di quelle monete nascoste.
Perché poi 399 e non 400?
“Si è riusciti a definire,”
continuava Giulia, “che sono stati nascosti attorno al 125 avanti Cristo. Erano
gli anni della conquista da parte dei romani che poi si concluse nel 115 con il
trionfo per la vittoria sui Gallo Carni, celebrato dal console Emilio Scauro.
Come al solito la storia riporta solo le vittorie, chissà invece quali tante
altre sconfitte, come quelle del povero avaro di Colza, anche dietro alla
storia dell’invasione romana”.
Dal tetto verde del campanile di Villa di
Verzegnis presero a diffondersi dentro il bosco che ricopre il
colle di Mazeit i rintocchi della campana di mezzogiorno.
“Mi scusi, ma devo rientrare per il
pranzo,” s’interruppe bruscamente la signora.
“Mi scusi lei se l’ho intrattenuta con le
mie chiacchiere.”
“E’ stato un piacere.”
“La posso rivedere?”
“Certo!”, disse a mo’ di saluto,
prendendo a scendere in fretta per la vecchia strada che portava al castello di
Mazeit.
“Grazie!” aggiunse Luciano, come risposta
al saluto, e rimase solo a guardare i resti della torre. Il suono della campana
pareva infrangersi contro quelle pietre rimesse a nudo per farle rivivere, per
farle parlare. Certo, la signora avrebbe continuato a scavare con i suoi
studenti, e avrebbe trovato l’origine della torre. Sarebbe stato importante?
Forse sì. Ma di quella torre non si sapeva poi cosa fosse diventata... La torre
d’un castello? Probabilmente sì, dal momento che la strada del paese che porta
da quella parte, ha il nome appunto di
“via del castello”. Un castello del quale non si aveva traccia nella storia. E
dove era finito? Probabilmente i muri
delle case del paese, costruiti con le pietre del castello, avrebbero
potuto raccontare la sua storia...
Ma perché infine doveva porsi anche il
problema della storia del castello di Mazeit? Per quello che era il suo
problema, la ventura di trovare quella donna, una esperta, gli aveva consentito
di saperne molto di più, ma soprattutto, nella disponibilità della signora a
continuare il discorso, aveva trovato una strada per risalire alla storia dei
Celti, meno precaria e fantasiosa di quella dei sogni.
“ A meno che, alla
donna, la scienza non abbia fatto
perdere la poesia delle cose!”. Perché a lui, d’essere erudito sulla storia dei
Celti, in fondo non interessava, desiderava molto di più riprodurre la suggestione dei Celti, per poterla rivivere,
per riuscire in qualche modo a immedesimarsi nel loro modo di vivere e di
pensare.
I rintocchi della
campana continuavano ad infrangersi contro le rocce, a penetrare negli
anfratti, a lambire le foglie degli alberi a sciogliersi nel muschio del bosco,
e la donna, ormai al piede del colle, correva sulla strada verso casa.
“Aveva mai sentito
in città quei suoni? Non capiva la donna il vantaggio d’aver abbandonato il
suono muto delle campane che scende a
sporcarsi tra le cortine di case insensibili, a infangarsi nel rumore del
traffico, per ritrovare quel suono di
voce che riemerge dal tempo per penetrare nuovamente la terra e farla vibrare nel tremore d’un eco
sussurrato?”
Proprio in quel sussurro, lui sentiva riemergere la voce
dei Celti. Forse questo doveva capire anche lei prima di mettersi a studiare i
Celti...
Cap. 11
Artenia.
“Sono tornati!” lo
aveva aggredito così, appena le aveva aperto la porta, e l’espressione voleva
essere un saluto, ed allo stesso tempo una richiesta di aiuto. Era visibilmente
spaventata.
“Chi, sono
tornati?”, chiese lui. Se ci avesse pensato avrebbe capito da sè il significato
dell’espressione, ma così di brutto, mentre ancora stava aprendo la porta,
senza che neppure si fosse reso conto di chi aveva davanti…
Era Maria da Mede.
La fece entrare e la fece accomodare sul divano: “Vuoi qualcosa?” chiese
preoccupato.
“No. No. Sono
tornati...”
Capiva che aveva
bisogno soltanto di sfogarsi e di raccontare e la lasciò parlare.
Erano mesi ormai,
prese a dire, che non faceva i sogni da incubo che gli aveva raccontato l’anno
prima. Forse era proprio da quando
glieli aveva raccontati. Pensava
d’esserne fuori, che fosse un modo di essere, superato con l’età, un po’ come
il ciclo delle mestruazioni, e invece la notte precedente le erano tornati.
Aveva sognato di nuovo.
Non c’era più
Rinaldo e il cimitero, c’erano soltanto le persone vestite in modo strano con
le quali si chiudeva a volte il suo
sogno ricorrente. Si trovava nel prato del castello.
“Sai a quale luogo
mi riferisco?”
“Certo. Viene
anche chiamato la cort dal Salvàn (il cortile del Salvàn). Il nome mi ha sempre
incuriosito ed ho anche cercato di trovare a che cosa potesse riferirsi. Ma
senza esiti credibili. Forse, sulla base di qualche leggenda, Salvan potrebbe
stare per uomo selvatico, per uomo preistorico, ad indicare che il luogo era
abitato prima dei romani”.
“Vedi, tu lo sai,
io no. Io non lo sapevo. Fino a ieri
sera sapevo soltanto che si chiamasse il prato del Castello, e tante
volte, andando a funghi avevo avuto modo
di notare che c’erano in effetti i ruderi di qualcosa che poteva essere stato
un castello”.
S’era dunque
trovata in sogno, prese a raccontare, tra quei ruderi e attorno a lei c’era una
folla di persone. Erano tutti vestiti con una tunica che restava molto sopra al
ginocchio e sotto avevano dei calzoni dello stesso colore della tunica. Alcuni
avevano anche un mantello, messo di traverso e chiuso da una fibbia su una
spalla, invece che sul petto, come sono di solito i mantelli. Tutti avevano i
capelli lunghi e tutti erano vestiti allo stesso modo, sì che a fatica,
soltanto dai lineamenti del volto, si distinguevano le donne dagli uomini.
Accanto a lei, seduto sullo stesso muretto, in un
posto sopraelevato, c’era un giovane. Nel vestito le ricordava il giovane che
nei sogni precedenti, sulla tomba prendeva il posto di Rinaldo, e la folla
d’ombre che si muoveva con lui. Gli altri erano raccolti sotto, chi in piedi e
chi seduto, come se dovessero ascoltare un discorso. Era evidente che
s’attendevano che loro due prendessero a parlare. Ma lei non sapeva che dire,
si trovava come un attore in una scena che non è la sua, senza conoscere la
parte. Un vecchio che stava davanti, in prima fila, come il suggeritore a
teatro, la sollecitò ad iniziare.
“Parla!”, le
disse. Ma lei non aveva neppure l’idea di che cosa avrebbe dovuto dire.
“Ora che ha il
Salvàn finalmente al suo fianco, Artenia può raccontarci la sua storia,”
aggiunse il vecchio rivolto agli altri. Sentendosi chiamare con quel nome, fu
come se d’un tratto si fosse ricordata del suo personaggio, e nel sogno aveva quindi preso a narrare le vicende della
sua vita.
“Sono nata e
vissuta laggiù,” e così dicendo aveva indicato con il braccio teso, la sella che
s’apre a fianco del monte Simeone, sopra il lago di Cavazzo.
“La finestra tra
la Carnia ed il Friuli” pensò Luciano, “attorno alla quale si era sviluppato il
racconto della perpetua di Luciano.
In effetti
l’ultima catena delle prealpi carniche in quel punto, sembra interrompersi per
lasciare uno spazio vuoto dal quale si vede la pianura, e in primo piano, sul
fondale, emerge il colle del castello di Artegna. Proprio per questo, per il
vantaggio dato dal fatto che i due punti erano in ottica tra loro, la storia
riporta che, ancora in epoca romana erano sorti i due castelli di S.Lorenzo in
montagna e di S.Martino in pianura. Dal castello in montagna si poteva
segnalare a quello in pianura, l’arrivo delle orde dei barbari, dando al
sistema dei castelli della pianura friulana almeno un giorno di vantaggio per
organizzarsi. Non meno d’un giorno infatti,
avrebbero dovuto impiegare le
truppe avvistate dalle torri del castello di S.Lorenzo per raggiungere,
seguendo il corso del Tagliamento, il
castello di S.Martino.
Ma forse, anche se
mancano notizie al riguardo, questa opportunità strategica era stata sfruttata
ancora prima dei romani e infatti Maria nella parte di Artenia, ricordava
proprio d’essere nata nel villaggio di Magnàn che sorgeva sul colle di S. Martino,
mentre lì dove s’erano ritrovati a rievocare il loro racconto c’era il
villaggio di Salvàn. (Ecco perché, pensò Luciano, il luogo porta i due nomi di prato del
castello e di corte del Salvàn!).
“Lo sappiamo che
sei nata laggiù,” la interruppe il vecchio, “perché fin laggiù si era spinto il
nostro popolo. Era venuto da oltre da oltre le alte montagne della catena del
Cogliàn, e s’era distribuito in tanti villaggi sulle montagne che degradano
verso la pianura, fino alle ultime propaggini delle alture di Magnàn. Ogni
villaggio era autonomo, e viveva allevando il bestiame in comunità ed anche
praticando l’agricoltura. La terra era di tutti, il bosco era di tutti, e tutti
potevano servirsene, aiutandosi a vicenda, per diminuire la fatica d’ognuno.
Tutti avevano il
necessario, e tutti allo stesso modo erano consapevoli che non avesse senso
darsi da fare per procurarsi il superfluo. Vivevano quindi in perfetta armonia
tra loro, in un rapporto di assoluta sintonia con la natura e con l’ambiente,
pronti però a prendere le armi ed a difendersi, se qualcuno avesse minacciato
la pace dei loro villaggi.
Nelle feste erano
soliti riunirsi in località prestabilite. Per la festa di Imbolc, nel secondo mese dell’anno, nel pieno
dell’inverno per invocare l’arrivo della primavera, si riunivano invece a rotazione in uno dei villaggi, a
festeggiare e celebrare assieme i riti in onore del Dio Unico e delle sue
manifestazioni”.
“Quell’anno
appunto,” riprese Artenia, “gli abitanti di Magnàn, assieme ad altri villaggi,
s’erano dati convegno al villaggio di Salvàn”.
S’era mosso il giorno prima della festa tutto
il villaggio: uomini, donne e bambini.
Nelle capanne sul colle avevano lasciato soltanto i vecchi, che non potevano
sottoporsi alla fatica di quasi dieci ore di viaggio. Raggiunto Salvàn, dopo
aver superato l’erta salita che dal greto del torrente But, porta al costone di
roccia sul quale era stato costruito il villaggio, si erano sistemati come
ospiti nelle varie capanne.
Su come passare la
notte in tanta gente nei piccoli tuguri non c’era problema, perché la notte
intera e il giorno dopo si sarebbe fatto festa mangiando e danzando. Il piacere
degli Dei nel ricevere i festeggiamenti sarebbe stato il piacere degli uomini
nel celebrarli. Su cosa mangiare c’erano ancora meno problemi, perchè da giorni
la gente del villaggio, uomini e donne, non faceva altro che preparare pietanze
per la festa, come ancora s’usa in qualche paese della Carnia.
Lei aveva sedici
anni, e s’era da tempo preparata a quella festa alla quale avrebbe partecipato
per la prima volta con la libertà che le derivava dall’aver raggiunto la
maggiore età.
“Da giorni non
facevo altro che immaginare quanto avrei danzato, quanto avrei cantato, quanto
mi sarei divertita a stuzzicare i coetanei. M’imbattei invece con lui e tutti i
miei programmi ed i miei propositi si dissolsero come d’incanto”. Così dicendo
indicava con una punta di rancore il giovane che le stava seduto accanto. “Lo
vidi, e m’innamorai di lui”.
L’altro fece per
dire qualcosa, forse avrebbe voluto scusarsi o quantomeno spiegarsi, fornendo
la sua versione.
“lo so,”
l’interruppe lei, “che tu non hai fatto niente, che non hai nessuna colpa.”
Ma neppure lei!
Non era stata lei a sceglierlo. Lei non
l’aveva neppure notato. Non aveva avuto
il tempo di osservare se era bello o se era brutto, non aveva avuto modo di
parlare con lui, per capire se era
simpatico od antipatico. Non sapeva nulla di lui e tuttavia se n’era
innamorata, come se le fosse scoppiato dentro un fuoco che aveva bisogno di
alimentarsi con l’immagine di lui. Qualcuno, senza dubbio, aveva fatto un sortilegio. Non poteva essere
diversamente...e lei era rimasta coinvolta.
Dalla dimensione
degli spiriti o dalla dimensione del piccolo mondo dei folletti, qualcuno era
uscito e il vortice delle coincidenze aveva voluto che fosse entrato in lei. Lo
spirito giocherellone, aveva deciso di prendersi gioco di lei costringendola a
dipendere da quel ragazzo che portava lo stesso nome del villaggio. Nella danza
non voleva accompagnarsi ad altri che a lui, lo seguiva ovunque, ovunque faceva
in modo che si imbattesse in lei.
Lui non voleva
saperne di lei e della sua corte perché
in generale non voleva saperne delle donne, era innamorato della caccia
e della guerra, non sapeva parlare che di
armi e di animali. E la sua
insistenza lo allontanava ancora di più, perché anche allora, l’uomo nei
confronti della donna voleva essere cacciatore. Salvàn che era poi veramente un
cacciatore, non riusciva a sopportare la sensazione d’essere cacciato.
“Abito laggiù” le
indicò lei quando la luce del sole nell’aria fresca del mattino, aveva sciolto
il buio della notte e consentiva di vedere distintamente nella pianura, oltre
la sella del Simeone, il colle di Magnàn. Ma a lui non piaceva guardare
lontano, a lui non piacevano gli orizzonti, aveva imparato a guardare nel bosco
per riconoscere le tracce degli animali, e sapeva cogliere ogni minimo
dettaglio, risalendo dai particolari a stabilire quale animale era passato, ed anche quanto tempo prima era passato.
In due giorni non
era riuscita a strappargli neppure la promessa che si sarebbero rivisti.
Vivevano in due mondi opposti, lei amante del respiro profondo dell’orizzonte,
della voce flebile delle distanze, della suggestione delle albe e dei tramonti,
lui affascinato dal silenzio del bosco, dalle particolarità distintive delle
piante, dall’odore del muschio, dal piacere del sangue...
Alla sera quando
tutta la gente aveva smesso le danze per guardare oltre la sella di Bordano il
falò che i vecchi rimasti a Magnàn avevano acceso, quasi a voler significare il
loro desiderio d’essere ancora presenti alla festa, lei tenendolo per mano gli
aveva detto: “Ci potremo parlare anche noi con il fuoco. Alla sera tu
l’accenderai e io da laggiù lo vedrò, e risponderò accendendo un altro
fuoco...”
“Con il fuoco,
no,” le aveva risposto senza avvertire la poesia di quella proposta, “non
vorrei spaventare gli animali...”
Non c’era
evidentemente alcuna possibilità di colloquio tra loro due, aveva dovuto
purtroppo constatare sconsolata, e ciononostante lei continuava a sentirsi
condizionata dall’urgenza di vederlo, succube della necessità di sentirlo, come
fosse stata stregata.
“Eppure,” intervenne il vecchio, “la nostra
era cultura della libertà e
dell’indipendenza”.
Anche lei, donna, portava i calzoni e vestiva
come l’uomo. Al di là dell’esteriorità c’era una vera ed assoluta parità tra i
sessi. Nella loro cultura, erano riusciti a liberare l’idea del piacere dallo
scopo, per farne una esperienza da vivere in sè come fatto assoluto.
In questo,
dicevano, si distingue l’uomo dall’animale. Nell’animale il piacere è uno
stimolo per favorire e rendere possibile la procreazione e la continuazione
della specie, nella evoluzione della
loro cultura erano riusciti a superare la condizione di natura, distinguendo la
procreazione dal piacere.
Il piacere dei
sensi era un dono che gli dei avevano dato agli uomini e che gli uomini
dovevano esercitare. Onorare gli Dei significava prima di tutto utilizzare al
meglio i doni avuti. Se qualcuno ti fa un dono e tu non lo utilizzi, offendi
chi è stato generoso nei tuoi confronti.
È vero che gli
occhi sono stati dati all’uomo perché possa vedere dove mette i piedi e poter
quindi camminare. Ma l’uomo ha imparato
ad usarli, prescindendo dal fine, e se ne serve per portare nella propria
mente, il piacere della luce e dei colori.
Così come la vista
deve essere esercitata a godere delle bellezze della natura, l’udito a godere
del piacere della musica e il gusto a gioire dei piaceri della tavola, così
doveva essere esercitato il piacere che coinvolge tutto il corpo. Senza limiti,
se non nel fatto che il piacere d’ognuno non può realizzarsi a danno per gli
altri. Se il tuo piacere si esalta nella condivisione dell’altro è necessario
che tu sappia creare le condizioni perché si verifichi prima una completa
sintonia.
La scelta per la
procreazione, per avere figli, era un’altra cosa. Non aveva nulla a che vedere
con il piacere personale. La scelta andava fatta pensando che il figlio avrebbe
unito ai caratteri propri, quelli della persona prescelta per unirsi ai fini
della continuazione della specie. Negli animali, a volte, la scelta viene fatta
anche in funzione del fatto che maschio e femmina devono stare assieme fino
alla completa autonomia del figlio. Ma loro,
avevano superato anche questo condizionamento, organizzando la comunità
per assolvere al compito di educare i figli. Vi provvedevano infatti i Druidi
che educavano i bambini di tutta la comunità, sostituendosi ai genitori...
“Lo so, lo so,”
riprese Artenia che non capiva perché il vecchio stesse richiamando tutte
quelle cose sulla loro cultura, come se lei fosse una estranea e non dovesse
essere scontato che le sapeva già. “E malgrado queste fossero anche le mie idee
e le mie convinzioni, io m’ero invaghita di costui”.
Non si era chiesta se sarebbe stato l’uomo giusto per il suo
piacere, non sapeva se sarebbe stato l’uomo giusto per i suoi figli, eppure lo
voleva. Così, alla cieca, per i figli e per il piacere. Non c’era altra
spiegazione per un comportamento così illogico se non nello spirito burlone che
aveva deciso di prendersi gioco di lei.
Tornata al suo
villaggio, per giorni e giorni, cocciuta nella sua speranza, ogni sera lei
aveva acceso un grande falò, raccogliendo le legna nel bosco a fianco del colle
di Magnàn, ed ogni volta aveva aspettato invano di vedere un fuoco accendersi
sul pianoro di Salvàn alle falde del monte Diverdalce. Invano, mentre il
folletto che l’aveva presa rideva di lei della sua attesa vana. Quel riso gli scoppiava dentro facendola impazzire,
doveva ad ogni costo zittirlo. Il fuoco che lei accendeva, non riusciva a
spegnere il fuoco che si portava dentro. Vedeva il fumo distendersi in ampie
volute per perdersi contro il cielo nero della notte. Pensava che quel fumo
potesse rappresentare la sua preghiera, ma la sua richiesta saliva invano, come
risposta le tornava soltanto il buio senza fine della notte…
Capiva che c’era
per lei soltanto una via d’uscita..
Ed una sera, dopo
aver atteso ancora una volta invano la risposta del fuoco, si lasciò cadere nel
burrone delle Laurisce, lei che Lauriscia non era...
“Alla vita non si
può rinunciare”, aveva sentenziato il vecchio.
“L’uomo”, aveva
poi continuato “ha il dovere di vivere tutto il tempo che gli è stato assegnato
con il corpo. Se muore prima è costretto a restare nella sofferenza
dell’incertezza tra la vita e la morte. Questo è ciò che ti è capitato, dannata a vivere nel limbo
dove non c’è nè vita né morte.
Questa è la
condizione dell’uomo. Per questo i nostri guerrieri combattono strenuamente,
per essere sicuri che la loro morte è intervenuta solo quando è veramente
scaduto il loro tempo di vivere. Quando la morte arriva al momento dovuto, è
infatti la felice conquista dell’immortalità.
Per questo i
guerrieri si ornano degli scalpi degli avversari, vinti dopo una difesa strenua
condotta fino all’ultimo: sono i resti dei corpi delle persone alle quali loro
hanno aperto le porte dell’immortalità e che, per questo, li accompagnano con
la loro gratitudine e la loro benevolenza”.
Anche questa volta
Maria aveva riportato le parole del vecchio, alternando il discorso indiretto a
quello diretto, come se stesse recitando un copione imparato a memoria. Più che
dal racconto del destino di Artenia, Luciano era stato colpito da tante strane
notizie sulla cultura dei Celti. Le ultime parole gli svelavano in qualche modo
il mistero di questi antenati che, secondo gli storici, si ornavano degli
scalpi dei nemici, ed anche bevevano nei teschi trasformati in coppe.
Dimostravano così, secondo gli storici latini, la loro ferocia e la loro
barbarie.
Ma la rivelazione
del sogno di Maria, rovesciava
radicalmente il concetto, con una interpretazione che aveva però dell’assurdo.
Come si può immaginare la gratitudine di chi hai ucciso? E proprio per il fatto
di averlo ucciso!
Altrettanto originale anche l’idea di distinguere il
piacere in sé, dal fine della procreazione. Non l’aveva però letto da nessuna
parte. Era una invenzione del sogno di Maria. Ma come poteva essersi inventata
una teoria del genere? Anche se in verità, pensò, questa concezione avrebbe in
qualche modo permesso di superare lo stupore di Diodoro Siculo di fronte alla
tendenza all’omosessualità dei Celti.
“Benché le donne
celtiche siano graziose, scrive lo storico, gli uomini non vogliono avere a che
fare con loro. Preferiscono di gran lunga l’amplesso con i rappresentanti del
loro stesso sesso, giacciono su pelli di animale e vi si rotolano con un amante
per parte. La cosa più sorprendente è che non danno alcun peso a dignità e
decenza, offrendo anzi il loro corpo senza alcuna inibizione. E non lo
ritengono affatto vergognoso, offendendosi addirittura, se qualcuno rifiuta gli
approcci.”
Alla luce d’una
filosofia che richiedeva di vivere il piacere per il piacere, senza remore e
condizionamenti, senza complessi di colpa ed inibizioni, quello che per lo
storico era indecenza potrebbe essere stata soltanto assoluta libertà di
costumi, libertà che, come aveva detto il vecchio, deve trovare un limite solo
nella libertà degli altri.
E d’altra parte,
Maria non poteva neppure sapere del costume dei Celti di non allevare i figli
in famiglia. E questa rivelazione del
suo sogno, trovava invece una sicura conferma in Cesare, quando dice che I
Galli ammettevano i figli alla loro presenza in pubblico solo quando avevano
raggiunto l’età per il servizio militare.
Strano del
resto era in assoluto l’intero sogno:
che senso poteva avere un innamoramento determinato da un folletto?
Era evidentemente
un richiamo alla leggenda di Cascugnìt, il folletto (lo sbilf) che faceva
perdere la testa alle donne, e forse la leggenda risaliva proprio ai Celti,
pensò Luciano. A credere alla leggenda, Artenia, senza accorgersi aveva sentito
le melodie dolci e struggenti, colme di
una infinita dolce tristezza che lo sbilf sa suonare con il suo flauto. E le
donne che sentono quel suono, vivono come trasognate, come se la loro
mente fosse finita fuori dal mondo.
Ma le leggende sono difficili da capire al di
fuori del contesto culturale nel quale sono nate. In questo caso, pensava
Luciano, sia per capire Artenia che la leggenda di Cascugnìt, sarebbe stato necessario capire a fondo
l’idea, che avevano i Celti, ma anche
altri popoli, dell’esistenza di due mondi, del visibile e dell’invisibile, in
una continua interferenza tra loro.
Un’idea che di
primo acchito può sembrare strana, ma forse è la stessa che è stata recuperata anche dal cristianesimo,
nell’immagine d’una continua convivenza
dell’individuo con il suo angelo custode.
Maria concluso il
suo racconto, s’aspettava da lui qualche parola di rassicurazione se non di
conforto, Luciano se ne stava invece in silenzio ad elucubrare fantastiche
relazioni tra i folletti e gli angeli custodi!
“Allora?” gli
chiese Maria dopo un po’, interrompendo l’ardito arzigogolare del suo pensiero.
“Allora che?”
disse riscotendosi. “I sogni sono sogni, non c’è una logica, non c’è una
spiegazione. Al massimo possiamo studiarci la cabala, e giocarceli al lotto”.
Cercava di
sdrammatizzare, ma in effetti era lui per primo ormai a non credere si
trattasse veramente soltanto d’un sogno.
Era in qualche modo una sorta di allegoria sulla spiritualità dei Celti, legata
alla convinzione che il mondo visibile ed invisibile convivano nella realtà. Se
nel buio inciampiamo in un sasso, possiamo anche non capire che cosa è stato,
ma il nostro scontro con il mondo dell’insensibile ha lasciato un grande dolore
alla nostra sensibilità. Allo stesso modo la nostra sensibilità può scontrarsi
con il mondo dell’invisibile, e pur senza capire quale ne sia l’origine, trarne
un profondo dolore.
Credeva di capire
che per i Celti la trama della vita dell’uomo di sviluppava su due orditi
diversi che si sovrapponevano ed intrecciavano: l’ordito del visibile e quello
dell’invisibile. Per l’uno la nostra vita è una successione condizionata di
cause ed effetti, per l’altro è una interpolazione continua di stimoli,
suggestioni e suggerimenti, derivati da un altro mondo che convive con il
nostro, nel nostro spazio, ma che non è visibile perché è in un altro tempo.
Chi è già vissuto,
e forse anche chi deve ancora nascere, convive con chi sta vivendo, per cui
nella vita d’ogni uomo si mescolano più desideri di vita. Nei luoghi, i nostri
pensieri si incontrano con tanti altri pensieri che sono stati legati a quei
luoghi, ed alle volte capita che vi lasciamo il pensiero che avevamo arrivando,
per prendere quello d’un altro, lasciato a suo tempo, che riprende a vivere in
noi e con noi.
Chissà quale altra
storia s’era intrecciata con quella di Artenia rendendole incomprensibile la
propria, al punto di indurla a volervi rinunciare, lasciandosi cadere nel
burrone delle Laurisce!…
Cap. 12
Le aganis
Stava ancora pensando all’originale
concetto di libertà di costumi dei Celti che si ricavava dal sogno raccontato
da Maria
il giorno prima, quando dovette andare ad aprire, perché qualcuno aveva
suonato alla porta. Trovandosi davanti l’altra Maria, s’immaginò d’istinto il
motivo della visita.
«Sono tornati, non e’ vero?» le chiese,
pensando fosse logico e prevedibile che, come l’altra volta, al sogno di Maria
da Mede, dovesse far seguito quello di Maria la Svualda..
«Scusami, posso entrare?» si era
preparata a dire lei, ma la domanda con la quale era stata accolta, l’aveva
presa in contropiede. Si fermò sorpresa e stupita, come a cercare di
raccapezzarsi.
«Come fai a saperlo?» chiese infine,
sconcertata.
«Non lo so in effetti”, rispose lui
facendola entrare, «ma lo posso immaginare.»
Cosa stesse immaginando in verità non lo
capiva neppure lui, pensò, mentre lei si accomodava sul divano. Sentiva che
c’era un disegno che si stava sviluppando e del quale faceva parte ormai anche
lui. Ma quale fosse il disegno, e soprattutto dove potesse andare a parare
quella storia, della quale di trovava ad essere involontario protagonista, non
aveva idea.
«Cosa hai saputo di nuovo questa volta?»
e il tono doveva essere stato spazientito e sgarbato, malgrado la sua
intenzione di essere educato e cortese.
«Scusami,» disse infatti lei, «se ti
disturbo, se hai altro da fare posso tornare un’altra volta.»
«No, no. Non mi disturbi. Anzi, desidero
anch’io sentire il tuo racconto.»
Lo desiderava veramente? O avrebbe voluto
piuttosto chiamarsi fuori, come di fronte ad un cruciverba troppo complicato e
per il quale sentiva l’inutilità di giungere alla soluzione? Forse Maria gli avrebbe
raccontato un sogno, come quelli del giorno prima, dal quale avrebbe potuto
ricavare un altro tassello della storia
e della cultura dei Celti. Ma cosa avrebbe potuto farne? A chi avrebbe potuto
raccontare che stava ricostruendo la storia attraverso i sogni?
Anche la storia di Artenia, soprattutto
con quei commenti del vecchio sulla parità tra uomo e donna, nella cultura dei
Celti, non trovava molti riscontri negli studi che andava facendo. Secondo
alcuni storici non si poteva escludere che i Celti avessero molto sviluppato il
concetto di parità tra i sessi. Ma da qui ad affermare che distinguevano la
funzione procreatrice da quella sessuale, il salto non era da poco. Eppure,
come poteva essersi inventata un discorso del genere una donna senza cultura?
Il sogno che le avrebbe raccontato Maria
la Svualda non riguardava però una nuova pagina della cultura celtica, ma
piuttosto lo strano collegamento che, attraverso quei sogni, sembrava volersi
realizzare tra i Celti e la realtà contemporanea, passando attraverso i segni
che nelle varie epoche si erano stratificati su quelle montagne.
Al racconto infatti anche Maria ritenne
di dover premettere una leggenda, confermandogli una delle tesi che stava
cercando di approfondire: quella secondo cui quegli strani sogni non erano che
sviluppi di leggende locali. Di norma
nei sogni infatti si mescola la realtà vissuta da un individuo e la sua
interpretazione fantastica, così anche in quegli strani sogni sembravano mescolarsi elementi di
leggende ormai consolidate nella tradizione orale, con elaborazioni fantastiche
che in qualche modo sembravano voler spiegare quelle leggende. Ma come
facevano, donne senza alcuna cultura, a sviluppare quelle elaborazioni, a
creare quelle relazioni così originali?
In un certo senso, come lo psicologo dal
sogno individuale può risalire alla personalità dell’individuo, così
l’antropologo avrebbe potuto fare una operazione analoga, ricostruendo la
personalità d’un popolo.
Ma che senso ha parlare di personalità
d’un popolo?
Dovette infine smettere le sue
considerazioni fantastiche, preso dal racconto che Maria aveva preso a fargli
della leggenda delle tre Madri.
Era una storia che si raccontava di
solito d’estate, nei fienili d’alta montagna. Alla fine di giugno o ai primi di
luglio, ogni anno, con pochi giorni di differenza, a seconda dell’andamento
della stagione più o meno piovosa, ci si trovava a falciare i prati del Duròn.
Ogni anno, immancabilmente, si abbattevano dei temporali particolarmente
violenti che costringevano ad abbandonare il lavoro nei prati, per rifugiarsi
al riparo in qualche stavolo. E lì, con la regolarità con la quale a Natale si
ascolta lo stesso passo del Vangelo, si sentiva il racconto della leggenda
della madre di S.Pietro.
Dice la leggenda che S.Pietro aveva una
madre particolarmente invidiosa. Quando morì, non ci fu verso, dato che nel
aldilà sembra che le raccomandazioni non funzionino, S.Pietro non riuscì a
farla entrare. Si può immaginare con quale cuore il povero uomo fu costretto a
condannare sua madre alle pene del Purgatorio!
Da quel giorno, non gli riusciva più di
godere delle bellezze del Paradiso, ed anche il suo lavoro aveva preso a farlo
in maniera svogliata, sì che, pare, in qualche caso per errore era finito in
Paradiso chi doveva andare all’Inferno, e viceversa. Il Signore, preoccupato
per l’infelicità del suo apostolo, ma soprattutto per i gravi pasticci che gli stava combinando, e che finivano per
mettere in discussione anche i criteri della giustizia divina, fu costretto a
richiamarlo:
«Se vai avanti così, sono costretto a
toglierti le chiavi del Paradiso e passarle a qualcun altro.»
«Hai ragione Signore! Ma vorrei vedere
te, a sapere che tua madre sta soffrendo le pene del Purgatorio.»
«Sai bene che non si può fare nulla
finchè non ha scontato la sua pena!»
Il Signore era irremovibile, e S.Pietro
sempre più disperato e distratto, commetteva ancora nuovi errori.
Gli uomini sono fatti così, fanno d’ogni
cosa un principio irremovibile, se non ci fossero le donne!... E in effetti
anche quella volta dovette intervenire una donna. Fu la madre del Signore a
convincerlo che una eccezione non sposta il mondo, inventando per
l’occasione il proverbio secondo il
quale, anzi, l’eccezione conferma la regola.
«Se è così!» disse il Signore, che si faceva
convincere facilmente da sua madre. Come quella volta a Cana quando aveva
trasformato l’acqua in vino, cedette anche stavolta, e concesse a Pietro, come
regalo per il suo onomastico, che come e’ noto cade il ventinove di giugno, di
tirare su dal Purgatorio sua madre. Cedette, ma con un compromesso: la doveva
tirare su ogni giorno, facendola rientrare alla sera, e la doveva sollevare,
appesa ad una treccia di aglio.
Perchè mai il Signore era andato ad
inventarsi la treccia di aglio? Chissà? Forse perchè l’aglio purifica, e si sa
che al Signore piacciono i simboli tant’è che ne ha riempito la Chiesa.
Comunque, a S.Pietro che aveva avuto quel
grande favore, non stava certo di fare domande, e non ne fece. Cercò una
treccia di aglio molto robusta e la calò nel Purgatorio. Sua madre vi si
aggrappò, e così riuscì a tirarla su, vicino a sé, in Paradiso.
Non da sola però,
perchè altre anime gli si erano aggrappate alle gonne, e S.Pietro che era tanto
forte quanto generoso, aveva tirato su un intero grappolo di anime purganti.
Se S.Pietro nella sua grandezza d’animo,
faceva finta di non vedere che altre anime approfittavano della situazione, non
così sua madre. Se non fosse bastato il fatto che era invidiosa di natura, si
mise di mezzo anche la madre del diavolo, senz’altro sollecitata da suo figlio.
Girava infatti nelle viscere della terra terribilmente arrabbiato per il
sopruso che gli veniva inflitto e manifestava la sua rabbia facendo scaricare
ogni giorno lampi tremendi, e rispondendo con tuoni paurosi, che facevano
tremare la crosta terrestre.
«Come puoi permettere che si approfittino
di te?» ripeteva la madre del diavolo a quella di S.Pietro, ogni sera quando
questa rientrava in Purgatorio.
«In effetti, è per me soltanto che mio
figlio lancia la treccia!» si convinse infine lei. “Non mi par giusto
costringerlo ad affaticarsi per tirar su donne che neppure conosce. Non è tanto
per me, quanto per lui…”
Il giorno dopo (era il giorno di S.
Ermacora e Fortunato ed era già la tredicesima volta che saliva in Paradiso),
quando le altre anime presero ad attaccarsi a lei, aggrappandosi alla gonna,
cominciò a scuotersi ed a scrollarsi, per costringerle a staccarsi. Agitandosi
però strattonava anche la treccia, e S.Pietro aveva un bel daffare per evitare
che gli sfuggisse di mano.
Ma se S.Pietro, con l’amore che portava
per sua madre, riuscì a resistere a quegli strattoni, non così la treccia, che
si spezzò d’un tratto, facendo precipitare la donna nuovamente nelle fiamme del
Purgatorio.
Da quella volta, ogni anno dal giorno di
S.Pietro a quello di S.Ermacora e Fortunato, la madre dell’apostolo viene
tirata su in Paradiso con una treccia d’aglio. In quei giorni il diavolo
scatena la sua rabbia, facendo scoppiare quasi ogni giorno un violento
temporale. E più violento di tutti è quello che di solito scoppia l’ultimo
giorno, il dodici luglio, il giorno della festa dei martiri fondatori della
Chiesa di Aquileia: è infatti il temporale della rabbia tremenda di S.Pietro
contro sua madre, che a causa dell’invidia s’è persa il beneficio e la
grazia concessa dal Signore.
Ogni anno, raccontava Maria, durante uno
di quei temporali, mentre i lampi sembravano voler incendiare il fienile, dove
assieme a tanta altra gente si erano rifugiati, e i tuoni crepitavano facendo
tremare la terra, aveva sentito sua madre raccontare la storia delle tre madri,
quasi fosse una sorta di scongiuro propiziatorio, per evitare che veramente i fulmini
colpissero il fienile.
E la sera prima, in sogno, sua madre era
tornata, ripetendo ancora una volta il racconto. Ma poi mentre ancora infuriava
il temporale l’aveva presa per mano facendola uscire sotto alla pioggia. Erano
corse giù verso le forre del torrente Vinadia. Le nubi nere e basse, sembravano volessero unire
cielo e terra in un unico vortice. S’era fatto quasi buio, e i lampi
squarciavano la tenebra, caduta sulla terra, nera e pesante come quella che,
dice il Vangelo, era scesa dopo la morte
in croce del Signore.
Non aveva mai saputo ci fosse un sentiero
per scendere nelle forre del torrente. E se anche l’avesse saputo, certo non
l’avrebbe percorso, con la paura che aveva del vuoto, con la paura che provava,
al solo sentire nominare l’orrido del Vinadia, dove s’aggiravano gli spiriti
dannati di tante persone che avevano utilizzato quei precipizi per suicidarsi.
Per andare poi dove? A vedere il letto che il torrente s’era scavato tra le
rocce...
E ora invece, assieme a sua madre stava
scendendo, attraverso un sentiero che portava dentro al Vinadia. Ma non era il
solito sentiero di montagna, stretto, incavato dal susseguirsi dei passi nel
tempo. Era largo, come una mulattiera ed era incavato fortemente nella roccia,
come una galleria aperta su un fianco. Nella parete in roccia, c’era una
successione di graffiti e di incisioni.
Come se gli uomini che avevano scavato quella pietra, non paghi della fatica fatta per scalpellare
ed asportare il volume di roccia necessario per consentire l’agevole passaggio del sentiero, avessero
trovato anche la voglia e il tempo per lasciare un segno, un simbolo, una
lettera. O erano stati altri, anni o secoli più tardi, che per ricordo o
devozione a qualcuno o a qualcosa, avevano voluto riempire quella parete di
rudimentali ex voto?
La successione delle incisioni rupestri
comunque era ininterrotta, come se ci fosse stato un impegno a non lasciare
nessuno spazio inutilizzato, come se «gli artisti-sacerdoti della preistoria e
i pastori di tutti i tempi, avessero formato, giorno dopo giorno, un universo
di simboli». C’erano uomini stilizzati, animali e piante richiamati con un
segno, «tracce d’un mondo mitico sconosciuto».
Il pavimento della galleria era un
declivio in leggera pendenza, alternato da successioni irregolari di gradini.
Sul fianco esposto, correva un corrimano
di ferro, fissato di tratto in tratto a montanti pure di ferro, ancorati alla
base ed al tetto. La discesa era molto agevole, ma non per questa minore,
ricordava Maria, era la preoccupazione che si sentiva crescere dentro.
«Dove la stava portando sua madre? E come
mai nessuno le aveva detto prima che c’era quel sentiero che consentiva di
scendere agevolmente nelle forre dei Vinadia?».
«Te l’avrei dovuto dire io!» intervenne
sua madre, come se avesse letto nel suo pensiero, «ma non ne ho avuto il tempo,
quando sono morta eri ancora troppo giovane per conoscere certi segreti...»
«Quali segreti?»
«Vedrai! Ti raccomando soltanto di non
farne parola, nè con il parroco nè con altri uomini di chiesa. Se venissero a
sapere, si abbatterebbe di nuovo la furia dell’Inquisizione a distruggere ogni cosa, come la grandine sul
ganoturco appena nato.»
Che cosa avrebbero dovuto distruggere? E
quell’idea nel duemila d’un possibile ritorno dell’Inquisizione come un ciclone
che spazza via ogni memoria del passato, era semplicemente assurda. Non sarebbe
stato facile comunque, distruggere quel sentiero incavato nella roccia... Gli
ultimi gradini finivano proprio sul letto del torrente, costituito da una sorta
di lastra levigata di marmo grigio, all’interno della quale l’acqua s’era
scavata un canale più profondo. Nei giorni di pioggia, l’acqua tracimando dal
canale, invadeva senza dubbio anche la lastra, e quindi sarebbe stato
impossibile proseguire. Al momento invece,
l’acqua scivolava raccolta nel
suo canale, come in un ruscello, lasciando libero un passaggio a ridosso della
parete di roccia.
Incamminandosi su quel passaggio, avevano
preso a salire il torrente. Ma dopo solo qualche decina di metri, dietro una
insenatura ad angolo retto, si presentò un ambiente completamente diverso. Il
torrente scendeva da una cascata alta un tre quattro metri, e formava un
minuscolo lago. L’acqua mossa in vortici concentrici dal precipitare della
cascata, era limpida e lasciava intravedere il fondo, che pareva quello d’una
grande vasca artificiale di marmo. Ai lati restava un bordo sul quale era
possibile proseguire. Il passaggio portava ad un’apertura che restava tra la
cascata e la parete.
L’acqua
infatti, scendeva come una lama
formando una sorta di tendina a chiusura di qualcosa. La tendina non era
del tutto tirata, lasciava uno spazio dal quale era possibile passare, per
entrare dietro alla cascata...
C’era una grande grotta, sorretta da un
grande pilastro. L’impressione era quella di essere finiti sotto un enorme
fungo. L’acqua scendeva da sopra il cappello, formando il velo a tendina, nel salto tra la cappella
e la base. Il gambo era costituito da una grande colonna, rigonfia come proprio
il gambo di certi funghi, a reggere la roccia sovrastante. Il velo d’acqua non
impediva l’entrata della luce, anzi riflettendo quella poca luce che filtrava
in fondo all’orrido del Vinadia, pareva
la amplificasse, diventando l’acqua stessa in qualche modo una sorgente luminosa che rifletteva nella
grotta un chiarore diffuso, che consentiva di
vedere distintamente ogni cosa.
Era una luce bianca, come quella della luna,
ma d’una intensità più viva e accesa, di quella di qualsiasi più luminoso
plenilunio. Nello strano chiarore
irreale, si distingueva nettamente che
il gambo del fungo era scolpito. C’erano tre donne, in un altorilievo
molto primitivo, come tre cariatidi. Si
davano le mani, dopo averle incrociate davanti alla propria persona, come a
stringersi in una catena umana che dovesse far forza per resistere a qualche
spinta esterna. Il riquadro delle tre donne era ripetuto identico, a formare
così una sorta di catena di donne, che reggeva l’impalcatura della grotta.
«Sono le tre madri,» le spiegava sua
madre. Ma la spiegazione non aveva per lei alcun significato. Non aveva mai
sentito parlare prima delle tre madri.
In fondo, oltre la grande colonna
centrale, s’intravedeva una lama di luce più intensa.
«Forse la grotta aveva un’apertura e
filtrava un raggio di sole,» aveva pensato, mentre seguiva sua madre che si era
mossa decisa in direzione di quella
luce, senza lasciarle il tempo di chiedere qualcosa di più su quelle sculture.
Ma non era così. C’era invece un’apertura che
dava in una stanza piena di luce. Sua madre entrò senza alcuna esitazione, e
lei la seguì...
Non era una stanza. Era un mare di luce.
Come se dalla grotta si fosse entrati nel cratere d’un vulcano costituito non
di lava ma di luce incandescente. Quando finalmente i suoi occhi si furono
abituati, non riuscì a trattenere un «Oh!» di sorpresa.
«Fai silenzio!» gli impose sua madre.
«Scusa!» mormorò, estasiata dalla visione
che gli stava davanti.
Non c’era una precisa fonte luminosa.
Erano le cose in effetti fatte di luce, come elementi di fosforo che brillano
nella notte. D’una luce bianca, come quella del fosforo, come quella della
luna, ma d’una intensità simile a quella di fari potentissimi.
«Non so come spiegartelo!» s’era
interrotta Maria, «non erano fari che illuminavano la scena, ma erano le cose,
le persone come fari di luce».
Luciano annuì per dire che aveva capito,
l’idea del vulcano di luce incandescente era in effetti molto espressiva, e si
chiedeva come avesse potuto una donna senza cultura arrivare ad una immagine
così poetica e così adeguata a rappresentare la
sensazione che voleva esprimere. Lei continuò a raccontare..
Aveva l’impressione d’essere al bordo
superiore d’una enorme rosa bianca. I petali erano formati da tanti puntini
bianchi. Ogni punto era una persona, una donna, vestita d’un riflesso di luce
bianca, che sfumava in alto, in un riflesso di giallo, per i lunghi capelli
biondi. Infinite erano le presenze in quella sorta d’immenso stadio circolare.
Un brulicare di luce tutt’intorno e giù, in centro, in una piccola platea, come
i pistilli d’un fiore, tre donne, più grandi.
Come si potevano distinguere da quella
distanza che sembrava infinita, se quelle a formare i petali, si vedevano solo
come puntini? Erano lontane e vicine allo stesso tempo, come se un occhio
potesse portare l’immagine da lontano e l’altro quella da vicino e le due
immagini potessero fondersi. Per una immagine erano lontane al centro della
rosa, come pistilli appena visibili, per l’altra erano vicine, al punto d’avere
la sensazione d’essere accanto a loro.
Erano tre donne bellissime. La loro
bellezza non era qualcosa di definibile dai particolari, dai lineamenti del
volto. Era piuttosto una sensazione di bellezza e di armonia che prendeva al
guardarle. Si stringevano le mani, ma
non incrociando le braccia, come nella raffigurazione all’ingresso della
grotta, come invece i bambini che giocano a girotondo. Si muovevano facendo
veramente il girotondo? O erano ferme? Ed era ferma o in movimento quella
miriade di donne che faceva corolla alle tre? Non ricordava, ricordava solo la
sensazione di luce e di bellezza, l’immagine di vita, e la spiegazione che le
aveva dato sua madre...
Le tre donne al centro erano tre dee: le
tre madri. Una era la madre della notte, l’altra la madre del giorno, la terza
era la madre dell’alba e della sera, quando il giorno e la notte s’incontrano e
si fondono. La prima, quella della notte era rappresentata dalla luna piena,
quella del giorno dalla luna nera, la terza, che era la più importante, la
madre delle madri, sintesi delle altre due, era rappresentata da due quarti di
luna contrapposti a formare una sorta di «x».
E mentre sua madre le spiegava queste
cose, simboli e volti si alternavano, sovrapponendosi e fondendosi: «Perché la
realtà e il suo simbolo sono la stessa cosa,» le spiegava. Come faceva a sapere
queste cose, a esprimere questi concetti, sua madre che a malapena sapeva leggere e scrivere?
Anche questo era un mistero.
La madre della notte, continuava a dire,
è la madre del divenire. Nella notte quando si spegne la percezione dell’uomo,
la natura vive e si sviluppa. Lontano dall’occhio malevolo e nemico dell’uomo,
la natura respira l’umore della vita, si agita e turgida freme, spinta dalle
suo forze interne e cresce. Di giorno invece le cose si mostrano nel loro
essere statico, senza anima, per quello che servono e non per quello che sono.
Nella magia dell’alba e della sera infine, essere e divenire si fondono, le
realtà viene avvolta e sfumata, resa viva
dall’atmosfera del divenire.
Le tre donne che aveva visto raffigurate
nella grotta all’ingresso, continuava a spiegare sua madre, sulla colonna che
regge il mondo, erano le stesse che ora aveva la ventura di poter contemplare
ed ammirare, nello splendore di quella luce fantastica.
«E la moltitudine di donne
che fa da corolla alle tre dee?»
«Sono le loro ancelle, le «agànes»
«Le aganes? Le fate dell’acqua? Le fate
della notte?»
«Proprio loro! Le fate del divenire...»
Maria si era fermata per chiedergli se ne
aveva mai sentito parlare.
Certo che Luciano ne aveva sentito
parlare. Aveva anche cercato di ricostruire il senso della tradizione di questi
esseri misteriosi che tanta parte avevano in racconti e leggende. «Splendide se
visibili, ma in realtà orrende». E forse ora dal racconto di Maria riusciva a
comprendere quella che gli era sfuggito sui libri.
Le fate che escono dall’acqua e con il
loro umore fecondano la terra. Le fate dell’umore delle femmine in calore, le
fate degli esseri umani che riservano al buio della notte il momento magico
della procreazione, prima che si marcasse come peccato da nascondere, il
momento essenziale per la continuità della specie, della vita naturale
dell’uomo. Le fate demonizzate dal cristianesimo come streghe, per esorcizzare
il sesso di cui erano il simbolo, ora gli venivano ripresentate nella loro
simbologia originaria come le «fate del divenire».
Anche delle tre
madri aveva già letto qualcosa. Gli archeologi avevano trovato diverse
raffigurazione del loro mistero, senza però riuscire a darsene una spiegazione.
Si sono trovati tre volti scolpiti sullo stesso blocco di pietra, oppure
soltanto le due facce contrapposte del giorno e della notte, nella stessa
pietra che rappresenta la sintesi, come nel simbolo delle due falci di luna
contrapposte, della terza dea.
«Nel sogno, non ricordo d’aver fatto il
percorso inverso per uscire dal Vinadia,” aveva concluso Maria, “mi sono
svegliata con l’impressione d’essere
ancora in quella grande luce con una sensazione di pace e di serenità. Solo
oggi, durante il giorno, ripensando al sogno ho preso a preoccuparmi.
Soprattutto quando, non so come, mi sono messa in testa che non era un sogno ma
una visione... “
Si guardarono per un po’ in silenzio, presi nei loro pensieri.
«Che ne pensi?...» chiese infine lei, più
per rompere l’imbarazzo del suo sguardo che per cercare un risposta.
“Non so! E se anche pensassi a qualcosa,
che importanza potrebbe avere il mio parere?”
Cap. 13
Sul monte Dàuda.
«Che doveva pensare?...»
Stava pensando che c’era senz’altro un
collegamento tra la leggenda della madre di S.Pietro e la visione delle tre madri. Se quella della visione risaliva
al pensiero dei Celti e quella raccontata da sua madre nel fienile era lo
sviluppo della stessa idea dopo duemila anni di cristianesimo, non poteva non
pensare che nell’evoluzione della
civiltà il concetto di sviluppo, almeno in certi settori, andava
rimesso in discussione. Quanto più
raffinata la leggenda dei Celti!…
Forse alle tre madri in qualche modo,
nella strana avventura che stava vivendo, doveva ricollegarsi anche il fatto
che aveva come tramite nei confronti dei Celti, tre Marie.
Stava pensando (e più si rafforzava in lui
l’idea e più gli sembrava assurda) d’essere diventato l’interlocutore ultimo,
d’un discorso che aveva come primo promotore qualcuno che dalla notte dei tempi
gli inviava dei messaggi attraverso il tempo e la storia. Da un lontano pianeta
qualcuno gli stava parlando. Il pianeta però non era in un punto indefinito
dello spazio, ma in un punto indefinito del tempo e della storia. E questo
qualcuno, per qualche strano motivo non s’era
sintonizzato direttamente con lui, ma gli mandava dei messaggi
indiretti, attraverso altre persone. Questo lui della notte dei tempi, rivelava
qualcosa nel sogno ad altre persone, e queste, come pedine di un gioco
incomprensibile, erano condizionate a venirgli a raccontare la loro esperienza.
All’altro capo del tempo, nel tempo
presente, c’era lui a raccogliere i fili
dei sogni, per ricomporli in un trama che avesse un senso logico, per
ricostruire un disegno che avesse un senso compiuto.
Ma già tutto questo non aveva senso!
Eppure sentiva che avrebbe avuto altri
messaggi, che avrebbe incontrato altri involontari messaggeri. Forse anche lo
strano architetto del S. Simeone l’avrebbe aiutato a capire qualcosa di più, su
ciò che gli stava succedendo. Forse, (se veramente fosse riuscito a capirlo), avrebbe potuto essere proprio
quello strano personaggio a fornire la chiave che gli avrebbe consentito di
penetrare per ritrovare il bandolo di quell’intreccio sempre più complicato di
circostanze e coincidenze, di sogni ed intuizioni. O forse l’architetto era
invece soltanto un pazzo, e nella migliore delle ipotesi un illuso ed un
sognatore... Ma non stava mettendosi anche lui sulla stessa strada, preso dalla
mania di capire i Celti?...
L’architetto aveva concepito la
fantasiosa teoria di poter risalire nella storia con il viaggio dell’anima,
come i benandanti. S’era isolato dal mondo per poter vivere ed interpretare
questa teoria, nel rapporto con i Celti. Ma, a ripensarci, in effetti gli aveva parlato solo
genericamente di questi ipotetici
viaggi, non gli aveva raccontato nessun particolare. Gli aveva parlato
soltanto della sensazione di poter sentire e vedere delle presenze
sull’altopiano, ma era una cosa quasi naturale, per uno che si era condannato a
vivere solo, e che quindi aveva sviluppato anche una sensibilità particolare.
Avrebbe voluto farsi passare per una
sorta di interlocutore privilegiato dei Celti, ma in fondo tutto ciò che gli
aveva raccontato era soltanto ciò che un ricercatore dilettante avrebbe potuto mettere assieme, unendo i dati di
qualche ritrovamento fortunato, come quello della tomba, con le notizie che si
potevano ricavare dai libri. In verità se qualcosa di originale Luciano l’aveva
scoperto, l’aveva scoperto non attraverso l’architetto ma attraverso i sogni
delle sue tre Marie.
Sogni? Visioni? O erano proprio questi,
delle tre donne, i viaggi dell’anima? Questo, del viaggio dell’anima, era un
termine che non accettava per principio... Che senso ha liberarsi del corpo,
per viaggiare con lo spirito nel tempo? Ma d’altra parte, se per viaggio
dell’anima si poteva intendere la possibilità di vivere in una dimensione senza
il proprio corpo, alla fine, ogni sogno (e soprattutto quei sogni così
particolari che gli erano stati raccontati), poteva ben essere considerato
viaggio dell’anima...
Del resto, se si era messo di nuovo in
macchina per andare a fargli visita, qualche credibilità la riconosceva anche all’architetto, qualche indicazione per
una via d’uscita, seppure soltanto a livello subconscio, se l’attendeva anche
da lui...
Incontrò il piccolo gregge in una radura
appena a fianco della strada, al limitare del bosco di faggi. Cercò uno slargo
ove parcheggiare la macchina. Mentre ancora faceva manovra, girava con lo
sguardo a cercare l’’architetto. Lo intravide infine all’ombra d’un grande
faggio ai bordi della radura, dalla parte opposta rispetto alla strada.
«Ti stavo aspettando» gli gridò da
lontano l’architetto, mentre ancora scendeva dalla macchina.
Le espressioni di cortesia alle volte
sono ridicole, pensava Luciano, chiudendo l’automobile. Come faceva a sapere
che sarebbe arrivato, se aveva deciso di partire all’ultimo momento, d’impulso
e senza alcuna programmazione?
«Come mai?» gridò anche lui, a mo’ di
saluto, stando al gioco dei convenevoli.
«Ho un messaggio per te.» Luciano non
replicò. Prese ad attraversare la radura per raggiungerlo, girando al largo dal
gregge. Che messaggio poteva avere? Ma al di là del messaggio, lo intrigava di
nuovo l’incrocio delle coincidenze. Non s’era detto, commentando l’ultimo sogno
di Maria, che si aspettava di trovare altri messaggi? Ed ora l’architetto lo
riceveva proprio dicendogli che aveva un messaggio per lui, anzi precisando che
si aspettava che sarebbe arrivato a raccoglierlo...
«Non potevi sapere che sarei venuto!» gli
disse infine, continuando a fare i pochi passi che ormai lo separavano da lui.
«Forse no. Ma avevo come la sensazione di
avere l’incarico di raccontarti qualcosa, e non so perché, immaginavo che anche
tu avessi saputo che avevo qualcosa per te.»
«Che cosa avresti dovuto avere?»
«Il racconto d’un viaggio dell’anima.»
«Il racconto d’un sogno, vorrai dire.»
«Non mi credi se ti dico che è più di un
sogno?»
«Non è che non ti creda...» Avrebbe
dovuto spiegargli troppo cose, avrebbe dovuto dirgli di come ormai ne sapeva
fin troppo di sogni, che non erano sogni, che erano più di un sogno...
«Va bene, ti credo,» aggiunse per tagliar
corto, «racconta.»
Gli si era seduto accanto sul muschio
soffice, evidentemente curioso di sapere
quale nuova pagina gli si stesse aprendo del misterioso libro che qualcuno gli
stava leggendo, e come la pagina s’andasse a collocare ed inserire insieme alle
altre che stava raccogliendo. Gli tornò in mente Lauriscia che veniva
sacrificata per poter diventare la pagina d’una preghiera da inviare alla
divinità. Anche queste persone, con i loro sogni, sembravano pagine inviate,
per costruire un racconto.
«Ti ho raccontato che li avevo visti,»
iniziò l’architetto, «ma non era vero. O meglio li ho visti sì, tante notti, ma
erano processioni di anime fuori dal tempo, presenze di spiriti fuori dalla
storia, e questo pensavo che dovesse restare il mio rapporto con loro. Stanotte
invece li ho visti, i Celti, nel loro
tempo, in una pagina della loro storia. Stanotte mi hanno fatto capire come può
essere giunto fino a noi, pur trasformato e profondamente modificato un loro
rito. Stanotte ho vissuto con loro una loro cerimonia, ed ho capito tante cose
della loro vita e della loro cultura...Ma ciò che è strano, ed è il motivo per
il quale ti stavo attendendo, è la convinzione d’aver vissuto questi fatti per
te, per poterli raccontare a te…»
Avrebbe voluto interromperlo per
chiedergli come s’era addormentato prima del sogno, ma non ebbe il coraggio,
vedendolo come rapito nel suo ricordo.
Continuò a raccontare l’architetto d’aver
appreso che vivevano sparsi sulle montagne, a gruppi più o meno numerosi, a
seconda dell’estensione dei terreni coltivabili e dei pascoli. Non in villaggi,
ma in sistemi di case sparse, distanziate tra loro, come sono ancora oggi gli
stavoli di alta montagna. Alle località davano il nome di çja (ancora oggi
forma abbreviata per dire casa, nella lingua carnica) con l’aggiunta d’un
suffisso ad indicarle, distinguendo le une dalle altre: çja-sas, çja-sis,
çja-cis, çja-vas. Nelle posizioni considerate strategiche, s’erano invece
sviluppati dei villaggi fortificati. In quel caso, le capanne erano raggruppate
e racchiuse da una cinta muraria, e l’abitato si chiamava çjar. All’incrocio
delle due valli principali dell’attuale Carnia, c’erano i villaggi di çjar-gne
e di çjar-andes, all’incrocio delle due valli più a ovest çjar-so, sullo
sperone del Sorantri, e ancora çjar-so e çjar-sevalis sulla strada che portava
al passo di Melède verso i villaggi della Carinzia.
“Ma quel che stai
dicendo è assurdo!” non potè fare a meno di esclamare Luciano, interrompendolo.
“In nessuno degli studi di toponomastica ho trovato una interpretazione del
genere. Anche se la tua interpretazione spiegherebbe perché il Gortani parlando
di çja-zaas, il mio paese, afferma che il nome è sicuramente di origine
celtica”.
“Non so che dirti.
In effetti anch’io non aveva letto prima niente di simile. Ma oggi, mi si è
formata nella mente questa convinzione. Comunque, su questi e su altri
particolari avremo modo di parlare un’altra volta”.
Ciò che l’aveva
veramente colpito, continuò a dire, e che sentiva la necessità di confidargli
con urgenza, era la scena della grande festa alla quale aveva potuto
partecipare. La festa di Belìne il dio del fuoco, sul monte di Dàuda, il dio
della notte.
Erano in tanti: una moltitudine. Erano
arrivati durante tutto il giorno dai vari villaggi e si erano radunati ai piedi
del monte Dàuda. Ogni gruppo aveva occupato la posizione che gli era stata
assegnata secondo la tradizione, sin dalla notte dei tempi, nella direzione
dalla quale era arrivato. Si era così formato alla base del monte un sistema
fatto di tanti raggruppamenti di persone, non molto distanti gli uni dagli
altri, che realizzavano una sorta di catena umana a cerchiare l’intera montagna.
Nella visione, guardando la scena
dall’esterno, aveva pensato ad un grande formicaio nel quale tutte le formiche
s’erano raccolte alla base, in tanti gruppi a formare una catena. Il sistema
delle formiche in posizione, circondava
l’intero formicaio e pareva in attesa d’un segnale...
Il segnale, per gli uomini, fu la
scomparsa dell’ultimo raggio di sole dietro alle dolomiti di Forni. Presero
allora a salire contemporaneamente, in tante processioni, dirette tutte alla
vetta del monte. Sul formicaio, sembrava si stessero distendendo, dal basso
verso l’alto, dei fili che si capiva avrebbero dovuto congiungersi sulla cima.
L’idea del filo era resa ancor più realistica dal fatto che le processioni si
muovevano all’interno del bosco, come un filo che viene inserito a raccogliere
l’ordito d’un tessuto dal colore diverso: un filo bianco nell’ordito verde cupo
del bosco di querce.
Ogni processione era organizzata allo
stesso modo. Salivano in fila indiana. Davanti c’era il sacerdote-druido,
riconoscibile dalla tunica bianca che gli scendeva fino ai piedi, dietro tutti
gli altri, prima le donne ed i bambini, dietro gli uomini, tutti vestiti allo
stesso modo, con una corta tunica bianca, fin sopra il ginocchio e sotto i
calzoni bianchi, stretti al malleolo con delle fibule ed ai piedi le
«dalmines».
Spiccava in questo filo bianco una
macchia rossa, subito dietro al druido. Era la Lauriscia più anziana, quella
più prossima al sacrificio. Vestiva una lunga tunica rossa. Ma al di là
del contrasto di quel rosso, con il
bianco delle altre tuniche, colpiva la stranezza di ciò che la ragazza portava
in testa. Aveva issato sopra al capo un
triangolo di metallo, di circa un metro di lato, fissato alla base ad una sorta di elmo. La ragazza assicurava
la stabilità della struttura che portava sopra la testa, afferrando con ambedue
le mani la base del triangolo, come fanno ancor oggi le donne in montagna,
quando portano un fascio di fieno.
Più che intente a sorreggere il
triangolo, le mani sembravano alzate in un atteggiamento orante, come appese
all’asta di ferro trasversale per potersi mantenere in continuità
nell’espressione di preghiera, nella
modalità rituale che si trova riprodotta anche in qualche bassorilievo di
origine celtica.
Al triangolo, erano appesi dei nastri
d’uguale lunghezza, ma di diverso colore, che scendevano sulle spalle della
ragazza, coprendo la tunica rossa con una sorta di piviale multicolore. Sul
vertice in alto, a completare la stranezza di quell’originale trabiccolo, era
infisso un teschio.
Era, evidentemente, quel triangolo con
quei nastri e quel teschio, l’insegna d’ogni singolo gruppo e quindi d’ogni
singolo villaggio. La stessa insegna per tutti, diversa soltanto nel teschio
che, trattandosi d’un vero teschio umano e non d’una imitazione, si riferiva
logicamente ad un diverso defunto. Era il teschio dell’eroe della çja o del
çjar, d’uno che era morto combattendo per la
difesa del proprio territorio.
Come ricorda anche lo storico Diodoro
Siculo, per i Celti era normale
fregiarsi degli scalpi dei nemici uccisi in battaglia, e ornare le case
con questi teschi. Ma nella sua visione, continuava a raccontare l’architetto,
aveva appreso qualcosa di più. Ogni primogenito riceveva in eredità gli scalpi
conquistati dai propri antenati, impegnandosi ad aumentare la collezione ed a
trasferirla al suo primogenito. Gli altri figli dovevano attivarsi per dare
inizio ad una nuova collezione da tramandare ai discendenti. Con il primo
scalpo, si aveva diritto a trasmettere il nome, aveva così inizio una nuova
famiglia, ed una nuova discendenza.
Ma gli scalpi sul triangolo in testa alle
Lauriscie erano altri, non erano quelli dei nemici, ma quelli dei propri eroi,
riscattati per tenerli come protettori dei villaggi. Per questo lo stesso
Diodoro fa riferimento a una sorta di mercato degli scalpi, e dice che qualche
guerriero si era rifiutato di cederlo anche a peso d’oro. Non è che barassero,
acquistando gli scalpi che avrebbero dovuto conquistare in battaglia. C’era una
sorta di riscatto, degli scalpi dei propri caduti.
Gli
scalpi dei nemici proteggevano individualmente chi li aveva uccisi e le loro
famiglie, gli scalpi degli eroi, dei guerrieri che si erano sacrificati per il
bene di tutti, proteggevano la comunità.
«Aveva ragione Cesare,» non riuscì a
trattenersi dal commentare Luciano, come se ciò che gli stava raccontando
l’architetto fosse veramente una pagina di storia e non soltanto un sogno.
«Erano dei barbari! Come si può pensare di adornare la propria abitazione con
dei teschi, ed anche portarli in processione...»
«Non capisco la tua meraviglia,» ribattè
l’architetto, «se ancor oggi andiamo in processione dietro a pezzi di ossa o
addirittura a pezzi di stoffa che
secondo leggende spesso improbabili potrebbero essere appartenuti a dei santi.»
«Ma in questo caso le reliquie hanno un
valore simbolico per richiamare la devozione per il santo.»
«Anche per i Celti erano certamente dei
simboli dei quali ci sfugge l’autentico profondo significato, per la diversa
formazione culturale. Che si trattasse d’una simbologia in positivo, che il
cristianesimo ha anche cercato di recuperare, senza riuscirci del tutto, lo
dimostra anche la leggenda del vescovo di Aosta.»
Divagando dal racconto del sogno, prese
quindi a spiegargli di come, da quando s’era lasciato prendere dalla passione
per i celti, aveva ripreso i contatti con un amico d’università che abita a
Torino, anche lui interessato al mondo dei Celti, che in Piemonte hanno
lasciato tracce ben più significative di quelle che si ritrovano nelle Alpi carniche.
Nella lettura del libro «Il Piemonte delle Origini» di Massimo Centini, che gli
aveva fatto avere l’amico, era rimasto colpito dalla leggenda di San Grato
vescovo di Aosta dal 450 al 470. Si racconta infatti che il santo avrebbe fatto
un viaggio in Palestina per recuperare e portare a Roma la testa di S. Giovanni
il Battezzatore. Ottenendo poi dal Papa, come premio, la mandibola della
preziosa reliquia, che aveva riportato nella sua cattedrale ad Aosta.
L’iconografia di S.Grato che tiene tra le mani la testa di Giovanni
Battista, ha indotto qualche studioso a
individuare nel culto del santo una sorta di rivestimento cristiano del diffuso
rito del culto neolitico, ripreso dai Celti, delle teste mozzate»
«Ma devo completarti il racconto del
viaggio,» s’interruppe d’un tratto, riprendendosi dalla divagazione sui Celti
in Piemonte. «Non portarmi ad altre digressioni con i tuoi commenti. Anche se,
capisci, non vedo dove stia la differenza tra i Celti che si scambiavano gli
scalpi, e il vescovo che torna trionfante con la mandibola di un santo»
«Scusami,» disse Luciano, ripromettendosi
veramente di non interromperlo più, anche se quel raffronto tra gli scalpi dei
Celti e le reliquie dei santi avrebbe meritato un commento.
In effetti si rendeva conto che non era
opportuno rompere il trasporto con il
quale l’altro non stava solo raccontando, ma in un certo modo rivivendo,
e reinterpretando alla luce delle sue teorie, ciò che diceva d’aver visto.
Perché avevano consacrato quel monte e
non altri al Dio Dàuda? Ce n’erano altri attorno, più alti, ma erano sfregiati
dalla roccia nuda. Nel sistema montuoso sul quale si era collocata la maggior
parte dei loro villaggi, quella era la montagna più alta, interamente coperta
di vegetazione. Il bosco di querce saliva fitto, torno a torno su ogni
versante, fino in vetta. Sulla cima erano state tagliate alcune piante per
formare una radura. Al centro, era stato collocato un palo ricavato da un
tronco d’abete. Altissimo, s’andava via via rastremando per finire a punta, e
la punta sembrava perdersi all’infinito, nelle ombre della sera.
Sulla radura erano sbucati d’un tratto
come espulsi da quelle catene umane che salivano insinuandosi nel bosco di
querce, un centinaio di druidi ed altrettante Laurisce con il loro strani
copricapo. Dietro a loro, anche alcuni uomini per ciascuna processione, mentre
la massa della gente si era
intrattenuta dentro al bosco.
I druidi portavano un ramo di vischio,
ormai secco, raccolto per la festa di Samhan dell’anno precedente. Accatastarono
i rami, vicino al palo formando un falò
e il druido più anziano accese il fuoco. Uscirono allora dal bosco, gridando il
nome di Beleno, dei gruppi di giovani in corrispondenza di ogni colonna. Erano i giovani che nell’anno precedente avevano
raggiunta la maggiore età, compiendo sedici anni. Tenevano sulla spalla
sinistra una fascina di stecchi, e nella mano destra una torcia. Si erano
accalcati attorno al fuoco acceso con i rami di vischio, per accendere la
propria torcia, e poi avevano preso a correre, l’uno dopo l’altro, come in una
corsa campestre.
Per la gente che in mezzo al bosco, non poteva
aver visto il fuoco, il grido dei giovani era stato come il segnale della sua
accensione, e tutti s’erano uniti ai giovani nell’invocazione a Beleno. Nell’ombra
che si faceva ormai più fitta pareva fosse la montagna a gridare l’invocazione.
Il grido scendeva di balza in balza, da ogni lato della montagna, a liberare
dagli spiriti maligni i prati ed i boschi e le case, fino al fiume che giù in
fondo alla valle luccicava riflettendo la luna.
Poi la preghiera aveva assunto un ritmo
più composto. Ogni druido a turno gridava una invocazione e la folla faceva eco
con un grido corale, come in chiesa, quando il prete nelle litanie dei santi
invoca ad uno ad uno martiri e santi, e il popolo in coro risponde «te rogamus
audi nos, ti preghiamo ascoltaci.»
Intanto i giovani con le torce
continuavano a correre. Dovevano raggiungere la montagna di Harven che si erge
più alta e rocciosa di fronte al Dàuda. Li si vedeva salire, come un filo di
fuoco che si distendeva leggero contro il chiarore delle rocce.
Quando il filo si sciolse contro il nero
del cielo oltre la vetta, s’udì un grido all’unisono, e con il grido sulla cima
dell’Harven s’accese un altro fuoco.
Avevano accatastato le fascine che ognuno aveva portato fin lassù, ed avevano
incendiato il falò.
Sul Dàuda intanto, mentre si continuava
ad invocare Beleno, gli uomini che erano usciti sulla radura, assieme ai Druidi
e alle Laurisce, avevano preparato un falò in corrispondenza d’ogni catena
umana, con la legna che ogni
partecipante alla processione, aveva portato come offerta. Al fuoco sull’Harven
i Druidi avevano risposto incendiando ognuno il suo falò. La radura era diventata
un cerchio di fuoco, e in mezzo, il gruppo delle Laurisce sembrava dovesse
bruciare avvolto in quell’enorme rogo.
Aveva avuto inizio allora la parte finale
e più suggestiva della cerimonia. Dall’alto dell’Harven, i giovani che in
quell’anno erano diventati uomini, invocavano
in coro Beleno, ed a turno, uno alla volta, lanciavano nel vuoto una
ruota di legno che era stata precedentemente accesa nel grande falò.
Accompagnata dal grido dei ragazzi, la ruota infuocata disegnava un grande
arco, ora più grande ora più piccolo, a seconda di come era riuscito il lancio,
per perdersi poi contro i ghiaioni dai quali emergevano le rocce della vetta
dell’Harven.
Ad ogni lancio, guardando a quella
scintilla che sembrava schizzata lontano dal fuoco acceso sulla cima, la folla
sul Dàuda, faceva eco al coro dei
ragazzi, ripetendo «Beleno».
Erano sul monte di Dàuda dio della Notte,
e invocavano il dio del fuoco e della luce. E’ nella notte infatti che vive il
fuoco, di giorno muore contro il riflesso della luce, di giorno la sua luce è
fioca, di notte invece risplende.
E’ la notte la divinità della vita, è
nella notte che si forma il principio di vita d’ogni cosa...
Lanciate tutte le “cidules”, s’era spento
anche il fuoco sull’Harven e i ragazzi erano ridiscesi. Il centinaio di fuochi
invece in cerchio, sulla radura in vetta
al Dàuda, aveva continuato ad ardere per tutta la notte. Attorno al fuoco e
dentro al bosco, la gente aveva mangiato, aveva danzato, continuando ad
invocare la protezione del dio del fuoco e quella dell’eroe del proprio
villaggio.
Le Laurisce s’erano disposte in cerchio,
accovacciate, con le gambe incrociate e le spalle rivolte al palo, sì che ogni
fuoco ardeva davanti a loro ed ai simboli racchiusi in quel triangolo che
portavano sopra la testa, sormontato dal teschio. Avrebbero dovuto resistere
tutta la notte in quella posizione, senza mangiare e senza bere, fino all’alba.
Quando l’aurora aveva cominciato a
fessurare nel sangue il buio della notte, i Druidi avevano smesso d’alimentare
i fuochi lasciandoli spegnere lentamente
sì che, quando il sole era spuntato dietro il monte Amariana, e tutti s’erano
inchinati, secondo la legge, per non vederlo sorgere, non restavano che le
ultime braci.
S’erano alzate allora le Laurisce
assieme, come al cenno d’un regista, girandosi verso il palo centrale. Aiutate
dai rispettivi Druidi avevano tolto i nastri appesi al triangolo e li avevano
annodati uno dopo l’altro. Ce n’era uno per ogni nato nell’anno appena
trascorso, nel loro villaggio. Avevano fatto una corda più o meno lunga, a
seconda del numero dei nastri di cui disponevano, legandola ad un anello di
ferro che era già infilato nel palo.
Il Druido più anziano aveva allora
cominciato a chiamare ad uno ad uno il nome dei vari villaggi e delle varie
borgate. Al nome, la rispettiva Lauriscia, s’alzava, sollevando da terra il suo
nastro. Appariva evidente così, quanto
fosse più o meno vitale ogni singolo villaggio.
Ma la diversità di lunghezza dei nastri
permetteva alle Laurisce di disporsi in cerchio attorno al palo, formando un
intrico ordinato di triangoli. Quando tutte si furono alzate, ad un nuovo
segnale del Druido anziano, fecero forza assieme tirando il rispettivo nastro,
e il cerchio centrale si sollevò all’altezza dei nastri. Presero allora a
muoversi, girando verso destra, al ritmo scandito dal battere delle mani dei
druidi.
Con una mano dovevano mantenere in equilibrio
il triangolo sopra la testa, con l’altra tenere il nastro e muoversi a passo di
danza. Era la danza con la quale dovevano ingraziarsi Ogmios il dio del sole e
del giorno, dopo aver festeggiato Dàuda il dio della notte. E nella radura,
sulla cima del monte dedicato alla notte, quel groviglio in cerchio di nastri
come raggi di diversa lunghezza, di ragazze bianco vestite, di triangoli sacri,
voleva certamente in qualche modo alludere al ruotare del sole che si
muoveva su se stesso, come una ruota
(così credevano), per poter percorrere il cielo, segnando il ritmo delle ore.
Ed allo stesso tempo, ad essere
raffigurato sul monte, era il groviglio della terra, della natura, che si muove
e si agita ai primi fermenti di vita, alla luce del sole…
«Che te ne pare?» con questa domanda
l’architetto aveva interrotto bruscamente il suo racconto e la sua riflessione
sul groviglio delle Laurisce.
«Che gliene pareva? Come si poteva
rispondere? Ancora una volta non sapeva darsi una spiegazione. Trovava strano,
tanto per cominciare, che l’architetto avesse fatto quella ricostruzione così
particolareggiata, ambientandola in montagne che probabilmente non conosceva.
Erano invece per lui le montagne della
sua infanzia. Le montagne delle sue prime impressioni, di soddisfazione e
delusione assieme, che aveva poi tante volte provato raggiungendo una vetta.
Soddisfazione e delusione, i sentimenti contrastanti d’ogni cima conquistata,
anche nella vita. Nel desiderio d’arrivare si gonfia l’idea della felicità che
ci attende all’arrivo. La vetta invece è soltanto bella senza nessuna enfasi,
tanto meno bella che nell’immaginazione e nel desiderio, così poco definitiva, sempre circondata da altre più grandi, alle
quali non si può giungere, se non riprendendo a scendere. Anche la conoscenza
dei Celti era diventata per lui come una nuova vetta da conquistare.
Ciò che più l’aveva colpito era l’idea
della notte come elemento positivo, come valore. Il concetto di notte come
negazione del giorno, nel racconto dell’architetto, veniva rovesciato in quello
di notte come principio del giorno. Come per l’uomo la notte uterina è il
momento nel quale si forma interamente l’essere che vedrà la luce del giorno,
così nella notte della natura, si concepisce e sviluppa la realtà del giorno
dopo. Il giorno come una recita programmata nei sogni della notte, movimenti
provati nei brividi del buio, nei fremiti della paura, presenze solo sentite,
avvertite nello sfumare dei contorni ad anticipare la cruda particolarità delle
cose.
«Non so.» Riuscì a dire soltanto alla
fine, preso da queste sue riflessioni. In effetti non sapeva e non capiva.
L’architetto forse aveva potuto rivivere nel sogno concetti che aveva studiati come
appartenenti alla cultura dei Celti. Per potersi confrontare con lui, avrebbe
dovuto raccontare gli altri sogni che gli erano stati confidati. Ma come faceva
a fidarsi di quello strano
architetto-pastore, per farsi aiutare nel proposito di
riuscire a dipanare la matassa che gli si era venuta formando nella
mente attorno al nome dei Celti?...
Cap. 14
Vivere da Celta.
Li univa l’interesse comune per i Celti
ma li divideva il diverso modo di affrontare e di interpretare l’argomento. Era
come se stessero studiando qualcosa in comune, ma in due lingue diverse senza
possibilità di comunicare e di capirsi. Il motivo del contrasto era forse anche
più profondo, ai Celti in verità ambedue erano finiti per rivolgersi non con
l’obiettivo di migliorare le proprie conoscenze, ma di capire il proprio modo
di vivere, e in qualche modo di dare un senso alla propria vita..
Per l’architetto l’obiettivo esistenziale
era evidente, tant’è che si era lasciato determinare ad un radicale mutamento
del proprio modo di vivere. Per Luciano la scelta forse era stata meno
cosciente: dopotutto era finito nel mondo dei Celti per puro caso. Ma il caso
aveva anche voluto che vi fosse rimasto impigliato come una mosca nella tela
del ragno. E ad ogni movimento, finiva per restare coivolto sempre più. A
questo punto, avrebbe dovuto ammettere, il suo interesse andava ben oltre il
piano d’una semplice curiosità culturale. Anche per lui capire i Celti
diventava un modo per capirsi, per capire il suo rapporto con l’ambiente con la
storia dei luoghi nei quali era nato.
Ma se le cose stavano così, allora anche
il confronto tra loro due non poteva fermarsi a capire i Celti, avrebbero
dovuto cercare di capirsi a vicenda, di
approfondire la conoscenza reciproca. Per capirsi però è necessario
conoscersi, rivelarsi l’un l’altro, e invece tra loro neppure sull’argomento
dei Celti c’era stata sincerità: non s’erano raccontati tutto ciò che veramente
sapevano.
Stavano facendo ambedue la stessa
riflessione, arrivando alla medesima conclusione che se avessero voluto
continuare il loro rapporto, almeno sui Celti, avrebbero dovuto raccontarsi
tutto, senza segreti.
Luciano stava appunto per dirgli che
avrebbe dovuto raccontargli di tutti quei sogni, ma fu anticipato dall’architetto:
«Devo confidarti che sono un celta!» gli
disse, così, a bruciapelo.
Luciano lo guardò con esitazione e
preoccupazione, come se gli avesse svelato d’essere un lupo mannaro. Che
rivelazione era mai quella? Trovava finalmente conferma il dubbio (che in
effetti non era mai riuscito ad
allontanare del tutto) che l’architetto fosse uscito di senno...
«Cosa vuoi dire?» chiese infine, più per
la convinzione che un pazzo va sempre assecondato, che per un reale desiderio
di sapere che cosa avesse voluto intendere con quella uscita assolutamente a
sproposito.
«Lo so che mi prendi per un pazzo. Ma
vieni, che si fa buio. Se vuoi continuiamo a parlare a casa mia.»
Il sole in effetti era già tramontato da
molto. La notte avanzava come una nebbia che si infila mescolandosi all’ultima
luce del giorno. Era la nebbia che di solito entrava dentro, facendo rivivere
gli spiriti della paura. Ma qualcosa era cambiato in lui, da quella prima volta
quando era fuggito al calar della notte. Quella sera infatti la nebbia entrava
soffice e delicata come il sonno nella mente d’un bimbo, come la rassegnazione
nel cuore d’un vecchio. Senza paura questa volta, rassegnato come un vecchio e
sereno come un bambino, avrebbe subito l’arrivo della notte sull’altopiano del
S.Simeone in compagnia soltanto dell’architetto pazzo.
S’incamminò con lui, dietro al gregge,
determinato a subire il corso degli avvenimenti, lasciandosi trasportare nella
corrente, regolata da chi teneva la regia di quella strana sceneggiatura con i Celti nella quale era stato coinvolto
per recitare una parte che non aveva ancora capito quale potesse essere.
L’architetto
pareva avesse dimenticato anche l’argomento ed il motivo per cui Luciano aveva
accettato di essere suo ospite. Sembrava tutto preso dal problema di accudire
al gregge. Prima, sulla strada, per far in modo che le bestie procedessero
speditamente, richiamava quelle che s’attardavano ai bordi a brucare un ultimo
ciuffo d’erba, incitava quelle che rallentavano, le minacciava tutte facendo
vibrare nell’aria il bastone. Poi anche nel cortile davanti alla casa,
impegnato a farle entrare nei loro alloggiamenti. Si spingevano, si urtavano,
le une resistevano alle pressioni delle altre per passare davanti.
Qualcuna sembrava rinunciare a quella
gara a chi riusciva ad entrare per
prima, e tornava indietro, e lui doveva risospingerla dentro...
In città, pensava Luciano, mentre seguiva
quelle manovre, prestava attenzione a quei gesti e sentiva quei richiami, la
scena non ha un collegamento tra storia e
vita. Anche in una città antica come Roma, i monumenti sono sullo sfondo
della scena, come ruderi, avanzi di qualcosa, scenari di cartapesta. La scena
che vive è quella del traffico impazzito, della folla che si agita, degli
individui che corrono per infiniti percorsi diversi, che casualmente si sono
incrociati sull’angusto spazio di un marciapiede. Sul fondale, si alternano
palazzi recenti ad altri più o meno antichi, ma non c’è relazione tra il
fondale e la scena. A Parigi o a Londra, la scena sarebbe la stessa, pur con
uno scenario diverso, una scena nata in quel momento, per l’occasione, mutevole
al mutare dell’occasione. Basta che sia domenica, invece che un giorno feriale,
e la scena assume sviluppi completamente
diversi.
Lì invece, sull’altopiano, anche la scena
aveva dietro una storia ed una vita che si perdeva nella notte dei tempi. Il
gregge, il pastore, i gesti, e, in fondo, anche il fondale... tutto era come
tremila anni prima, e per tremila anni la scena si era ripetuta identica. Forse
anche i nomi erano rimasti gli stessi nella parlata locale, le «lòges» per i
ricoveri degli animali e il «tàmar» il cortile-recinto tipico delle malghe, fra
le casere dei pastori e gli alloggiamenti delle bestie.
Ma stava ripetendo riflessioni già fatte.
Lo continuava a colpire l’idea di qualcosa di immutabile nel tempo, sì da
apparire eterno...
Entrati in casa, l’architetto s’era messo
ad accendere il fuoco, mettendo sullo «spolèrt» il paiolo per la polenta.
Sistemata ogni cosa s’era infine seduto sull’impiantito a fianco, per poter
controllare quando l’acqua avesse preso a bollire.
«Non ne ho parlato mai con nessuno,»
prese infine a dire, «per non essere preso per pazzo, ma con te mi pare sia
diverso. Forse perchè t’interessi allo stesso argomento o forse perchè mi hai
ispirato istintivamente fiducia, ho pensato che te ne avrei potuto finalmente
parlare. Finalmente, perchè un segreto diventa opprimente se non lo si può
condividere con qualcuno.
L’altra volta, quando sei quasi scappato,
ti avevo cominciato a dire che sono un benandante, con il potere di risalire
nella storia attraverso i miei viaggi dell’anima fino ad incrociarmi con i
viaggi dell’anima dei Druidi, i
sacerdoti dei Celti. Forse era così all’inizio, ma oggi non lo è più...
Oggi io sento di
non essere più me stesso. Sento di essere diventato uno di loro, come se avessi
venduto la mia anima, a qualcuno che vive al mio posto.»
«Anch’io ho letto di tanti racconti
popolari nei quali c’è qualcuno che vende l’anima al Diavolo, ma quella di
vendere l’anima ai Celti penso sia una originalità assoluta..»
«Lo so che non è facile credere a ciò che
racconto, ma lascia comunque che io dica. Ho bisogno di parlare.»
Facendo il medico gli era capitato una
infinità di volte di incontrare persone che avevano bisogno di sfogarsi a
parlare. Non aveva difficoltà a lasciarlo continuare, assecondandolo.
Il bollore aveva cominciato a muovere
l’acqua nel paiolo, l’architetto s’era interrotto un momento, per versarvi la
scatola di farina gialla che aveva preparato. Anche la scatola era rudimentale
e sembrava uscita dal mondo dei Celti. Per fondo aveva un cerchio sottile di
legno, mentre i fianchi erano costituiti da una striscia anch’essa molto
sottile e di legno incurvata sino a prendere la forma rotonda del fondo.
La farina aveva formato una sorta di
montagnola gialla che galleggiava, circondata dalle bolle dell’acqua in
ebollizione. Sulla vetta tracciò con il mestolo di legno il segno d’una croce e
facendo poi pressione sul segno, divise la montagnola in quattro parti, e
quindi fece sciogliere le parti nell’acqua per far amalgamare in
modo uniforme l’impasto.
«Secondo la tradizione!» aveva commentato
Luciano.
«Secondo la tradizione,» aveva ripetuto
l’architetto e poi aveva ripreso a parlare del suo rapporto con i Celti,
ripetendo d’essere diventato uno di loro e d’aver preso a vivere la loro
spiritualità.
«Ma quale spiritualità se non sappiamo
quasi niente della loro cultura?»
«Io so, ciò che sa chi ha preso la mia
anima! Ma anche senza questa voce, ciò che ci è rimasto nella ricostruzione
della loro cultura e’ sufficiente a farci capire l’originalità della loro visione della vita.
Il concetto di trinità ad esempio come chiave per conoscere ogni cosa nella
natura e nel mondo. La contraddizione di due elementi opposti che viene
assorbita nella sintesi dei due elementi. Tesi antitesi sintesi, come Figlio,
Spirito e Dio, come notte luce e giorno, come mortale, immortale e uomo.
«Ma se nel Panteon dei Celti sono state
ricostruite almeno cento divinità?».
«I romani hanno letto la teologia dei
Celti con i loro schemi mentali, ma l’Essere è unico, anche se infinite sono le
sue manifestazioni e quindi le possibili raffigurazioni. L’Essere è uno, in
perfetta sintonia con la natura da lui generata, nella quale l’uomo può vedere
e sentire le sue manifestazioni, negli animali come nelle piante. Sentire Dio
nei luoghi e nella loro capacità di parlare attraverso l’atmosfera che sanno
suscitare, attraverso la loro storia, sentire Dio nelle piante e nelle loro
capacità di parlare attraverso la loro vita, non è trasformare in Dio i luoghi
e le piante. Solo la stupidità dei romani ha potuto arrivare a questo volgare
travisamento.
La maestosità del bosco di querce è il
luogo ove meglio l’uomo sente Dio, ma non e’ che Dio sia nel bosco di querce o addirittura sia il bosco di
querce. E’ una barbarie che i Celti non conoscono quella di pensare che Dio
possa essere in un luogo o addirittura in un cosa.»
«Ma e sul rapporto dell’uomo con Dio, che
è poi ciò che in verità conta per l’uomo, cosa hai potuto ricostruire .”
«Che Dio va cercato nell’uomo e si può
trovare soltanto migliorando il rapporto dell’uomo con se stesso, e con la
natura che lo circonda. Secondo la concezione dei Veda, se hai letto qualcosa
al riguardo, cui si ispira la religione dei Celti.»
«Ma trovo una conferma indiretta di
questa concezione nell’epistola di S. Paolo ai Galati,» aggiunse quasi in una
esclamazione, mentre rovesciava sul tagliere di legno la polenta ormai cotta.
«Cosa c’entra adesso S. Paolo con i
Celti?»
«Come saprai Galati è un altro nome
dato dai greci ai Kèltoi,» riprese a
dire, mentre con un filo tagliava a spicchi la polenta fumante, «e il nome è
rimasto ad un popolo dell’Asia Minore che si è sviluppato attorno ad una
immigrazione e ad un insediamento di Celti mercenari. Ciò che sorprende nella
lettera di Paolo è che i Galati, da poco tempo convertiti, stanno già mettendo
in discussione il cristianesimo, anticipando le osservazioni di Lutero.
Siamo salvati per la morte di Cristo o per le
opere? Per la morte di Cristo, evidentemente, risponde Paolo, perchè in caso
contrario, «Cristo sarebbe morto per niente.
Abramo ebbe fiducia in Dio e per questo, per questa fede e non per
quello che ha fatto, Dio lo considerò giusto».
Mi pare di sentirli invece i Druidi
Galati, diventati sacerdoti cristiani a dire: «Ma è una barbarie pensare che
l’uomo si salva attraverso un sacrificio umano, tanto più se è quello del
figlio di Dio.» L’uomo può salvarsi solo attraverso una personale conquista
della salvezza, una personale ricerca di identificazione con la divinità. Da
qui, la deduzione che l’uomo si salva per mezzo della legge e delle opere e non
per mezzo della fede. La legge, sulla base del percorso già fatto da tanti
uomini, codifica un percorso ideale dell’uomo verso Dio, e costituisce quindi
uno schema all’interno del quale, l’uomo può sviluppare il proprio percorso
individuale.»
«Ad essere sincero,» lo interruppe
Luciano, «mi pare che tu abbia ricostruito un tuo schema sui Celti, ed ora vuoi
ricondurre obbligatoriamente ogni cosa a questo schema. Ti sei innamorato dei
Celti ed hai messo al centro del mondo e della storia l’oggetto del tuo amore.»
«Non è un
problema di sentimenti. Io sono razionalmente convinto del ruolo chiave che i
Celti hanno avuto nella storia dell’umanità.
Sono convinto con Karl Jaspers della
teoria dell’”epoca asse”, cioè del fatto che nel VI° secolo a. C., ci sia stata
una svolta cruciale nella storia culturale dell’umanità. Quasi in contemporanea
in cinque parti della terra cinque illuminati, superando il concetto di un
rapporto collettivo ed istituzionale dell’uomo con la realtà ultima, pervengono
alla concezione d’un rapporto individuale e personale con la divinità. Come ricorda Toynbee, Pitagora, Isaia,
Zarathustra, Buddha e Confucio intuiscono la possibilità che il singolo essere
umano ha di giungere ad un rapporto personale e diretto con la realtà
spirituale ultima, che sta nel e dietro l’universo, in cui l’uomo si trova.
Forse i cinque non hanno avuto alcun
contatto, e fu casuale la contemporaneità dell’intuizione, o forse invece, come
io sostengo, i cinque vennero a contatto con lo stesso ambiente culturale,
quello dei Celti, che nei secoli precedenti, partendo dalle zone di origine
nell’India del nord e quindi da un ambito a cultura vedica, si erano
distribuiti su una fascia di territorio che occupava le pianure centrali
dell’Eurasia, dall’India fino alla Francia, passando per il Kazakistan
l’Ucraina e l’Ungheria, influenzando con la propria cultura le civiltà allora
sviluppate, da quella cinese a quella indiana, da quella persiana a quella
ebraica, per finire a quella greca.»
Avrebbe dovuto raccontargli, a commento
il sogno che aveva fatto Maria di Raveo su Pitagora, ma ritenne ancora di non
poter venire meno alla riservatezza alla quale si era impegnato con la sorella
del suo primario. Avevano da tempo finito di cenare, e continuavano a parlare
seduti sulle panche di legno attorno allo «spolèrt».
«Tu prendi alcuni brandelli di verità, si
limitò a commentare Luciano, e li metti assieme in una trama fantastica, il
risultato può anche risultare credibile. Ma è il procedimento che non è
accettabile.»
«Perchè?...» chiese l’altro, svuotando la
pipa ormai spenta, nel palmo della mano. ”Se anche il procedimento non fosse
accettabile,” aggiunse, “è il risultato ciò che conta, ed io attraverso i Celti
sono riuscito a scoprire come vivere l’esistenza nella poesia del silenzio
interiore, come vivere il contatto con il trascendente che entra nella nostra
vita, trasformando i valori del visibile compenetrandoli con l’invisibile…
Cap. 15
La fine dei Celti.
Luciano in tutta
questa storia del suo rapporto con Celti, direttamente, aveva avuto soltanto
quel breve sogno con Vinadia. Ma si era sempre più convinto che fosse stato
soltanto un sogno determinato dalla sugestione dei racconti delle tre Marie. A
lui ancora non era capitato di fare un vero «viaggio dell’anima». Sua madre non
gli aveva mai detto che era nato con la camicia. E se quella era la condizione
discriminante, doveva per forza limitarsi allo studio dei celti dai libri, e
attraverso il racconto degli altri. Non avrebbe potuto avere un contatto
diretto. Avrebbe voluto chiedere alle donne
che gli avevano raccontato i loro sogni sui Celti se avevano saputo per
caso d’essere nate con la camicia, ma non voleva correre il rischio d’essere
preso per pazzo. Solo l’architetto aveva ammesso quella condizione e collegato
ad essa il suo originale rapporto con i Celti.
D’altra parte se
nascere con la membrana amniotica era una condizione particolare ed
eccezionale, era impossibile che la condizione si fosse verificata in tante
persone, allo stesso tempo. La condizione per il viaggio dell’anima doveva
essere un’altra, una sorta di stato di grazia, che consentiva di superare se
stessi in una forma di estasi.
La fede può
muovere le montagne. Ma non tutti riescono a lasciarsi abbandonare alla fede e
tantomeno ci sarebbe riuscito uno scettico come lui. Era senz’altro la barriera
dello scetticismo ad impedirgli di rompere la membrana che gli avrebbe
consentito di entrare in relazione con i vivi senza corpo. E forse anche la
paura, l’incapacità di fidarsi e di lasciarsi trasportare nel viaggio...
Ne aveva paura,
certamente, ma soprattutto dopo gli ultimi discorsi con l’architetto, allo
stesso tempo lo desiderava. Ormai non viveva più che nell’idea che un giorno o
l’altro sarebbe capitato anche a lui d’incontrarsi veramente con i Celti.
S’addormentava con quel pensiero, si svegliava con il rammarico di non aver
sognato nulla, neppure sogni banali.
L’estate era
finita. Il sole d’ottobre appena tiepido, non riusciva a rompere il freddo
dell’altopiano del S.Simeone. Non era piacevole passeggiare nell’aria che
pungeva la pelle del viso. Aveva diradato di molto le sue visite all’architetto
e anche a Maria. Passava molto tempo chiuso nella casa riattata in paese,
cercando di scrivere qualcosa sull’esperienza che aveva vissuto, in quel breve
periodo. Era passato poco più di un anno dal primo racconto di Mede, e gli pareva
che tutto fosse ormai cambiato nella sua vita.
Il giorno dei
morti non l’aveva coinvolto.
Riti, canti e
preghiere gli erano parsi liturgie d’un’altra religione, da seguire con
rispetto, con attenzione culturale, ma senza alcun coinvolgimento sentimentale.
Alla sera, salendo in processione al cimitero, non aveva cantato come gli anni precedenti il «Benedictus». La
partecipazione alla processione fino al camposanto che gli era sempre parsa un
modo per far rivivere una tradizione, e quindi una forma di rispetto verso i
defunti, quella sera gli era sembrata una sceneggiata fuori luogo, e stonato
gli era parso anche il canto degli altri.
In cimitero il
mare di lumini che gli anni precedenti gli aveva suscitato un’atmosfera di forte partecipazione e di grande
emozione, lo lasciava indifferente, infastidito quasi dal quel caotico mishmash
di fiori e lumini.
Rientrato a casa, era stato incerto se
riempire d’acqua i due secchi sul secchiaio. L’aveva fatto ricostruire
esattamente come se lo ricordava da bambino. Aveva rimesso al suo posto la
grande lastra di pietra incavata, che suo padre aveva spostato nell’orto a fare
da portafiori, quando avevano acquistato il lavello in acciaio inox. Aveva
fatto rifare i due archi in ferro battuto che lo sormontavano, ed ai quali
erano appesi i «cjaldìers» con i quali, ragazzo, andava, bilanciandoli sulla
spalla con l'arconcello, a prendere l'acqua alla fontana del paese.
Alla fine s’era
deciso e li aveva riempiti, come da bambino aveva visto fare sua nonna, e dentro ad uno aveva lasciato il
grande mestolo di rame, con il quale si attingeva per bere.
«È per i
morti» diceva la nonna, «stanotte escono
tutti, tornano nelle loro case. Saranno stanchi, hanno bisogno di bere”. Già da
bambino, aveva osservato che il giorno dopo l’acqua era la stessa. Nessuno era
stato a bere. Ma non glielo aveva fatto notare alla nonna. Anche lei gli
continuava a far trovare i doni nella calza, alle sera della Befana, pur
sapendo che aveva già scoperto che in verità la Befana era lei.
Anche i grandi, era arrivato a pensare, hanno
bisogno di credere alle favole.
Aveva anche bevuto
con il «còp», con il mestolo, come da bambino. Chissà chi avrebbe bevuto dopo
di lui… E poi si era disteso sul divano. Avrebbe letto qualcosa, aspettando
l’arrivo del sonno.
Le campane
suonavano a distesa. Avrebbero suonato tutta la notte. «Perché i morti
riconoscendo il suono delle loro campane, sapessero dove dirigersi, non si
perdessero nel buio della notte,» gli diceva sua madre. «Per questo le campane
d’ogni paese della valle, hanno un suono diverso!»
Il suono scendeva
a folate, alternando suoni vicini e suoni lontani, e in quell’alternarsi
sembrava dovesse raccogliere dalla profondità della notte le anime dei morti,
per riportarle nelle strade e nelle case del loro paese. E nell’incantesimo
dell’alternarsi di quei rintocchi si ritrovò in Lugniàasch. Riconosceva
distintamente il luogo. Ci andava spesso. S’era anche chiesto quale potesse
essere l’etimologia d’un nome così strano, senza riuscire a darsi una risposta.
Ora invece finalmente sentiva di aver intuito la spiegazione: era il bosco di Lug il dio dei Celti.
C’era in mezzo il
grande blocco di pietra dal quale usciva una sorgente d’acqua freschissima.
L’impressione, dicevano tutti, era che l’acqua sgorgasse dal sasso. E intorno
c’erano i grandi alberi. Enormi nel sogno, come nella realtà. Ma ora sono
castagni, quelli che vedeva erano invece querce, dalle grandi chiome, con i
rami che si allargavano ad intrecciarsi, formando una cupola che metteva il
sasso e la sorgente al centro d’una sorta di
tempio fatto di tronchi, di rami e di fronde.
Anche adesso, il
gruppo dei castagni attorno all’acqua, confina con il bosco di faggi, e da quel
bosco, come la nebbia quando d’autunno sale tra gli alberi, salivano e venivano
verso il sasso le ombre. Si chinavano a bere alla sorgente e diventavano
persone vestite, come nel racconto di Maria al convento, ma con il volto
coperto da una maschera.
Lo sapeva, l’aveva
studiato, l’aveva sentito nella leggenda di Bordana, riconosceva la festa
dell’inizio dell’inverno, della fase oscura dell’anno, la festa di Samhain, la
festa del racconto della perpetua di Bordano, sul monte S.Simeone. La
festa di Beltine il primo maggio aveva
aperto la fase chiara. C’era poi la festa di Imbolc all’arrivo della primavera
e quella di Lughnasadh, del declino
dell’estate, al primo di agosto. Ma la festa nella quale si sentiva coinvolto
nel sogno, era quella più importante, era la festa della notte nella quale si
rompe il velo che separa il visibile dall’invisibile, nella quale i vivi
invisibili possono tornare a parlare con i vivi visibili…così come amava fare
quella stessa notte, che per loro era la notte di Halloween il «piccolo popolo»
degli esseri non umani……
Questo aveva
letto, ma ora gli si presentava l’occasione, come ai romani del paese di
Bordano, di partecipare di vivere l’esperienza di quella festa ed era confuso
ed emozionato.
Nella folla
vestita di bianco, si perdevano i contorni dei singoli individui. La folla
sembrava un’unica nuvola dalla quale emergevano le maschere di legno scuro. I
volti di legno dalle orribili espressioni, danzavano come marionette mosse da
mani o da fili invisibili. Prima dolcemente, al ritmo d’una musica dalla
cadenza lenta, con le note che si staccavano
distanziate, come le gocce all’inizio del temporale. Poi in un movimento
sempre più sfrenato, accompagnato da uno scrosciare di note, che rendeva più
intensa nella voluttà del ritmo, la voluttà del movimento. Una danza sotto la
pioggia, con i fili d’acqua che filtrano nella pelle del viso, con l’acqua che
scende sui capelli, che impregna i vestiti, che penetra ed accarezza con un brivido di freddo tutto il corpo,
facendolo fremere e vibrare a quella carezza. Un movimento che nasce dalla
pioggia, che ritma sul corpo la stessa cadenza che imprime alle cose, alle
foglie degli alberi, ai fili d’erba, all’inerzia dei sassi.
Non pioveva. Ma
l’immagine della danza sotto la pioggia gli veniva in mente a rendere l’idea
d’una musica che usciva dal bosco e univa in un unico fremito il bosco di
querce, la nebbia della folla biancovestita e le maschere di legno che
s’agitavano come impazzite, galleggiando sulla schiuma bianca resa
vibrante dal penetrare del suono.
Era una musica
strana, mai sentita prima. Contro il rullare sincopato di tamburi dal suono
cupo e secco, si sviluppava l’arpeggio struggente dei violini (o erano arpe?)
lacerato ad intervalli dal suono intenso degli strumenti a fiato. Non si vedeva
l’orchestra, nascosta nel fitto del bosco, e l’impressione era veramente che il suono uscisse dalle singole
piante, che gli alberi fossero gli orchestrali.
Era la danza degli
invisibili, raffigurati in quelle maschere, mentre il visibile s’era sciolto
nell’indistinto del bianco dei vestiti. Sapevano che sarebbe stata l’ultima
danza. Sarebbero arrivati i romani ad interromperla. Non capiva come, non
capiva perché, ma anche lui sapeva
dell’ineluttabile arrivo dei romani, come al vedere le nubi si sa che ci sarà
la grandine.
«Perchè date per
scontato di arrendervi, di subire?» avrebbe voluto gridare, ma non sapeva a chi
avrebbe potuto gridarlo. Nessuno infatti gli aveva detto niente. La notizia che
i romani sarebbero arrivati era nell’aria, come era nell’aria il fatto che non
si sarebbero opposti.
«Ma se i romani vi
hanno sempre temuto come un popolo di feroci guerrieri, se vi siete venduti
come mercenari in ogni parte d’Europa? Come è possibile che pensiate di
rinunciare alla vostra storia ed alle vostre tradizioni, senza neppure tentare
una difesa?» gli pareva di continuare a chiedere senza sapere a chi. Si sentiva
capace di porsi a capo della rivolta, li avrebbe guidati lui contro i romani.
«Non si possono accettare supinamente i soprusi,» continuava a ripetere.
Finalmente uscì
dalla folla danzante e gli venne incontro un uomo, che avvicinandosi si tolse
la maschera. Era un vecchio, con il volto segnato da profonde rughe come il
tronco delle querce, ma gli occhi erano ancora vivaci come quelli d’un ragazzo.
Aveva i lunghi capelli bianchi raccolti e sollevati in una sorta di criniera che
dalla fronte gli scendeva fino dietro le spalle. Due baffi enormi parevano
staccarsi dal naso come due trecce che gli arrivavano al petto. Era certamente
un’autorità, forse il capo dei Druidi.
«Anche l’uomo è
una triade,» gli disse come se avesse sentito il suo desiderio di combattere e
volesse rispondergli, «la forza del corpo, la spiritualità del pensiero, la
sintesi d’un corpo che pensa. Ma il corpo non può essere usato a difesa del
pensiero.»
Non capiva.
Avrebbe voluto dirgli che tutta la storia dell’umanità è storia di guerre in
nome di idee.
«Non per noi,»
continuò come se avesse inteso l’osservazione, «per noi al corpo si risponde
col corpo, al pensiero con il pensiero».
«Ma se un altro
usa la forza, per difendere il suo pensiero?» sbottò con foga Luciano.
«Il pensiero
risponde con la desistenza.» Replicò il vecchio tranquillo. «Se l’idea è stata
sconfitta con la forza, alla fine riemerge, alla fine, contro la forza, vince
sempre l’idea.»
In quello, dal
bosco di querce uscì un grido. «In nome di Cristo!» ed a quel grido uscì
un’orda di soldati romani, con le spade in pugno. Si gettarono urlando sulla
folla inerme, e il bianco si tinse di rosso. Sempre più rosso. Fin che tutto fu
rosso, nel bosco di querce.
Luciano era fuggito, trascinandosi dietro il vecchio
che non voleva seguirlo e gli opponeva una resistenza decisa. «Devo seguire il
destino degli altri,» continuava a ripetere. “Non ha nessun senso” gli ripeteva
Luciano. Sentiva che aveva il dovere di
salvarlo. Lo portò infatti di forza a nascondersi in una grotta scavata dal
torrente che fiancheggia la radura di Lugniàsch. Se la ricordava bene, era
chiamata la grotta del Pagàn, ci andava da bambino con gli amici, a giocare
alla guerra.
Sull’immagine di
bambini che giocavano ad usare le armi si sovrapponeva ora la sua immagine di
anziano che teneva per mano quel vecchio con quella strana acconciatura e
quello strano vestito. E il vecchio piangeva...
«Perché i romani,
in nome di Cristo?» gli chiese.
«Da dove vieni?
Com’è che non sai?» domandò l’altro tra le lacrime. Poi, senza attendere
risposta, quasi a cercare nel racconto sfogo alla sua pena, prese a raccontare.
Quando c’era stata
l’invasione dei romani il loro popolo aveva accettato di convivere con i
conquistatori. C’era spazio per tutti su quelle montagne! Ma avevano voluto
mantenere la loro identità, vivendo separati dai romani. Si erano sviluppati
quindi dei villaggi abitati soltanto da romani, con accanto villaggi abitati
solo da Carni. Ma non c’era alcun problema di convivenza: si accettavano a
vicenda, nella loro diversità.
Finché i romani
non si convertirono al cristianesimo. I cristiani infatti con l’idea di essere
i depositari dell’unica verità, non potevano rinunciare al tentativo di imporre
la loro verità agli altri. Prima del nostro, era toccato già ad altri villaggi,
gli uomini uccisi, le donne violentate, i bambini presi come schiavi.
«Sapevamo che
sarebbe finita, come hai visto anche tu.
Se la storia potesse raccontare l’assurda
verità d’un popolo che credeva in un Dio che s’esprime nell’amore verso
il mondo, annientato in nome del Dio dell’amore per gli uomini...», dicendo
queste parole, come se avesse concluso il suo compito, s’era accasciato
con un profondo respiro.
Nello stesso
respiro Luciano s’era svegliato, pensando a sua madre che gli raccomandava
sempre, ma inutilmente, di non andare nella
grotta del Pagàn, perché era
stregata. Si raccontava infatti che, in passato, vi erano stati trovati dei resti
umani e delle spille d’oro.
“Non è andata
esattamente così, non si può travisare la storia,” mormorava tra sé, da
sveglio, sorprendendosi ancora una volta per come gli capitava sempre più
spesso di confondere i sogni con la realtà, l’interpretazione fantastica con la
storia, “i falsi della storia scritta dai vincitori non possono giustificare i
falsi opposti, quelli della storia scritta dai vinti. Non è questa la storia
del cristianesimo…”
Nella notte continuavano a disperdersi i rintocchi delle
campane dei morti. Era il respiro del tempo, della storia, un rintocco più
forte inspirato ed uno più tenue espirato, uno più forte che cadeva sul paese,
ed uno più leggero che sfumava contro le montagne. Un rintocco andava
lontano nel vuoto del tempo, raccoglieva
i pensieri delle persone, ormai sepolte dalla storia, e un altro tocco, più
forte, ributtava quei pensieri contro le povere case del piccolo paese.
Di tocco, in
rintocco il suono era risalito fin nella notte dei tempi ed aveva riportato le
voci dei primi uomini, che avevano segnato con la loro fatica i sentieri di
quella montagna.
Da qualche parte
si sarebbero potuti senz’altro trovare anche i segni della loro presenza. Come
l’architetto aveva trovato una tomba, altre se ne potevano trovare. Come sul
costone del Sorantri era venuto alla luce il villaggio di Raveo, e sul
S.Simeone, l’architetto aveva trovato la tomba, si sarebbero potuti
trovare anche i resti di altri villaggi,
di altre tombe. Si sarebbe potuto allestire un
museo. Ma si sarebbe comunque trattato d’una raccolta di cose morte, di resti senza voce.
Interessanti soltanto per un progetto d’attrazione turistica.
Le campane invece
portavano voci e parole che si scioglievano di nuovo nell’aria e di nuovo
vivevano. Non era soltanto il ricordo, ma l’orgoglio d’un popolo che si
sforzava di vincere la storia, attraverso il percorso sofferto dei viaggi
dell’anima, per riproporsi e vivere ancora nella voce degli uomini d’oggi. Un
popolo che voleva rivivere in tutte le contraddizioni che fanno la verità, sia
della storia degli individui che dei popoli.
Un popolo che
aveva subito la forza del più forte, ma che non rinunciava a credere d’essere
il più grande, convinto che la grandezza dell’uomo è nella forza dell’animo e
del pensiero, nella capacità di essere se stessi in un rapporto armonico con la
natura, nel saper godere dell’attimo di visibilità nella storia, per
conquistare la serenità dell’eternità invisibile.
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