giovedì 13 aprile 2017
sabato 8 aprile 2017
Io, figlio di Dio.
(pubblicato originariamente con lo pseudonimo di Diver Dalce)
Igino Piutti
Io, figlio di
Dio.
Il Vangelo di un laico.
INTRODUZIONE
Perché
la religione?
Per vivere non serve la religione! L’uomo del
duemila sta trovando tutte le risposte possibili ai perché della vita, ai
perché dei fenomeni che lo circondano, ai perché dei sentimenti che si agitano
dentro di lui. Non c’è più alcun motivo, per cui ci si debba dare delle
risposte, risalendo al mistero d’una
esistenza esterna all’uomo, che consentirebbe di spiegare ciò che nell’uomo è
inspiegabile.
Non c’è più bisogno di pensare nè a Vulcano
che scaglia i fulmini, nè ad Eros che trafigge con le frecce. Come i campi
elettrici dell’atmosfera spiegano i fulmini, così possono essere spiegati in
termini di attrazione o repulsione tra neuroni, nell’ambito di particolari
campi elettrici attivi nella mente
dell’uomo, l’amore e l’odio tra le persone.
In effetti in alcuni momenti di difficoltà,
farebbe comodo poter pensare a qualcuno che, se pregato, può intervenire in
aiuto. Per comodità allora si può anche
lasciare che il sentimento si aggrappi a questa finzione, si può cedere al mito
ed alla poesia. La ragione dell’uomo del
duemila, sa però che si tratta soltanto
d’una finzione.
L’idea del sole che ruota attorno alla terra
dà luogo alla poesia del giorno, del suo alternarsi con la notte, del suo
disperdersi nel tramonto, per riemergere nei bagliori dell’aurora. Perché non
viverla, questa poesia, pur sapendo che la verità è quella della terra, che
gira attorno al sole?
Si potrebbe concludere che, per vivere, la
religione può essere considerata al massimo una soluzione di comodo, ma, per
non morire, la religione e’ indispensabile.
Ed al desiderio di non morire, anche l’uomo
del duemila, non ha saputo trovare risposte. Tutte le spiegazioni
si fermano di fronte alla morte. Da una catena originaria di dna, si è
sviluppato un corpo con meccanismi d’una complessità e d’una perfezione
assoluta. Ma ad un tratto, il tutto si inceppa, per autodistruggersi in un
putridume, che deve essere nascosto nel profondo della terra, o arso con il
fuoco.
Che senso ha tutto questo?
Se questo è l’uomo, se questo è il destino
d’ognuno di noi, che senso ha tuttavia costruire la finzione d’un destino
diverso? Che senso ha, soprattutto, sacrificare quello che ci è dato a vivere,
rincorrendo la fantasia d’una vita diversa, che si aprirebbe per noi dopo la
morte e che deve essere conquistata rinunciando ai piaceri, seppure momentanei,
di questa vita?
Nessuno! Evidentemente! Ma prima di metterla
da parte, questa idea di un’altra vita,
forse è il caso di verificare se debba essere ricondotta soltanto a
frutto d’immaginazione poetica, a pura fantasia. o se, invece, quantomeno possa
essere una ipotesi che vale la pena di tenere in considerazione.
La prima difficoltà ad immaginare una vita
eterna per l’uomo, nasce dal fatto che, per riconoscere questa possibilità, è
necessario ammettere che ci sia qualcosa
nell’uomo, capace di durare in eterno. Devo poter pensare ad un uomo fatto di anima e corpo, d’una realtà
materiale e d’una spirituale. Solo così è possibile ipotizzare che, al venire
meno del corpo, possa sopravvivere lo spirito.
Cartesio aveva immaginato che nell’uomo
coesistessero una res extensa, il corpo materiale, ed una res cogitans, la
mente, immateriale. Diventava quindi conseguente, pensare che la parte
immateriale, potesse avere una vita oltre la morte della materia.
Ma l’uomo del duemila sa che la mente non è
immateriale. Anche i sentimenti, che sembrerebbero riconducibili ad un piano
diverso da quello fisico, in effetti non sono che il risultato di processi
chimico-fisici, che interessano l’apparato neurologico del suo corpo.
Di scoperta in scoperta, l’uomo è andato
togliendo dal suo corpo ogni alone di mistero. S’è sbriciolato il fascino d’uno spirito, costretto a convivere in un
corpo che gli va stretto, e che rompe le catene, nell’anelito dell’eternità. A
forza di scavare, la scienza ha riportato alla luce un corpo nel quale tutto è
spiegato, o spiegabile, e, nel quale, soprattutto, tutto è riconducibile
all’interno della fisicità e della materia.
Una
conoscenza che si risolve nella scienza, senza aver bisogno della filosofia, e
tantomeno della metafisica.
Ma perché proprio da questo percorso
all’infinito della scienza, che scopre ogni giorno una verità più profonda, che
supera quella precedente, non dovrebbe essere possibile riportarsi all’idea
dell’infinito? Avendo scoperto che l’esistenza dell’uomo si sviluppa da una
catena di dna, perché, ad esempio, si dovrebbe escludere che il risultato
dell’esistenza sia riconducibile ad un’altra nuova catena di dna? Una catena
immateriale, virtuale, con le informazioni che esistono, senza la necessità di
alcun supporto. Un software, un programma,
costruito attraverso infiniti input, raccolti attraverso il corpo, ma
capace di ripetersi all’infinito, pur avendo perso, con la morte del corpo, le
linee di programma sulle quali è stato costruito.
Da una catena invisibile, infinitesimale di
dna, si è sviluppato il mio corpo. Quella catena aveva tutte le informazioni
necessarie per costruire ogni elemento del mio essere, e su quelle informazioni mi sono sviluppato. Il mio
essere si è poi confrontato con l’ambiente e con la realtà storica nella quale
è stato collocato ad esistere. Le informazioni che gli sono venute dall’esterno,
hanno modificato le informazioni originarie. Alla fine della mia esperienza
umana, sono quindi riconducibile ad una catena d’informazioni diverse, da
quelle iniziali. In questo nuovo sistema d’informazioni, c’è tutto il mio
essere, maturato nell’esperienza del mondo.
Nel momento della mia morte fisica, la mia
esistenza, racchiusa in questo nuovo codice d’informazioni, si riflette in una
dimensione metafisica, riproducendosi in
questa, e continuando ad esistere, pur in mancanza della sorgente iniziale
delle informazioni.
Come se un’immagine, riflettendosi in uno specchio, nella
dimensione riflessa, potesse continuare a vivere, di vita propria,
indipendentemente dall’oggetto che l’ha generata. Così, potrei immaginare che, con il mio ultimo respiro, il tutto di me,
rinchiuso nel codice del mio esistere, si rifletta nello specchio
dell’infinito, per continuare a vivere nella dimensione dell’eternità, pur
essendo venuta meno la sorgente del mio
corpo, che, sviluppato il codice, si
autodistrugge, nella dimensione del finito.
La scienza non deve dimostrarmi che è
possibile. Alla scienza io chiedo soltanto di dirmi che non si può escludere,
che sul piano logico, può essere
ammesso. Se così fosse, vorrei chiedere allora alla filosofia e soprattutto
alla religione, di aiutarmi a immaginare ed a ricostruire questa prospettiva.
Ricostruire l’idea d’un superuomo che si riconosce tale, non scoprendo che Dio è morto, ma, al contrario scoprendosi
destinato ad una vita, nella stessa esistenza eterna di Dio.
Assumendo che la scienza possa ammettere, sul
piano teorico, la possibilità d’una vita oltre il corpo, vorrei provare a
ripercorrere il Vangelo, per vedere come mi viene presentata questa
prospettiva, appunto, sul piano della religione.
Perché
il Vangelo?
Dal momento che sono nato e vissuto in un
ambiente cattolico, il Vangelo è il libro nel quale dovrei trovare le risposte
alle domande che riguardano il senso della mia vita. Se fossi nato in Cina o in India o in Arabia,
prenderei in mano altri libri per cercare le stesse risposte.
Con questo, desidero chiarire già in premessa che non ritengo il
Vangelo l’unico libro nel quale si possano trovare le risposte che cerco, ma
quello nel quale dovrei trovarle più
facilmente. Dovrebbe essere il libro nel quale il percorso verso la verità, e’
ricostruito in termini più vicini alla mia mentalità, alla mia cultura di
occidentale.
Almeno in questo momento, il Vangelo non è
l’unico libro, anche se non è da escludere che lo possa diventare. Come in questi due millenni è diventato anche
il libro di tanti popoli dell’Africa e dell’America, in seguito potrebbe
diventare il libro di tutti i popoli della terra.
Per ora, prendo atto che ci sono altre strade
per le quali altri popoli trovano delle risposte ai loro quesiti esistenziali,
strade indicate da Buddha o da Maometto e non da Cristo. Prendo atto anche che
molti occidentali, non appagati dalle soluzioni
del Vangelo, sono riusciti a trovare risposte, che hanno considerato più
esaurienti, nei libri degli altri popoli, e che ci sono tanti nuovi
predicatori, nelle cui parole molta gente ha trovato, o creduto di trovare, le
risposte cercate.
Personalmente ritengo non sia il caso di
andare alla ricerca di soluzioni diverse, prima di aver cercato nel libro, nel
quale e’ più logico si trovi la risposta più adatta al mio modo di ragionare e
di sentire.
Io voglio partire dall’assunto che il Vangelo
è il libro della fede nella quale sono
vissuto, che sento mio, come mio sento l’ambiente nel quale sono nato e
cresciuto. Non mi pongo, almeno per il momento, l’obiettivo di verificare se
sia veramente il Vangelo il libro che meglio risponde alle domande, che vengono
dal profondo dell’esistenza dell’uomo in generale. Do per acquisito che lo sia,
e per questo mi ripropongo di
rivisitarlo, alla ricerca delle chiavi di risposta alle mie domande.
Perché’ il
Vangelo di Giovanni?
Avvicinandosi al Vangelo, sorge subito il
problema di quale versione scegliere. Ci sono le quattro versioni ammesse dalla
Chiesa, e tante altre cosiddette apocrife. Versioni spesso tra loro
contrastanti. Per questo la prima considerazione alla quale arriva, chi si
accinge a leggere il Vangelo, è che, in effetti, il Vangelo non esiste. Il
problema delle diverse versioni, ha fatto sorgere in questi quasi duemila anni
di storia dei Vangeli, una letteratura al riguardo.
Molti studiosi sono arrivati alla conclusione
che non esistendo un’unica storia di Cristo, debba essere negata la stessa
esistenza storica del Cristo. La storia
del Cristo sarebbe stata quindi una sorta di favola nata nelle prime comunità
dei cristiani, trascritta poi in vari modi da vari evangelisti. Ma anche su
questi problemi non vuol entrare, almeno per il momento, la mia riflessione.
Do per acquisito che ci siano quattro versioni
autentiche, quelle ammesse dalla Chiesa, e quindi chiamate canoniche. Di queste
versioni tre sono simili e per questo sono chiamate sinottiche, la quarta, si differenzia, perché racconta fatti che le
altre non raccontano, tralasciando invece alcuni fatti riportati in tutte e tre
le versioni sinottiche. Anche il
problema delle diversità, spesso anche profonde, delle versioni canoniche, ha
suscitato un’infinita letteratura, ma, almeno per il momento non voglio pormi
neppure questo problema. Per non essere costretto a fare confronti tra le
versioni, scelgo come libro di testo una delle versioni, la quarta, quella
appunto di Giovanni.
E’ la testimonianza del discepolo prediletto
di Cristo, quello che nell’ultima cena ha posato la testa sulla sua spalla,
come lui stesso vuole sottolineare, chiudendo il suo racconto. Ma ciò che più
importa ai fini della mia riflessione, è che si tratta della testimonianza,
meno preoccupata di riportare i fatti, e più attenta invece a riportare quel
che Cristo ha detto, sulla sua essenza e sulla sua missione.
Volendo quindi, non tanto ricostruire la
storia di Cristo, quanto ricostruire e dare un significato alla mia storia,
attraverso le parole di Cristo, e volendo scegliere, (anche per non essere
costretto a fare il confronto tra le versioni), la scelta non poteva cadere che
sul Vangelo di Giovanni.
Perché’ io?
Perché mi sono messo su questa non facile
strada di una libera riflessione sul Vangelo? Non perché più preparato d’altri,
o più competente o più sensibile.
Io, come ognuno di noi, da uomo comune e non
da esperto.
Perché tutti, a mio avviso, dovrebbero porsi
su questa strada, sulla strada della ricerca del senso della propria vita, per
poter poi fare le cose che hanno senso e rinunciare a quelle che non ne hanno.
Io, forse perché ho un percorso culturale e di
vita più originale di altri. Un percorso che mi fa sentire più pregnante il
bisogno di dare un senso alla vita. Io, comunque, come tanti altri che si
pongono il problema di dare un senso al vuoto della propria esistenza. Io che,
come tanti altri, mi chiedo se il vuoto che sento, sia un vuoto che riguarda la
mia esistenza individuale, o se invece riguarda l’esistenza in se’: il vuoto
dell’esistenza dell’uomo, capace di pensare l’infinito e di lasciarsi
travolgere dall’incombere del finito e del quotidiano.
In effetti, quale senso può avere una vita
che, per quanto venga vissuta intensamente, resta, in ogni modo, un breve
respiro di tempo, prima della morte eterna e del nulla?
O c’è invece una vita eterna? Appunto! Questo
e’ il problema.
Quando mi ponevo queste domande da ragazzo, mi
dicevano che avrei dovuto trovare la risposta nel mistero della fede, nel
mistero della incarnazione, nel mistero della resurrezione.
«Ma come si può trovare la risposta in un
mistero?»
«Cercala nella preghiera!»
«Ma come si può pregare senza credere?»
«Prega e crederai!»
Non
riuscivo a capire come avrei potuto pregare, senza credere. Non riuscivo a
capire, come si possa concepire che Dio sia diventato uomo, non per parlare agli uomini, in modo
che questi lo possano comprendere, ma
per portare loro delle risposte
enigmatiche e dei misteri.
Non riuscivo a capire allora e non riesco a
capire ancora!...
Per questo voglio riflettere, non per
ricercare verità assolute, ma solo appunti e spunti, interpretazioni possibili,
e quindi credibili, che mi consentano di aprire la strada del credere. Vorrei
poter credere per sperare, e non sperare per credere, vorrei credere per
pregare e non pregare per credere.
E la Chiesa?
Da cristiano, non posso non chiedermi cosa può
pensare la Chiesa della mia riflessione sul Vangelo.
La Chiesa, infatti, s’é riservata l’esclusiva
di lettura della storia di Cristo. Lutero, che ha affermato il principio della
libertà per ogni credente di rivolgersi direttamente al Vangelo, per ascoltare
la parola di Dio e finito scomunicato. Giordano Bruno invece è finito sul rogo,
pur tentando di giustificarsi dicendo che la sua speculazione voleva restare
nell’ambito della ricerca filosofica. Ma anche questo argomento, almeno per il
momento, non rientra nella mia riflessione. Do per acquisito che sia legittimo
per la Chiesa evitare che ognuno, senza
la dovuta preparazione, si metta a dare le interpretazioni più strampalate del
Vangelo.
La mia non vuole essere un’interpretazione, ma
una riflessione personale, fuori e prima della Chiesa. Per questo, per quanto
strampalata, resta solo mia e non vuole entrare in conflitto con alcuno e
tantomeno con la Chiesa. La mia non vuol essere una interpretazione nè
teologica nè filosofica per le quali non sono preparato, ma una riflessione
pre-teologica e pre-filosofica: la riflessione dell’uomo della strada. C’è la
città, dentro le cui mura, di queste cose discutono i saggi e gli esperti. Io
ne parlo, fuori dalle mura.
Dentro le mura è necessario seguire le regole,
gli schemi. La città si è andata sedimentando, nel corso dei secoli, ha le sue
vie, le sue piazze, le sue chiese, ha una conformazione urbanistica, alla quale
ci si deve adattare. Fuori le mura c’è la campagna, ci sono i sentieri che si
perdono nel bosco. E’ possibile persino andare fuori dei sentieri, liberamente,
per i campi e per i prati. L’importante è non perdere di vista la città e
cercare comunque di avvicinarvisi.
Io non porto
acqua! I miei secchi sono forati, non riesco a portare neppure l’acqua
necessaria per me, tantomeno posso portare l’acqua ad altri. Tuttavia,
vedendomi girare con i secchi che perdono acqua, ad altri può venire sete, in
altri può sorgere il desiderio di bere...
Se qualcuno seguendo il filo dei miei
pensieri, vi ritrova lo stimolo per un ulteriore approfondimento, non può farlo
con me, ma deve entrare nel città dove si muovono i saggi, e gli unti dal
Signore, e con loro potrà raggiungere, mi auguro, la verità.
Per dirla con Giovanni Battista, io potrei
essere considerato al massimo uno che grida nel deserto: «Guardate che mi pare
di aver intravisto una strada!».
Ma, ad uno che grida nel deserto, si possono
perdonare anche le fantasticherie! Lo si può capire e perdonare, anche se ha
preso abbagli ed ha visto miraggi!
Cap. 1
La novità’ del
Vangelo.
Marco
inizia il suo Vangelo parlando di Giovanni Battista che predica la venuta di
Cristo. Luca risale alla nascita di Giovanni, ricordando come Zaccaria ed
Elisabetta, ormai vecchi, avessero avuto, da un angelo, l'annuncio che
avrebbero avuto un figlio, al quale avrebbero imposto il nome di Giovanni.
Matteo risale ancora, ed inizia il suo
racconto con la genealogia, per dimostrare che Cristo è discendente del
re Davide.
Giovanni, già dall'apertura, vuole subito
mettere in chiaro come il suo Vangelo sarà diverso da quello degli altri tre
evangelisti. La storia di Cristo è importante in quanto è un momento chiave
nella storia del mondo, dell'umanità: il momento nel quale il figlio unigenito
di Dio s’é incarnato come uomo, per abitare in mezzo agli uomini. Giovanni apre
appunto anticipando che, nella novità del figlio di Dio che si è
fatto uomo, si ritrova il senso profondo di tutti gli avvenimenti dei
quali e' stato testimone, e di cui vuol dare testimonianza scritta nel suo
racconto.
A Giovanni non interessano gli antefatti del
racconto, intuisce la nostra perplessità all’idea d’una vicenda che riguarda un
uomo-figlio di Dio e cerca di fornirci subito
la chiave di lettura, attraverso la quale va interpretato il suo
racconto.
E’ una chiave di lettura che può sembrare
non facile da afferrare ed utilizzare,
come, d’altra parte, non è facile da accettare l’idea che ci accingiamo a
leggere, non il racconto della vita d’un uomo, ma il racconto della vita del
figlio di Dio. E’ una chiave però’
indispensabile per capire il racconto.
Se non troviamo il modo di utilizzare la
chiave, per aprire la porta che ci deve introdurre al racconto, è inutile che
ci sforziamo di immaginare e di voler capire che cosa c’è oltre la porta. Solo
se sapremo introdurre la chiave nel modo
giusto e riusciremo ad aprire la porta,
da questa entrerà la luce che ci consentirà di dare un senso ad ogni elemento
del racconto, come dalla porta aperta, prende luce una stanza, e diventano
chiaramente individuabili gli oggetti che vi si trovano.
Cercando di capire il senso, e come quindi
vada usata la chiave che ci propone Giovanni, abbiamo subito una prima
risposta di fondo, sul perché Giovanni
ha scritto, e perché è importante che riusciamo a leggere ed a capire.
Non è un romanzo quello che abbiamo davanti! E
non abbiamo aperto il libro come si apre
un romanzo, per vedere come l'autore abbia saputo immaginare dei personaggi, e
costruire una trama, attraverso la quale farci entrare nel mondo della sua
immaginazione, trasmetterci la sua visione della realtà, farci partecipare allo
sviluppo delle sue riflessioni.
Apriamo questo libro, non per una curiosità
letteraria, ma perché, ci è stato detto, vi possiamo trovare la risposta ai
nostri più profondi perché: al perché della nostra esistenza, al perché della
morte, al perché d'un' esistenza che finisce nella morte.
Apriamo
questo libro perché ci è stato suggerito vi possiamo trovare parole di vita
eterna, anzi, le parole che danno la vita eterna.
Apriamo
questo libro con l'ansia di chi s'è reso conto che non ha senso continuare a
vivere senza capire, continuare ad andare, senza sapere dove porta la strada,
senza chiedersi se si sta andando nella direzione giusta. Ancor meno senso ha continuare ad
andare senza sapere perché camminiamo, quale sia il fine del nostro andare, del nostro correre
e rincorrere!
E’ evidente infatti che solo trovando la
risposta al perché della vita dell’uomo, riusciremo a trovare la risposta su
quale debba essere il modo più giusto di vivere. Una risposta che non ci
interessa da un punto di vista accademico e letterario, ma da un punto di vista
esistenziale, che ci riguarda direttamente: la risposta che cerco, non riguarda
il senso della vita in generale, ma il senso
della mia vita, di quel che faccio e sono, e quindi il senso che posso
dare a quel che faccio e sono.
Solo infatti, dalla spiegazione sul perché,
può venirci chiara la spiegazione sul
come vivere, su che cosa abbia senso, e su che cosa, invece, non ne abbia
affatto.
Rispetto a queste domande con le quali apriamo
il Vangelo, ci interessa poco il miracolo per cui Elisabetta già sterile e
vecchia, ebbe un figlio che avrebbe predicato la venuta di Cristo, e neppure ci
interessa il come Giovanni Battista abbia predicato questa venuta. Tantomeno ci
interessa la dimostrazione che Cristo discendeva da Davide re d'Israele.
Giovanni capisce la nostra esigenza e
nell'introduzione, cercando di fornirci
la chiave di lettura, esordisce appunto dicendo che, l'elemento assolutamente originale del suo racconto, sta
nel fatto che il protagonista non è un uomo:
"Egli
era Dio, Figlio unico di Dio Padre".
Non
leggeremo quindi il racconto della vita di un uomo, fosse anche del più grande
tra gli uomini, ma, addirittura, del figlio di Dio. Ma questo non basta ancora
per sapere se nel racconto troveremo una risposta ai nostri perché, anzi ci fa
venire il dubbio che si tratti d’un libro di mitologia, genere letterario dal
quale non possono venire risposte a
domande esistenziali.
Giovanni
capisce la nostra esitazione, e assecondando ancora il nostro desiderio di
sapere, precisa subito che nel suo libro c’è la risposta che cerchiamo,
e sta nel fatto che:
"Dio
ha fatto un dono a noi, di diventare figli di Dio".
La
risposta ai nostri perché, la soluzione
della ricerca su cosa siamo e dove andiamo, sta dunque, per Giovanni, nel fatto
che dalla premessa che Cristo è figlio di Dio discenderebbe che noi tutti siamo
o possiamo diventare figli di Dio.
Di
fronte ad un’apertura così provocatoria e sconvolgente un laico, nel senso
d'una persona che desidera seguire soltanto ciò che risponde a un criterio di
razionalità, che abbia un senso logico accettabile, d’impulso viene preso dalla tentazione di buttare da parte il
libro, per evitare una inutile perdita
di tempo:
"Che
mostruosità!» dirà «come posso immaginare e addirittura credere, d'essere figlio di Dio? In quale
delirio di potenza, l’uomo può riuscire ad immaginarsi, addirittura figlio di
Dio, e quindi Dio egli stesso?..."
Il
cattolico invece penserà:
"Non
riesco veramente ad immaginare come sia possibile. E’ inconcepibile ed assurdo
infatti che io, uomo limitato sotto mille aspetti, finito nel tempo, perché
destinato alla morte, possa ritenere di essere figlio di Dio. Tuttavia, proprio
perché è assurdo, lascio il terreno della ragione e salto nel vuoto della fede
e credo sulla parola.”
La parola su cui scommette tutto sè stesso il
cattolico, è quella della Chiesa che propone come dogma l’incarnazione di Dio
nell’uomo Cristo. L’alibi nel quale il cattolico riesce ad accettare anche ciò
che ripugna alla ragione, è quello per cui «si tratta d’un mistero». E’ mistero
l’incarnazione, come e’ mistero la resurrezione e l’ascensione! Nella magia
della parola «mistero» dovrebbe appagarsi ogni bisogno di sapere che non trova
risposte nella ragione.
Gli
uomini volevano sapere, ed allora si sarebbe mosso il figlio di Dio per venire
tra loro. Ma anche lui non sarebbe stato capace di vere risposte. Si sarebbe
limitato a portare qualche enigma, qualche nuovo mistero! Non mi pare che la
cosa abbia molto senso!…
Tuttavia,
non riuscendo o non volendo, rinunciare agli scrupoli della ragione, e non
volendo nascondermi dietro l’alibi del mistero, posso almeno convincermi che la
rivelazione, per la quale io sarei
figlio di Dio, è almeno intuibile, se non dimostrabile attraverso la
ragione? Se non sarà possibile capire appieno la portata della rivelazione,
perché limitato è lo strumento della mente che mi trovo a disposizione, sarà
almeno possibile ammetterla?
Se
mi sono rimesso a leggere e perchè penso di si! Mi sono convinto di sì! Perché
se Cristo è il figlio di Dio, le sue parole non possono che essere “parole di
verità” e non enigmi. Deve quantomeno essere possibile avvertire il senso e la
validità della rivelazione.
M’ero
perso nel deserto della vita e cercavo una strada. Invano! Perché nel deserto
non ci sono né strade nè sentieri. Nella mia logica, al bisogno di ritrovarmi,
rispondevo cercando una strada. E cresceva la mia angoscia all’aumentare della
consapevolezza d’essermi perso, di non sapere, di non avere l’idea, di come
riuscire ad orientarmi.
E
una voce nel deserto mi disse di guardare le stelle. Pensai che il destino si
volesse burlare di me. Stavo cercando con ansia dei segni tra la sabbia, e come
aiuto mi si consigliava di guardare al cielo...
Ma
poi anch’io ho capito che tra la sabbia, spazzata dal vento, non avrei trovato
alcun riferimento. Solo guardando alle stelle avrei potuto trovare
l’orientamento!
Mi sono anche convinto che l’orientamento e la via d’uscita
individuata potrebbero essere validi
solo per me. Infinite possono essere le strade per uscire dal deserto. Se ne
trovassi una, potrebbe rivelarsi percorribile solo per me, per il mio peculiare
modo di essere e di vedere le cose. Ma comunque, se ci riuscissi, avrei dimostrato che, come suggerisce Giovanni,
guardando le stelle si può uscire dal deserto.
Penso
infatti che non si debba e non si possa ricercare nel Vangelo, una risposta
valida per tutti. Anche perché, uno degli elementi che caratterizzano la novità
della rivelazione evangelica, è proprio quella del rapporto personale ed
individuale di ogni uomo con la divinità: non è la società che può diventare la
società dei figli di Dio, ma al contrario ogni uomo e’, o può diventare, figlio
di Dio.
In
una famiglia nella quale tutti i fratelli amano e sono in rapporto con il
padre, e' perfettamente inutile che gli uni spieghino agli altri, le
motivazioni del loro amore. Ognuno
infatti ha una sua diversa giustificazione, per spiegare un rapporto di affetto
e di amore che, pur essendo egualmente profondo e sincero, è diverso per
ciascuno dei fratelli.
Ma
quando nella famiglia si sono rotti i rapporti tra i fratelli, e tra questi ed
il padre, il racconto di uno dei fratelli su come abbia ritrovato il suo
rapporto con il padre, può giovare agli altri per ricostruire un proprio percorso, per ritrovare un proprio rapporto.
Può
essere che il racconto del fratello più sentimentale faccia ridere il fratello
più razionale, che quello del fratello più opportunista, scandalizzi il
fratello più altruista. L'importante è che, pur ridendo o scandalizzandosi,
anche gli altri fratelli ritrovino in sé stessi, il bisogno di riprendere un
rapporto con il padre, individuando poi
le modalità e il percorso più congeniale al carattere ed al modo di pensare di
ognuno.
La
mappa delle mie riflessioni dunque, attraverso la quale cercherò di orientarmi,
parte dalla considerazione che, almeno secondo Giovanni, il punto centrale
della rivelazione, la risposta da cui discendono tutte le altre risposte, è che
io sono figlio di Dio.
Si.
Ma anche se volessi accettare questo come postulato, che cosa veramente
significa? Cosa si deve e si può effettivamente intendere con l’affermazione
che io sono figlio di Dio?
Suppongo che, a monte, si debba risolvere un problema di terminologia. Giovanni
scriveva per comunicare i concetti che
considerava fondamentali
dell’insegnamento di Cristo. Lo doveva fare per gli uomini del suo tempo, nel modo che riteneva
più comprensibile, allo stato delle conoscenze e della sensibilità del momento.
Ma sono passati quasi duemila anni. C'è stata una grande evoluzione delle
scienze e della filosofia. Se scrivesse adesso, scriverebbe evidentemente in
maniera diversa.
Io
credo che comincerebbe con il non usare la stessa terminologia.
Ma quindi potrebbe non usare più il termine
«figlio di Dio»? Probabilmente sì, lo ripeterebbe, perché forse non esiste altro termine che
traduca meglio l’idea che voleva
esprimere. Ma per capire l’idea che sottende il termine è necessario che si
ricostruisca il contesto nel quale l’idea si definisce nei suoi contorni. Presa così, come affermazione a sé
stante, potrebbe sembrare soltanto una provocazione, o, persino una bestemmia!
Cap. 2
La verità di Dio.
Se
vogliamo cercare di capire il significato del concetto che noi siamo figli di
Dio, dobbiamo evidentemente prima cercare di capire cosa significhi
l’espressione per la quale Cristo è figlio di Dio, e quindi, ancora prima che
cosa si intenda con il termine Dio.
Quando leggo che Cristo è figlio di Dio, mi
viene istintivamente di pensare a quell'uomo sulla croce che domina l'altare
della chiesa del mio paese, e come padre, vedo quel vecchio che domina l'abside
portando le tavole dei dieci comandamenti.
Ognuno
di noi ha, almeno a livello subconscio,
un'immagine antropomorfa della divinità. Con il filtro di questa
immagine diventa difficile dare un senso all’espressione per cui Cristo è
figlio di Dio, e, per analogia, diventa assurda l’espressione che l’uomo è
figlio di Dio.
La
soluzione più facile, sarebbe quella di considerare l’espressione «figlio di
Dio» riferita all’uomo, come un modo di dire, e tirare avanti, senza dare molta
importanza a questa originalità espressiva.
Ma
nella chiave d’interpretazione del suo Vangelo, Giovanni precisa senza mezzi
termini: «Agli uomini Dio ha fatto il dono di diventare figli di Dio», e nella
sua prima epistola, aggiunge: «E lo siamo veramente!».
Non
si tratta quindi di un modo di dire! E non si tratta neppure d’un dettaglio
secondario sul quale si può sorvolare per ritornarci in un secondo momento. E’
invece l’essenza stessa della rivelazione. E’ quindi indispensabile riuscire a darcene una spiegazione,
a capire come sia possibile.
Lasciando da parte l'immagine che ho nella mia
mente e che mi viene dal catechismo
dell'infanzia, io so che non ha senso pensare a Dio come una sorta di Giove unico che si agita
nell’infinito dei cieli contemplando la sua creazione.
Dio
evidentemente non può essere immaginato come qualcosa di definito, e tantomeno
come un uomo, Dio è il Principio, l'Infinito da cui è nato il finito
dell'Universo, l'Idea da cui è nata ogni cosa, l’Esistenza che giustifica
l’esistente.
«Dio
è l’essere perfettissimo creatore e signore del cielo e della terra», mi hanno
insegnato a recitare già in prima elementare. Ma se Dio e’ l’essere
perfettissimo signore del cielo e della terra ed io, uomo, sono suo figlio, ne
discende che io non sono uno qualsiasi degli elementi dell’universo.
Se
poi non sono in assoluto figlio di Dio,
ma ho la possibilità di diventarlo, atteso che l’obiettivo non e’ evidentemente
di poco conto, non posso non pormi il problema di cosa fare per conseguirlo.
Questi
sono i due versanti dello stesso problema sui quali vorrei portare il complesso
della mia riflessione, articolandola appunto in due parti distinte: cosa
significa essere figlio di Dio e che cosa si deve fare per diventarlo.
Prima
ancora però di scendere sui versanti, sarà opportuno, come si è detto, ci si chiarisca e si metta a fuoco l’idea di
Dio e di Cristo figlio di Dio.
Sull’origine e la storia dell’idea di Dio
evidentemente ci sono studi che trattano l’argomento da ogni possibile
angolatura. Ma non è in questa direzione che credo sia il caso di addentrarsi,
non è un sentiero sul quale possa porsi «l’uomo della strada».
A
me è sufficiente verificare se alla perentoria affermazione di Nietzsche che
«Dio e morto» sono in grado di contrapporre la mia convinzione, altrettanto
perentoria, che Dio esiste.
Anche per me, come per il filosofo, Dio è
morto se per Dio devo intendere l’idea di Dio antropomorfa che mi porto dentro.
Sono d’accordo con lui nel dire che è morto il Dio dei divieti, delle
punizioni, il Dio che incombe minaccioso e vendicativo, pronto a punirmi
qualsiasi cosa faccia, che mi tiene in bilico tra grazia e peccato, tra inferno
e paradiso.
«Dio è morto per cui l’uomo è ora totalmente
libero» è una affermazione che condivido nel senso della possibilità di pensare
Dio senza schemi preconcetti. Appunto come un figlio che ha ritrovato il Padre
e vuol sapere tutto di lui, non potendo e non volendo fidarsi di quello che gli
dicono gli altri.
E’
quindi proprio in questa libertà
conquistata che ritrovo il Dio che non è morto, il Dio fondamento stesso della
mia esistenza. Il Dio che non esiste ma è l’Esistenza da cui trae origine anche
il mio esistere.
Nella
Bibbia è scritto che Dio ha fatto l’uomo a sua immagine, mentre nella realtà è
l’uomo che fa Dio a sua immagine.
Costruendolo
a propria immagine i teologi hanno cercato di dimostrare che esiste, e San Tommaso
in particolare ha elaborato una serie di prove che dimostrerebbero appunto
l’esistenza. Lo scetticismo che ho sempre avuto di fronte a queste prove mi
pare naturale. Come può infatti
il finito dimostrare l’esistenza dell’Infinito? Se riuscisse, in quel momento
l’Infinito non sarebbe più tale, perché sarebbe ricompreso nel finito. Più
logica mi pare la considerazione che non si può dimostrare che Dio e’
esistente, perché in effetti non lo e’: Dio non è un esistente ma e’
l’Esistenza.
Se
non ci togliamo dalla mente l’immagine di Dio a nostra somiglianza, non
riusciamo a pensare a Dio. Il nostro ragionamento, in quanto esistenti, tende a
far riferimento al divenire, perché per noi esistere è divenire. Pensando
all’esistere come divenire non riusciamo a pensare all’Esistere in assoluto,
all’Essere.
Ma
divenire e’ proprio il modo di essere
transitorio dell’Essere. Il nostro divenire implica e postula l’Essere: il
divenire e’ figlio dell’essere, l’esistente è figlio dell’Esistenza.
Se
Dio e’ l’Esistenza, Dio è anche il mio esistere. Non evidentemente ciò che sono
come corpo e neppure ciò che sono come intelligenza o capacità di sentimenti,
ma ciò che sono come puro atto dell’esistere.
Non
ha senso che io dimostri di esistere e così non ha senso che io dimostri
l’esistenza di Dio. Il mio divenire postula l’esistenza dell’Essere.
Anche in natura la mia esistenza dimostra
l’esistenza di mio padre. Invece che scervellarmi a dimostrare che esiste,
sarebbe più logico mi impegnassi a cercare di conoscere, sapendo che anche in
questa ricerca, come uomo finito ho un limite. Non riesco, infatti, a conoscere
il mio esistere, perché per conoscere è necessario avere un oggetto della conoscenza, ma l’esistere
come soggetto di conoscenza non può diventare l’oggetto della conoscenza. Come
non riesco a conoscere il mio esistere così non posso conoscere l’Esistenza.
Ma
come sento ed intuisco il mio esistere così posso intuire e sentire
l’Esistenza.
La
rivelazione insita nel concetto che il figlio di Dio si è fatto uomo e che
l’uomo è figlio di Dio è appunto che l’Esistenza non è esterna al mondo, ma è
nel mondo. Allo stesso modo l’esistenza dell’individuo non è esterna
all’individuo, ma interna.
Il
motivo per il quale posso chiamarmi figlio di Dio è il mio esistere, intimo
rispetto a tutto quello che sono, sia come spirito sia come corpo, elemento
dell’esistenza nello spazio e nel tempo attraverso il corpo, che può restare
nell’esistenza al di là dello spazio e del tempo, senza il corpo.
Esisto come momento dell’Esistenza
(figlio dell’Esistenza-Dio) e più si sviluppa la coscienza del mio esistere in
questo rapporto (di figlio dell’Esistenza-Dio), più la mia coscienza
individuale acquisisce la possibilità di consolidarsi autonomamente, in
un’altra dimensione al di fuori e senza il corpo.
Cap.
3.
In
Principio.
In principio erat Verbum, inizia
Giovanni e sembra fare eco alla Bibbia. In principio Dio creò il cielo e la
terra. Cosi comincia infatti il primo libro della Genesi.
Ma in principio, prima di creare, Dio che cosa
faceva? Che cosa c’era prima della creazione? Dio disse: “Sia la luce” E la
luce fu. Ma prima della luce che cosa c’era? La notte nella quale non si vedono
le cose, ma le cose ci sono, o la notte del nulla. E nella notte del nulla
allora, Dio che cosa ci faceva? O forse era Dio lo stesso nulla!
In effetti se
creare è fare dal nulla, solo il nulla può creare. Oppure qualcosa o qualcuno
che conviveva con il vuoto del nulla e ad un certo punto ha deciso di
riempirlo. Dio, appunto! Ma che cosa si deve intendere con la parola “Dio”? Quando dico sasso, foglia, so a che
cosa mi riferisco. Anche quando dico amore, odio, seppure con meno precisione,
so a che cosa mi riferisco. Ma quando dico Dio, a che cosa mi riferisco?
La Bibbia da
per scontato che io lo sappia, e come se fosse tutto scontato quello che
precede comincia dicendo che in
principio Dio creò il cielo e la terra.
Ma non è
affatto scontato! Lo capisce anche Giovanni
che aprendo il suo Vangelo propone una risposta. In principio era il
Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio
presso Dio, tutto e’ stato fatto per mezzo di lui e senza di lui niente e’
stato fatto di tutto ciò che esiste.
La chiave del
mistero iniziale è quindi il Verbo. Logos in greco, che era con Dio ed era Dio
e per mezzo di quale Dio ha creato il cielo e la terra. Leggendo Giovanni si ha
l’impressione che se fosse possibile capire che cosa si intende con il Verbo,
sarebbe poi facile risalire a che cosa si intende con Dio.
In Dio, dice
Giovanni, c’era la parola per mezzo della quale e’ stato fatto tutto ciò che
esiste. C’erano quindi le parole delle cose, prima che lo cose esistessero, e
queste parole erano raccolte e sintetizzate in una “La Parola” che era in Dio
ed era Dio. Chiedendo una metafora all’informatica, si potrebbe dire che
c’erano le parole del programma d’ogni cosa, in una costruzione ad albero che
si sviluppava da una parola chiave, la Parola.
Le
parole-programma non erano scritte da nessuna parte, erano un pensiero, il
pensiero di Dio. Posso immaginare che esista il mio pensiero senza di me? E’
possibile! Con la fantasia il pensiero si muove indipendentemente dal corpo.
Nel sogno il pensiero mostra di muoversi indipendentemente dalla persona che
sogna. E’ credibile quindi che il pensiero possa sopravvivere al corpo
indipendentemente da questo. Allo stesso modo e’ possibile immaginare che il
pensiero possa preesistere al corpo.
Nel caso dell’uomo il dubbio su un pensiero
preesistente al corpo può venire dal fatto che il pensiero si sviluppa
attraverso l’esperienza fatta con i sensi del corpo. Ma in assoluto che ci
possa essere stato un pensiero, un’idea del mondo, prima che il mondo
esistesse, mi pare accettabile. Sotto il profilo logico, è credibile. Dire che
questo pensiero era in Dio ed era Dio, significa dare una spiegazione di che
cos’è Dio: l’Idea appunto, l’Energia in potenza, da cui nasce l’universo.
Con la
necessità dell’uomo di dare contorni spaziotemporali ad un concetto, intuita la
possibilità’ d’un Pensiero-Dio, cadiamo nell’equivoco di pensare che ci sia
stato un prima del Pensiero senza il Mondo,
un dopo con il Mondo, e un dopo ancora, di nuovo senza il mondo. Il
Pensiero del mondo, che può essere pensiero di mille altri mondi, coesiste
invece con il mondo, ne costituisce l’anima.
Il Pensiero
della cosa è l’Esistenza della cosa, che consente a questa di esistere. Ogni
esistente nello spazio e nel tempo, esiste come momento ed espressione d’una
Esistenza al di fuori dello spazio e del tempo.
Nel sviluppo
del processo di creazione di questo mondo è avvenuto poi un fatto singolare
(potrebbe essere avvenuto anche nel processo di creazione di altri mondi, o
potrebbero essere avvenuti fatti ancora più’ singolari): uno degli esseri
creati in un primo momento ha preso coscienza di esistere, in un secondo
momento ha intuito di essere un momento del Pensiero-Esistenza e quindi di
potervisi ricongiungere conquistando l’immortalità.
Questa vicenda
dell’uomo viene riportata nel riassunto della genesi sullo sviluppo
dell’uomo. In un primo momento Dio
“plasmo’ l’uomo con polvere dal suolo e l’uomo divenne un essere vivente”. Poi
l’uomo nell’evoluzione della sua specie, conquistò la parola, Dio infatti nel
racconto biblico volle vedere come l’uomo avrebbe dato un nome agli animali e
alle cose.
Ma l’uomo, pur
capace di comunicare, non aveva ancora
coscienza di sé del proprio esistere. “Erano nudi ma non ne provavano
vergogna”, dice la Bibbia.. Solo più avanti l’uomo arrivò alla ragione, cioé
alla capacità di distinguere il bene dal male. E il passaggio viene riportato
nell’immagine dell’uomo che mangia del frutto dell’albero del bene e del male,
al quale gli era stato proibito di mangiare.
L’uso della
ragione lo porta alla coscienza di sè. “Allora si aprirono gli occhi di tutti e
due e si accorsero di essere nudi”, Se vi siete accorti di essere nudi, allora
avete mangiato dall’albero dal quale vi avevo comandato di non mangiare!
Ribadirà il Signore Dio, che per la prima volta viene sentito con paura, mentre
passeggia nel giardino. Dalla coscienza di sè deriva infatti la coscienza della
propria finitezza, la consapevolezza di dover morire e quindi la paura e
l’angoscia esistenziale.
Ma ora l’uomo
è un essere che riesce a pensare! “Ecco”, infatti dice ancora il
Signore-Dio-Idea -Pensiero, “l’uomo è diventato come uno di noi, per la
conoscenza del bene e del male”. Con la differenza che è mortale. E Dio farà in modo che resti tale, che non
“prenda anche dell’albero della vita, ne mangi e viva sempre”.
L’uomo
tuttavia, continuando nella sua evoluzione, ottiene infine da Dio di poter
mangiare anche dell’albero della vita per
diventare immortale. Il divieto imposto nel primo libro della Bibbia,
viene tolto con l’ultimo, con il Vangelo
In questo infatti
si racconta di come il Verbo-Pensiero-Dio si sia fatto uomo, dando a quelli che
l’hanno accolto il potere di diventare figli di Dio e quindi in quanto tali, di
diventare immortali.
Fuor di
metafora, l’uomo e’ pervenuto alla coscienza del proprio esistere, come momento dell’Esistenza, pensiero del
Pensiero, In altri termini quindi si e’ scoperto e riconosciuto figlio
dell’Esistenza e del Pensiero e quindi figlio di Dio.
Riconoscendomi come tale, la mia coscienza,
ossia ciò che io sono, come capacità di essere di sentire e di pensare, potrà
sopravvivere alla perdita del corpo per continuare a vivere nell’Esistenza e
nel Pensiero, o (per usare un termine usuale che a questo punto del
ragionamento, dovrebbe essere chiaro a
cosa si riferisce) in Dio.
In questa prospettiva appare chiaro anche che
cosa si debba intendere con l’affermazione
che all’uomo è stato data la possibilità di diventare figlio di Dio. Non
è una metafora! “Lo siamo veramente” aggiunge Giovanni nelle Epistole.
L’esistente è una realizzazione spazio temporale del dna (il termine improprio
serve a chiarire i concetto) dell’Esistenza, destinato a ricongiungersi ad
Essa, integrato nelle implementazioni che gli deriveranno dall’aver
vissuto l’esperienza del mondo.
San Agostino
per riuscire ad esprimere l’idea d’un Dio infinito presente nel mondo finito
ricorre ad una bellissima metafora. “Come se il mare si stendesse ovunque, solo
mare per un immensa infinità di spazio, e tenesse immersa in se una spugna,
grande quanto si vuole, ma finita, quella spugna sarebbe piena, senza dubbio,
in ogni sua parte del mare infinito. Così pensavo la creazione, finita e
imbevuta di Te infinito”.
L’immagine che
Agostino rapporta alla creazione può essere riportata anche all’individuo,
immaginando la spugna composta di tante spugne con una loro specifica
individualità. Quando l’Infinito si ritira da ognuna, questa, senza l’acqua del
mare, muore. Ma l’infinito nel periodo che è vissuto nella spugna, ha
consentito a questa di realizzare un rapporto con lui, e questo rapporto
l’infinito lo porta con sé, nell’infinito e per l’infinito.
Ma se nel
periodo in cui la spugna ha vissuto dell’infinito ed è rimasta imbevuta
dell’oceano, non ha prodotto nulla che
l’oceano possa portare con se, la sua esistenza si conclude definitivamente
quando l’oceano l’abbandona.
Solo chi ha
saputo utilizzare quel momento per vivere e sviluppare la coscienza della
relazione con l’oceano, potrà continuare a viverla anche quando non ci sarà più
la spugna e ci sarà solo l’oceano.
Cap.
4
La Luce.
Sempre nell'introduzione, Giovanni accanto al
concetto che "Colui che è La Parola è diventato un uomo", quasi a
ribadire e rendere più facilmente intuibile il concetto, introduce
l’immagine della luce:
La
luce vera
Colui
che illumina ogni uomo
Stava
per venire al mondo.
L'uomo dopo la cacciata dal Paradiso terrestre
viveva in un mondo ostile, che non sentiva come suo. Il sentimento di fondo
dell'umanità era quello dell'attesa. L'attesa di qualcosa e qualcuno che
sarebbe venuto per dare un senso alla condizione umana.Giovanni Battista è
l'uomo che interpreta questa attesa.
Come quando sta per venire un temporale, tutto
si caratterizza e trasforma in funzione dell'attesa del temporale stesso. Il
cielo è tutto coperto da nuvoloni neri, che impediscono la vista del sole. Al
di sopra dello strato di nubi c'è il sereno infinito, ma l'uomo non lo vede.
L'accavallarsi minaccioso delle nubi lo spinge a correre ad affrettarsi. Non
riesce a pensare che sopra c'è il sole, che ci sarà, anche per lui. di nuovo il
sereno.
Le raffiche di vento fanno volar via gli
oggetti, e lui li insegue, disperato per la paura di perderli. Dalla terra
viene un odore acre ed intenso che lo inebria. Lui corre, insegue, cade e si
sporca di terra, con lo stesso piacere con cui gli è parso gli animali
godessero a coprirsi di fango.
E finalmente un lampo squarcia l'aria! Dal
cielo scende improvviso un guizzo di luce che illumina la natura, come se un
per un attimo quella luce infinita che c'è sopra alla coltre di nubi, fosse riuscita
a penetrare le nubi, per illuminare il paesaggio sottostante.
Per un attimo l'uomo ha visto le cose nella
loro vera identità, quel lampo, come un raggio di sole improvviso, ha fatto sì
che l'uomo vedesse la sua sporcizia e si vergognasse.
Ma fu un lampo! Poi tutto tornò come prima: la terra da
conquistare con il sudore della fronte, le mani impastate di terra e di sudore,
la fronte sporca di terra ogni volta che uno cerca di tergere il sudore. Tutto
sembrava come prima, ma nulla era invece come prima. Adesso infatti l'uomo
aveva visto. Sapeva! Quel lampo, ritirandosi, aveva lasciato nella natura uno
spirito nuovo, un'energia nuova, che avrebbe aiutato l'uomo ad alzare la testa,
a guardare al cielo, sapendo che al di sopra di quel cielo così pesante, così
apparentemente impenetrabile, c'era invece la luce infinita, dalla quale si era
staccato quell'attimo di luce, che aveva
illuminato il mondo per un momento.
Nessuno ha mai visto la luce al di sopra delle
nuvole! Quell'attimo di luce però, che ha squarciato le nuvole, ci ha fatto
capire che c'è.
Fuor di metafora, conclude Giovanni:
"Nessuno ha mai visto Dio: il Figlio unico di Dio, quello che è sempre
vicino al Padre, ce l'ha fatto conoscere".
Ma che cosa ci ha fatto conoscere?
Cercando di eliminare le metafore del Vangelo,
ci si trova poi costretti a costruirne delle altre. Ci si accorge che lo
scoglio della terminologia è tutt’altro che superato. Non si riescono a trovare
i termini che esprimono i concetti, senza ricorrere a metafore, o comunque a
giri di parole.
Usando
termini come Padre e Figlio, per esprimere un concetto che va ben oltre quello
che si esprime nel rapporto padre-figlio, ci resta l’insoddisfazione per una
verità, che ci pare anche di poter comprendere, ma che non riesce a diventare convinzione. Non si riesce, come direbbe
Tolstoj, a sentire che la luce cresce in noi.
E’ come se dalla porta fosse entrato uno spiraglio di luce che ha dato l’impressione di riuscire a
distinguere gli oggetti nella stanza, ma poi ci si accorge invece che, per
quanto si sforzi la vista, tutto resta ancora troppo indefinito, per essere
riconosciuto.
E allora forse è il caso di provare ancora un’altra strada, un percorso
nuovo!
L’interpretazione del Vangelo è diventata per
la gran parte degli studiosi, il tentativo di ricostruire una verità storica al
di là delle contraddizioni che si riscontrano nelle varie versioni. Per me
invece, interpretare il Vangelo, significa scavare tra le parabole e le
metafore che Cristo è stato costretto ad usare, per far capire concetti
filosofici e teologici a un pubblico di poveri pescatori della Palestina. E
prima ancora significa riuscire a
demolire il fantasioso castello di altre metafore, attraverso le quali la
tradizione orale dei primi cristiani, si è tramandata la rivelazione, fino a
che non è stata codificata, nelle prime versioni scritte.
Riuscire a ritrovare tra queste macerie il
focolare originale della casa, il luogo dove ha brillato la luce che ha
illuminato il mondo, non è nè facile nè agevole. Eppure la ricerca importante
sul Vangelo, è solo quella che ci porta
a questa luce, a capire l’essenza del messaggio, dentro ai termini ed alle
forme nelle quali il messaggio è stato rinchiuso.
Lasciando quindi perdere i problemi
dell’esegesi, dell’interpretazione delle
parabole e dei miracoli, riprovo a scavare per risalire alla chiave di
lettura, ma questa volta riprovo con l’aiuto di mezzi esterni.
Come si è già detto, Giovanni, prima di
entrare nel racconto, ci riassume i più importanti concetti, nella premessa che
diventa la chiave di interpretazione di tutto il messaggio. Vorrei riprovare a
capire la chiave, sovrapponendovi la chiave delle Upanishad, cioè d’un testo
di riflessioni della metafisica indiana,
risalenti ad almeno 300 anni prima di Cristo.
E’ un accostamento che potrebbe sembrare senza
senso. A mio avviso ha invece una sua logica. La metafisica indiana infatti,
sviluppa una idea di Dio più immediata, senza sentire la necessità di ricorrere
a parabole, per esprimere i concetti. E’ come se gli orientali avessero una
sensibilità diversa e più evoluta rispetto agli occidentali. Per questo chi ha rivelato Dio a loro, ha potuto farlo
usando concetti più evoluti e soprattutto più immediati.
Anche tra gli occidentali, superato l’equivoco
illuminista, si sta affermando una metafisica che rinuncia all’idea che Dio
possa essere conosciuto attraverso la ragione. Come da secoli sono già convinti
gli orientali, anche noi ci stiamo convincendo
che altre, e non quelle della ragione, sono le strade che portano a Dio.
Questo per un processo di evoluzione della cultura occidentale che giunge solo
ora alle raffinate sensibilità della cultura orientale.
Nella chiesa cattolica invece avviene come se
la maestra avesse elaborato uno schema di insegnamento adatto ai bambini e ce
lo continuasse a ripetere, ora che siamo diventati adulti. Non è che lo schema
sia sbagliato, ma è evidente che ora ci appare insufficiente e puerile. E
quindi logico che cerchiamo di rivolgerci ad altri maestri che hanno elaborato
schemi per adulti, e che tentiamo di rileggere anche gli schemi della maestra,
alla luce di questi.
In questo senso mi pare legittimo il
tentativo di interpretare la nostra rivelazione, alla luce della rivelazione
degli orientali, di utilizzare i concetti della teologia indiana, come chiave
per capire i concetti della nostra teologia.
Alla domanda su chi è Dio in rapporto con
l’esistenza del mondo, Giovanni mi dice che in principio c’era la Parola e la
Parola era presso Dio ed essa era Dio.
Le Upanishad ci spiegano che «all’inizio
questo mondo era soltanto il Sè sotto forma di Persona cosmica. Guardandosi
attorno non vedeva altro che sè stesso.
Egli disse perciò dapprima: Io sono».
Poetica ed infantile allo stesso tempo questa
immagine del Pensiero cosmico che si guarda attorno e scopre la propria
solitudine. Illuminante invece l’idea dell’Esistenza iniziale, che avverte la
coscienza del proprio esistere che viene affermato con la Parola: «Io sono». La
parola è la coscienza, del proprio
esistere da parte dell’Esistenza. Allo stesso modo Dio nella Genesi, a Mosè che
gli chiede come si chiama, risponde: “Io sono colui che sono”.
Ma la coscienza dell’esistere del Sè,
determina il sorgere della coscienza dell’altro da sè, cioè del divenire, del
mondo. L’Esistenza, sviluppa il suo rapporto con il tempo, ossia con il
Divenire.
Nell’evoluzione del mondo, uno degli elementi
del mondo, l’uomo, nel corso dell’evoluzione della sua specie è riuscito a
comprendere l’idea di Dio come idea dell’Esistenza. Da questa intuizione è
derivata all’uomo la coscienza della propria esistenza, come momento puntuale
dell’Esistenza, cioè di Dio, nello spazio e nel tempo.
Lo stesso concetto può essere espresso dicendo
che il Logos cioè la Parola:
Era
con Dio
Egli
era Dio
Egli
era al principio con Dio.
Per
mezzo di lui Dio ha creato ogni cosa....
E
poi:
Egli
era nel mondo
il
mondo è stato fatto per mezzo di lui
ma il mondo non l’ha conosciuto.
E’
venuto nel mondo che è suo
ma
i suoi non l’hanno accolto.
La
Parola è diventata un uomo
ed
ha vissuto in mezzo a noi uomini.
Alcuni
però hanno creduto in lui
a
questi Dio ha fatto un dono:
di
diventare figli di Dio.
Parafrasando si potrebbe dire che
la coscienza dell’esistere era con l’Esistenza. Dalla coscienza dell’esistere è
nata la coscienza dell’esistente, cioè come si è già detto con altri termini,
l’idea del divenire, l’idea del mondo. Dalla coscienza dell’esistente si è
formato (per mezzo di lui) l’esistente, cioè il mondo.L’esistente, l’universo,
aveva in sè la coscienza del proprio esistere e dell’Esistenza, dal momento che
si era sviluppato dall’Esistenza. Ma il mondo non avvertiva di avere questa
coscienza.
Finché l’uomo, attraverso l’evoluzione della
propria specie, e lo sviluppo della propria intelligenza, e riuscito a raggiungere la coscienza
dell’esistere e dell’Esistenza. Oppure,
come dice Giovanni, la coscienza dell’esistente è diventata un uomo, per
dimostrare agli uomini che possono avere la coscienza dell’Esistenza.
Chi, credendo in Cristo, ha acquisito la
coscienza dell’Esistenza, acquisisce la possibilità di essere assorbito
nell’Esistenza, diventando immortale.
Concetto che viene ripetuto alla lettera nelle
Upanishad: «colui che Lo conosce per intuito e tramite ogni vibrazione di
coscienza e consapevolezza, consegue l’immortalità». Mediante la conoscenza si ottiene l’immortalità. Come dice
Cristo «Questa è la vita eterna: conoscere il Padre»
Che la coscienza di sè e dell’Esistenza si sia
rivelata agli uomini attraverso l’incarnarsi dell’idea in un uomo, o che alla
coscienza l’uomo sia arrivato attraverso l’evoluzione della propria
intelligenza, è ciò che distingue il cristiano dal non credente. Ma, a mio
avviso, di fronte al risultato, perde importanza l’interesse su come si sia
arrivati al risultato. Ciò che conta, è
che io, uomo, ho la coscienza del mio esistere e attraverso questa
consapevolezza ho la coscienza dell’Esistenza.
Questa potrebbe essere la luce che ha
illuminato gli uomini!
Cap.
5
E la Parola si fece
carne.
E venne ad abitare
in mezzo a noi.
Nei
capitoli precedenti si è tentato di capire, con un approccio forse tropo
filosofico, il senso dell’affermazione “in principio c’era la Parola”. Ammesso
che le conclusioni a cui si è giunti possono soddisfare il bisogno di conoscere
d’una persona che non accetta se non ciò che riesce a comprendere, il passaggio
successivo della introduzione di Giovanni si presenta ancora più difficile e
complesso:
“e
la parola si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”.
Riprendendo
lo schema del nostro ragionamento, dovremmo pensare che ad un certo punto della
storia, l'idea del mondo, o la coscienza dell’Esistenza, si è incarnata in un
uomo, diventando uomo.
L'idea
del mondo-figlio di Dio, si e' incarnata in un uomo di nome Gesù, nato a
Nazareth in Galilea, mentre a Roma regnava l'imperatore Cesare Augusto.
Presentata
in questo modo l’idea potrebbe anche risultare comprensibile. Tutto si complica
però se devo riconoscere che la Parola che si è incarnata è l’Unigenito figlio
di Dio. Se il figlio di Dio è il figlio dell’Esistenza, il concetto di
unigenito mi porta fuori strada, è un termine che mi riporta alla visione
antropomorfa di Dio perché unigenito è una parola alla quale non so attribuire
un significato se non in rapporto all’atto naturale della procreazione.
Comunque,
nell’economia del mio ragionamento è una parola sulla quale posso sorvolare.
Non dico che non sia importante, anzi, proprio per questo, come dicevo
nell’introduzione, ritengo che vada discussa e approfondita dentro la città.
Fuori possiamo anche evitare la discussione perché ciò che ci interessa è il
contenuto del messaggio evangelico non il come ci sia pervenuto.
Dal
momento che ci siamo posti nell’ottica di accettare o rifiutare il messaggio in
quanto più o meno rispondente ad un criterio logico e non per l’autorità più o
meno grande di chi l’ha portato, possiamo anche evitare le discussioni
cristologiche. Non ci interessa in questa sede chi è stato Cristo ma che cosa
ha detto.
Anche
in seguito, parlando del messaggio, mi riferirò indifferentemente al dato come
rivelato o al dato come scoperta filosofica, propendendo ora per l’una ora
per l’altra soluzione, solo ed
esclusivamente ai fini d’una migliore comprensione del contenuto.
Personalmente
propendo per l’idea d’un Cristo-filosofo (che non esclude tutto quello che la
cristologia sostiene al riguardo) perché non riesco ad accettare ciò che sta a
monte dell’idea del figlio Unigenito.
Che
il figlio Unigenito di Dio si sia incarnato, indipendentemente dalla
possibilità di dimostrare la storicità dei Vangeli e quindi della figura
storica di Cristo, la ragione potrebbe anche accettarlo, ma ciò che non riesce a capire ed ammettere è
il perché sarebbe dovuto avvenire.
Che
l’Infinito nella sua onnipotenza abbia voluto che una parte di sè, come parte
di sé ogni padre considera il figlio,
diventasse finito nel tempo e nello spazio, diventasse cioè uomo, potrei anche accettarlo.
Ma
se è possibile non è logico!
Dio
avrebbe voluto secondo le reminiscenze del catechismo, che una parte di sé,
della sua stessa sostanza, diventasse
uomo, perché si potesse sacrificare, morendo in croce, e redimere con la sua
morte gli uomini dal peccato originale.
Non
c'è alcuna logica in tutto questo. Non fosse altro perché se Dio Onnipotente
avesse voluto salvare l'uomo, non avrebbe avuto
bisogno di sacrificare alcuno, sarebbe stato sufficiente l'avesse voluto
e si sarebbe verificato.
D'altra
parte se accettiamo il concetto che Dio ha voluto che, ad un certo punto della
storia, suo figlio si incarnasse, non possiamo immaginare che tutto questo sia
avvenuto per lasciare agli uomini una serie di concetti misteriosi ed
incomprensibili.
Se Dio e' l'Infinito e Cristo e la sua
manifestazione tra e per gli uomini, questa manifestazione non può essere
avvenuta, se non per portare agli uomini qualcosa che non sarebbe stato
possibile portare senza la manifestazione stessa, e non certo un mistero.
Io
credo che restiamo bloccati di fronte al
perchè dell’incarnazione, perché vogliamo leggere con gli schemi mentali di noi
occidentali del duemila, un evento che è stato riportato secondo gli schemi
degli ebrei di duemila anni fa.
Se
pensiamo a Cristo come al Messia, colui nel quale si compie la storia
dell’antico testamento, la presentazione che ci viene data “dell’agnello di Dio
che toglie i peccati del mondo» ha una sua logica. Per una cultura religiosa
come quella veterotestamentaria, che vedeva nel sacrificio il modo di
rappacificare l’individuo con la divinità, è logico che la storia si completi
nel massimo dei sacrifici: Dio sacrifica il figlio-uomo sulla croce perché
l’umanità intera possa riconciliarsi con lui.
Per
noi, pensare che Cristo si è incarnato per morire, diventa giustamente uno
scandalo, diventa la «sconfitta di Dio».
Ma
perché dobbiamo pensare a Cristo attraverso gli schemi con i quali ce l’ha
riportato la cultura ebraica? Già leggendo le epistole di Paolo si nota come questo concetto di «Cristo che
offre sé stesso in sacrificio per eliminare il peccato», viene enfatizzato
appunto soltanto nella lettera agli Ebrei. Quando parla ai Romani il linguaggio
di Paolo è diverso. E perché allora noi ci ostiniamo a voler capire il
messaggio nell’interpretazione ebraica, così lontana della nostra scrittura?
Ma se non e’ venuto al mondo per essere
immolato come vittima sacrificale al Padre, a quale fine si sarebbe incarnato?
Se
eliminiamo ogni sovrastruttura, il Vangelo di Giovanni ci riporta la storia di
un uomo che si dichiara figlio di Dio, che vive tre anni di predicazione
scanditi da tre viaggi a Gerusalemme. Quando arriva a Gerusalemme per la terza
volta, viene arrestato, condannato a morte e giustiziato. Una fine più che
prevedibile, per un contestatore che per
tre anni si era proposto con un messaggio rivoluzionario, che metteva in
pericolo il sistema di potere religioso ebraico, che si reggeva sul compromesso
con il potere politico del conquistatore romano.
Da
quello che ci ha detto nei tre anni, ricaviamo che è venuto per insegnarci a
conoscere il vero Dio, a vivere da figli di Dio per ottenere la vita eterna. Se
doveva insegnare agli uomini a vivere, non poteva non insegnare loro anche a morire, dato che la
morte è l’elemento caratterizzante la vita dell’uomo. Un concetto che Paolo
riporta proprio nella lettera agli
ebrei: «mediante la propria morte ha potuto distruggere il demonio che ha il
potere della morte, e ha potuto liberare quelli che vivevano sempre come
schiavi, per paura della morte».
L’idea
d’un uomo schiavo per paura della morte mi pare molto pertinente. Ma volendo
liberare l’uomo da questa schiavitù non servono i sacrifici alla divinità. Gli
si deve insegnare concretamente che c’è un modo per vivere vincendo la morte, o
con una figura poetica, vincendo, «il demonio che ha il potere sulla morte».
Se
Cristo s’è incarnato per insegnare agli uomini e non per sacrificarsi, ci si
scontra in un altro paradosso quando, come ho già detto, attraverso il
catechismo, si impara che non ci sono state lasciate delle verità, dei concetti
facilmente comprensibili, ma soltanto
dei misteri.
Possibile?
Mi chiedo. Nessuna religione ha il coraggio di spingersi fino all’idea del
figlio di Dio che diventa maestro degli uomini. E con un maestro così
eccezionale l’uomo sarebbe riuscito a capire soltanto che tutto è un mistero? …
Dice
giustamente Giovanni nella sua prima epistola: "Noi sappiamo che il Figlio
di Dio è venuto e ci ha insegnato a conoscere il vero Dio". Ma che cosa ci
ha fatto conoscere se sono ridotto ad immaginarlo in quel vecchio dipinto
nell’abside della chiesa del mio paese?
Alla
base della mia riflessione c'è l'idea che i messaggi non erano incomprensibili,
erano al contrario chiarissimi e sintetizzabili in poche parole. Sono stati
stravolti nell'interpretazione che se n'è voluta dare, perseguendo finalità che
non erano solo quelle di trasmettere la Rivelazione.
La
rivelazione e' infatti tanto semplice quanto sconvolgente: io sono figlio di
Dio e per rendere vivibile e non solo comprensibile questo concetto Dio ha
fatto si che lo vivesse, il Figlio suo Unigenito. Il figlio di Dio e’
vissuto da uomo per insegnare agli
uomini a vivere da Figli di Dio.
Vivere
da figli di Dio significa vivere amando Dio ed i fratelli".
Vivendo
da figlio di Dio l'uomo riconquista l'immortalità perduta.
"Chi
ascolta la mia parola e crede nel Padre che mi ha mandato ha la vita
eterna!"
Il Vangelo è tutto qui. La rivelazione è
sintetizzabile in queste poche parole. La salvezza non è nella morte di Cristo,
ma nella rivelazione che ha fatto agli uomini della loro natura di figli di
Dio.
Cap. 6
L'Uomo Figlio di
Dio.
Se anche
fossi in qualche modo riuscito a rendere più comprensibile il concetto che il
figlio di Dio s’è fatto carne, sarei comunque molto lontano dal poter
comprendere la seconda parte della proposizione: «il figlio di Dio s’è fatto
carne, perché la carne, cioè l’uomo, capisse di poter diventare figlio di Dio».
A quelli che hanno creduto in Cristo, «Dio ha fatto un dono: di diventare figli
di Dio».
Ma è evidentemente
la parte della proposizione e quindi della rivelazione, che più ci
interessa.
Infatti se
anche riuscissimo a capire Dio, e a darci una spiegazione del come sia potuto
avvenire che il figlio di Dio si sia fatto uomo, non avremmo ottenuto alcun risultato pratico, se tutto
questo non avesse alcun riflesso su di noi, non servisse a dare un senso alla
nostra esistenza.
Il vero
problema, ammesso e non concesso d’aver capito come il figlio di Dio possa
farsi carne, è quello di capire come sia possibile che la carne diventi figlio
di Dio.
Ma cosa
può significare in termini razionali e non come verità di fede, che l’uomo può
diventare figlio di Dio?
Dal
punto di vista della ragione, potremmo dire che l’uomo può avvertire di essere
figlio di Dio nel momento in cui avverte di avere in sé, nel suo corpo,
qualcosa che non e' corpo: la coscienza della propria esistenza, o, come si suol
dire, l'anima spirituale. Questo avviene, come si e’ detto, in un momento della
storia dell'umanità, per l’intervento dell’Unigenito o per la evoluzione della
capacità di pensiero dell'uomo.
Se in questo processo evolutivo c'è stato un
intervento esterno della divinità che ha fatto prendere coscienza
dell'evoluzione intervenuta, non trovo difficoltà ad ammetterlo, se ammetto
l'esistenza d'un Principio o Energia che guida l'evoluzione del mondo.
Ma che ci sia stato o no è indifferente!
Nel momento in cui l’uomo ha cominciato a
distinguere il bene dal male ha preso a
sviluppare la capacità di pensare e di sentire, ha sviluppato in se stesso la
propria essenza spirituale.
Essenza spirituale che si è andata sempre più
raffinando fino a quando è riuscita a concepire la divinità come l’Assoluto
sentendosi parte di esso in relazione con lui.
Come ricorda Arnold Toynbee, nel VI secolo
avanti Cristo in cinque parti diverse del mondo, ci furono cinque «illuminati»,
(Confucio, Buddha, Zarathustra, Pitagora e il Deutero-Isaia) che svilupparono
un nuovo concetto di religione. «La caratteristica comune più importante è la
possibilità per il singolo essere umano
di giungere ad un rapporto personale diretto con la realtà spirituale ultima,
che sta nel, e dietro l’universo, nel quale l’uomo si trova. Originariamente il
rapporto dell’uomo con la realtà ultima era stato non individuale e personale,
ma collettivo e istituzionale». Il Dio della Bibbia è il Dio di Israele, non
degli israeliti.
Nel mondo
mediterraneo, il pensiero di Dio in un rapporto diretto con l’uomo, si
approfondisce ancora nei secoli, in
particolare nel mondo ebraico, che per primo aveva sviluppato l’idea del Dio
Unico e Assoluto.
Ad un certo
punto, in un preciso momento della storia, prodotto dalla storia stessa, appare
un uomo che testimonia ed enfatizza il nuovo modo dell’uomo di sentire il
rapporto con Dio.
Colombo, Galilei, Einstein sono grandi uomini
a cui sono legate grandi scoperte rivoluzionarie per la storia dell’umanità. Da
un lato questi possono essere considerati uomini provvidenziali per la storia
del mondo, perché hanno avuto intuizioni che hanno impresso uno sviluppo
diverso nella storia dell’uomo. Da un altro lato, gli stessi possono essere
considerati solo riferimenti nominali di un processo che comunque era maturo,
che altri, seppure con qualche marginale ritardo di tempo, avrebbe comunque
esplicitato.
E’ vero infatti che Galilei ha scoperto la
sfericità della terra, ma è altrettanto vero che il pensiero del periodo
storico in cui Galilei è vissuto, era maturo per giungere a questa scoperta.
In un’ottica esclusivamente umana quindi
Cristo potrebbe essere considerato come uno dei grandi della storia
dell’umanità.
Ma qual’è stata la sua scoperta?
Che ogni uomo è, o può diventare, figlio di
Dio.
E come ha annunciato la scoperta?
Proclamandosi lui per primo figlio di Dio e
cercando di insegnare agli uomini un nuovo modo di vivere: da figli di Dio.
Purtroppo però a differenza della sfericità o
della gravità della terra la scoperta non è dimostrabile.
Il ragionamento può essere lo stesso, con la
differenza però di dover accettare il fatto indimostrabile che egli sia, come
si è dichiarato, figlio di Dio. Ma se Einstein si aspettava che i suoi gli
credessero sulla parola anche senza capire la dimostrazione, altrettanto poteva
aspettarsi Cristo.
Io sono relativo, avrebbe potuto affermare
Einstein, scoprendo il principio della relatività dell’uomo. Allo stesso modo
Cristo afferma, io sono figlio di Dio, scoprendo il principio della divinità
dell’uomo, e quindi che tutti gli uomini sono figli di Dio.
In effetti ad
ognuno verrebbe spontanea la sollecitazione fatta a Cristo da Filippo:
«Signore, mostraci il Padre: questo ci basta.»
Certo che ci basterebbe! Senza tanti giri di
parole e senza essere costretti ad aiutare la ragione con i «salti di fede». Ma
dobbiamo ammettere che la risposta di Cristo è logica ed esauriente:
«Filippo
chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi dire mostraci il Padre? Dunque non
credi che io vivo nel Padre il Padre vive in me? Io sono nel Padre e il Padre
e’ in me»
Volendo
cercare di approfondire per arrivare ad una idea più accettabile dalla ragione,
si può riprendere il ragionamento
iniziale.
Dall'idea
del Mondo è nato il mondo, ma ad un certo punto della sua storia, l'idea stessa
si è materializzata in uno degli elementi del mondo: l'uomo. Se prima l'uomo
era uno degli elementi costitutivo dell'universo, da questo momento diventa
l'elemento centrale che giustifica l'universo, ed attorno al quale l'universo
di muove.
All'uomo
che aveva paura degli elementi del mondo, al punto da divinizzarli e farli
oggetto delle sue preghiere, facendo incarnare l'idea del mondo in lui, Dio
mostra che è lui che ha in sè l'idea
del mondo e che quindi può controllare gli elementi dell'Universo e l'Universo
intero.
L'idea
può sembrare spinta ed in certo qual modo paradossale. Ma se di paradosso si tratta il paradosso è nel
Vangelo perché e incontestabile che la rivelazione del Vangelo e' che l'Uomo e'
figlio di Dio.
"Chi
ha l'amore", ripete Giovanni nella sua prima epistola "è diventato
figlio di Dio e conosce Dio" ed ancora più esplicitamente:
"Quale
grande amore ci ha dato il padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!"
Dire
che l'uomo è figlio di Dio non può non voler significare altro che la
centralità dell'uomo rispetto al disegno complessivo di Dio sul mondo.
Se
Dio ha adottato l'uomo come figlio è evidente che l'ha fatto perchè ha un
disegno nel quale l’uomo-figlio assume il ruolo principale.
Nel
Vecchio testamento, a Noè Dio aveva parlato dell'alleanza, che avrebbe
realizzato tra se' "tra Dio e ogni essere che vive in ogni carne".
Il
fatto che la Parola si sia fatta carne, uomo, modifica evidentemente il patto
di Dio con l'uomo, che non è più alla stregua degli altri animali, ma che ora
ha la possibilità di diventare figlio di Dio.
Eppure
per quanti ragionamenti si possano costruire, l’espressione Uomo figlio di Dio,
continua a risultare assurda e paradossale!
Forse
a rendere il concetto meno improponibile ed inconcepibile può aiutarci la
strada già imboccata nei capitoli precedenti. Infatti, almeno per me, tutto
diventa più chiaro, se immagino che l’uomo faccia il percorso che la metafisica
orientale, attribuisce a Dio.
L’uomo
ad un certo punto, per evoluzione o per rivelazione, ebbe coscienza di sè come
individuo, del proprio esistere. Ma nello stesso momento in cui capì di
esistere, capì l’Esistenza. Capì quindi di essere sviluppo (figlio)
dell’Esistenza, e quindi con una espressione
che tutto sommato rende bene il concetto, capì d’essere figlio di Dio.
Ma
se Cristo è figlio di Dio e chi vede lui
vede il padre che l’ha mandato, anche nell’uomo che diventa figlio di Dio si deve vedere Dio.
Infatti
se Dio e’ l’Esistenza, come ho già detto, Dio e’ anche il Principio del mio
esistere.
Per
capire l’affermazione si deve risalire al concetto di Dio. Giovanni non ne
parla perché dà per scontato tutto il Vecchio testamento. Ma anche il Vecchio
Testamento dà per scontato Dio, aprendo subito con la proposizione «in
principio Dio creò il cielo e la terra.
Se
invece cerchiamo di ripassare il concetto, con la chiave della metafisica
indiana, vediamo che Dio principio d’ogni cosa diventa:
ciò
che e’ l’udire dell’udito
il
pensare del pensiero
il
parlare della parola
il
respirare del respiro
il
vedere della vista.
E
ancora:
Il
Dio, il creatore, il grande Sé
dimora
nel cuore delle creature.
E’
contenuto nel cuore, nel pensiero nella mente. Coloro che sanno ciò diventano
immortali.
Il «Ciò che è», si trova nel mio cuore come
«ciò che sono». Il concetto è lo stesso usato
da Giovanni, quando dice che il
«ciò che sono» è figlio del «Ciò che È», che l’uomo, «ciò che sono», è figlio
di Dio, «Ciò che È».
Cap. 7
Io, figlio di Dio.
La riflessione
sulla divinità, su Dio, come ho già detto, non è e non vuol essere una
riflessione filosofica ed accademica, anche se non può prescindere da alcuni
concetti filosofici. Il problema del chi è Dio, non ci interessa tanto come
problema in sé, quanto per il fatto che ci aiuta nel tentativo di comprendere
la sconvolgente rivelazione di Giovanni che: “Io, sono figlio di Dio”.
Se
voglio capire cosa si intende dire quando mi si dice che sono figlio di Dio non posso non cercare di
capire, o almeno di intuire, che cosa debba intendere con il termine, Dio, del
quale io sarei figlio
Quand’anche poi fossi riuscito a convincermi,
attraverso gli spunti di riflessione dei capitoli precedenti che è possibile
pensare ed ammettere anche che l’uomo e figlio di Dio, non avrei raggiunto
ancora alcun risultato. Dal sapere che l’uomo e’ figlio di Dio, alla
convinzione che io sono Figlio di Dio, c’è ancora un abisso, c’è ancora un
impressionante salto nel vuoto.
Tutto in effetti sembrerebbe facile! Se l’uomo
è figlio di Dio, come s’è visto, ed io sono un uomo, è evidente che io sono
figlio di Dio. Il sillogismo non fa una grinza! Eppure non basta! La
convinzione che richiede il Vangelo non deve fermarsi a livello razionale deve
entrare nel mio intimo al punto da conformarmi e condizionarmi per costringermi
a vivere da Figlio di Dio.
Non mi si chiede di pensare al figlio di Dio
di immaginarmi tale, mi si chiede di essere figlio di Dio, di vivere da Figlio
di Dio.
Il cancro può diventare un argomento di
discussione. Se ne possono avere opinioni diverse a seconda di come la malattia
ci sia passata vicina, ci abbia più o meno toccato negli affetti più cari. Se
ne possono dare valutazioni diverse a seconda della nostra conoscenza più o
meno approfondita dell’argomento sotto l’aspetto scientifico o sotto l’aspetto
sociale.
Ma qui il problema è un altro, radicalmente
diverso: non si sta parlando del cancro,
ma si stà dicendo che io ho il cancro. Sono io che ho il cancro!
Di fronte a questa rivelazione, i termini con
i quali affronto l’argomento cancro,
sono completamente diversi. Il cancro non è più per me materia di discussione,
diventa un nuovo modo di essere, di pensare e di vivere.
Può sembrare paradossale questa metafora sul
cancro, questo mettere sullo stesso piano la rivelazione che mi può venir fatta
della mia condanna a morte, con la rivelazione del premio della vita eterna che
mi viene assegnato in quanto figlio di Dio.
Ma il paradosso evidenzia molto bene come la
mia condivisione della rivelazione deve
essere radicale e totale.
Nel momento in cui mi venisse annunciato che
ho un tumore mortale, non potrei evitare un momento di smarrimento, resterei
travolto dalla sensazione che il mondo mi cada addosso annullandomi. In quel
momento di fronte alla comunicazione della mia condanna a morte, vedrei venir
meno d’un colpo tutto quello che sono stato e sono, per ritrovarmi solo sulla
strada che porta irreparabilmente al precipizio.
In termini diametralmente opposti, la
comunicazione che sono «figlio di Dio», se la capissi veramente in tutta la sua
portata, dovrebbe avere per me lo stesso effetto sconvolgente. Smarrito di
fronte alla grandezza della rivelazione, dovrei sentirmi al centro del mondo,
capace di determinare il mio destino e quello del mondo. Dovrei d’un colpo
sentire in me venir meno tutto quello che sono stato e sono, per sentirmi
completamente diverso, su una strada completamente diversa, in un mondo
completamente diverso.
E invece no! E come se il medico m’avesse
detto che ho il cancro ed io non conoscessi il significato della parola. E’
quindi necessario che qualcuno mi spieghi che la parola cancro è sinonimo di
condanna a morte, come è necessario che qualcuno mi spieghi che «figlio di Dio»
è sinonimo di destinato alla vita eterna.
E questo è in fondo ciò che ha cercato di fare
Cristo, nei suoi tre anni di predicazione, come ce la racconta Giovanni.
Non c’è occasione nella quale Cristo non trovi
il modo per ricordarci che Lui è figlio di Dio, che anche noi possiamo
diventarlo, e che il figli di Dio hanno diritto alla vita eterna.
Ma, purtroppo sono ancora affermazioni che io
sento come modi di dire, non come modi di essere!
Il problema, alla luce delle Upanishad, sta
nel fatto, che io mi sforzo di capire, ciò che invece non si può capire ma si
può solo intuire. Quando mi dovessero dire che ho il cancro, non ha nessuna
importanza che io capisca il meccanismo delle metastasi impazzite, devo solo
intuire che sono condannato a morte.
Da occidentale, ho sempre cercato di capire
ciò che sono, per cercare di risalire a ciò che È, e attraverso questo
ragionamento trovare il senso del mio esistere. Da occidentale evoluto, devo
invece capire che il mio esistere, non può essere conosciuto, ma solo sentito,
intuito, così l’Esistenza può essere solo sentita e non conosciuta.
Io devo sviluppare e affinare la capacità di
sentire ed intuire il mio esistere, così affinerò la mia capacitò di intuire
l’Esistenza, in questo percorso il mio esistere scoprirà progressivamente il
suo identificarsi con l’Esistenza, conquistando la possibilità di una
identificazione completa ed eterna, una volta liberato dal corpo mortale.
Così per le Upanishad «colui che lo conosce
per intuito e tramite ogni vibrazione di sapienza e consapevolezza, consegue
l’immortalità».
Così per il Vangelo: «se uno mi ama, io verrò
da lui con il Padre mio ed abiteremo con lui».
L’errore nostro è quello di cercare di
conoscere ciò che invece va “amato o intuito con una vibrazione di
consapevolezza”. Ma l’errore ancora più grande è quello di cercare Dio nei
cieli, quando il Vangelo spiega
chiaramente che solo attraverso il figlio si puo’ conoscere il Padre. E’ quindi
attraverso me, in quanto figlio di Dio, che arrivo a Dio.
Io, dice Cristo, in quanto figlio di Dio, sono
la via la verità e la vita, solo per mezzo di me si va al Padre. E quindi
ognuno di voi, in quanto figlio di Dio, è per sè stesso la via per la quale si
va al Padre.
Il senso dell’essere figlio di Dio sta quindi
nel fatto che attraverso me, ritrovandomi nel essenza del mio esistere, io
ritrovo l’essenza dell’Esistenza. Questo e’ anche il senso profondo
dell’affermazione di S. Agostino quando dice che la verità è nell’intimo
dell’uomo, e delle Upanishad quando dicono che Dio è nel cuore dell’uomo.
Condividendo
l’Esistenza, attraverso il progressivo penetrare nel senso intimo del nostro
esistere, si raggiunge la vita eterna. Così le Upanishad: «Ma coloro che con il
cuore e con la mente lo riconoscono come colui che dimora nel cuore, diventano
immortali». Così Cristo:
«La vita
eterna e’ questo: conoscere l’unico vero Dio».
Cap.
8
Il
buon pastore.
Di fronte alla conclusione che riconoscersi
figli di Dio è per l’uomo immedesimarsi nell’intuizione del proprio esistere
come momento dell’Esistenza, posso anche capire che qualcuno si mostri
perplesso, ma, ripeto, le mie non vogliono essere conclusioni ma riflessioni
aperte, spunti per ulteriori approfondimenti individuali.
In questa
ottica ho voluto verificare come potrebbe essere letta la parabola del buon
pastore, assumendo come chiave di lettura le considerazioni a cui in qualche modo si è già pervenuti.
Gesù disse: Io
vi assicuro che se uno entra nel recinto delle pecore senza passare dalla
porta, ma si arrampica da qualche altra parte è un ladro e un bandito...E poi
accorgendosi che quelli che lo ascoltavano non capivano quanto stava dicendo,
riprese a dire: “Io sono la porta per le pecore...” E con questa spiegazione,
si può ben capire, lo sbandamento dell’uditorio fu totale...
Del passo sono
state date le più disparate interpretazioni, io vorrei provare ad aggiungerne
un’altra ancora immaginando che Cristo abbia voluto dire che:
Io che
proclamandomi figlio di Dio sono la rivelazione per l’uomo che anche lui e’
figlio di Dio, sono la porta attraverso la quale si può entrare nel recinto
protetto del cuore dell’uomo. Chi e’ entrato da altre parti, partendo da altri
punti di vista, ha portato solo scompiglio, come il ladro che entra nell’ovile.
Chi entra invece attraverso l’idea che l’uomo e’ figlio di Dio, ricompone in
unita’ il gregge dei sentimenti, dei moti dell’animo dell’uomo che si
riconoscono come modi di essere
dell’esistere individuale.
Chi è entrato
nell’uomo con altri riferimenti interpretativi ha portato solo danni. Chi entra da ladro, uccide e distrugge,
portando solo infelicità. Chi entra attraverso e quindi con l’idea di essere
figlio di Dio sarà salvo. Chi entra in sè, come il buon pastore nell’ovile,
cioè con l’idea d’essere figlio di Dio, dà
la vita al gregge degli elementi
che lo costituiscono, fa cioè rivivere tutto di sé.
Chi invece
entra da mercenario e quindi vuole soltanto utilizzare il gregge-uomo,
all’arrivo del lupo del dubbio e dell’angoscia, non riesce a dare risposte e si
ritira. Le pecore non sono sue, lavora per denaro. Allora il dubbio e
l’angoscia rapiscono l’uomo portandolo fuori di sé e disperdendolo.
L’idea
d’essere figli di Dio, riporta ad unità l’uomo, l’idea infatti si riconosce in
ogni elemento dell’uomo ed ogni elemento si riconosce nell’idea, come
l’intuizione dell’esistere si riconosce nell’Esistenza, ed è da questa relazione,
che all’uomo viene la vita eterna.
Ci sono altri
elementi dell’uomo, come quelli riferiti alla ragione, che non si riconoscono
ancora in questa idea, che non l’accettano. Ma con il buon pastore ci sarà la
possibilità di ricomporre ad unità l’uomo nella sua totalità come un unico
gregge con un unico pastore. Questa è la prospettiva dell’uomo-cristiano.
La
ragione deve insegnare all’uomo a sapere di Dio per porsi sulla strada della
conoscenza di Dio. Proprio attraverso la ragione l’uomo, come s’è già visto,
deve rendersi conto che Dio non può essere capito ma deve essere solo
conosciuto, giorno per giorno, in un percorso continuo di approfondimento della
propria conoscenza o meglio della propria intuizione.
Nessun uomo può pensare, per quanto lunga possa
essere l’esistenza che gli viene concessa, di riuscire a capire tutto il mondo che pure è finito. E
come può pensare di riuscire a capire, cioè a comprendere in sé, Dio che è
infinito.
L’uomo ha un
solo modo per scoprire Dio, quello di imparare a scoprirsi figlio di Dio.
La mia è una
interpretazione che potrebbe anche sembrare una bestemmia, come una bestemmia
può sembrare l’affermazione che io sono figlio di Dio.
E infatti
anche Cristo lo volevano uccidere a colpi di pietra proprio perché a loro avviso “bestemmiava”
insistendo sul discorso del pastore e delle pecore e sul suo essere
figlio di Dio, una cosa sola con il
Padre. Allora potrei anch’io difendermi, parafrasando le sue stesse parole.
“Guardate che
già la Bibbia chiama Dei coloro ai quali fu rivolta la parola di Dio, e quindi
non c’è nulla di sorprendente nel fatto che io mi dichiari figlio di Dio (e che
quindi anche voi possiate considerarvi figli di Dio)”.
All’obiezione
che l’interpretazione della parabola è comunque troppo spinta, troppo “tirata”,
risponderei invece chiedendo un ragionamento alla rovescia. Nell’ipotesi che il
Cristo-filosofo avesse veramente voluto trasmettere questi concetti, come
diversamente avrebbe potuto esprimersi, per farsi capire dai pescatori ai quali
cercava di insegnare la novità del loro essere figli di Dio?
Non a caso,
introducendo la parabola del buon pastore Cristo aveva detto ai Farisei:
“Se foste
ciechi non avreste colpa, invece dite noi vediamo, così il vostro peccato
rimane”. Come a dire, non si può mai
dire ho già visto, so già…
Appunto, nessuno sa già di Dio. Dio va cercato
e scoperto continuamente. sul percorso della ricerca del proprio rapporto con
l’Esistenza..
Cap. 9
Figlio dell'Uomo e
Figlio di Dio.
Nel
Vangelo i due termini si alternano, al punto che si potrebbe dire possono
essere considerati sinonimi.
Troviamo
infatti l'espressione "Nessuno è mai stato in cielo, soltanto il Figlio
dell'Uomo. Egli infatti e venuto dal cielo", in un contesto nel quale ci
sembrerebbe più logico trovare il termine figlio di Dio. Analizzando più
attentamente i contesti nei quali vengono usati i due termini, troviamo che
Cristo fa riferimento a sé come figlio di Dio:
"Se
voi conosceste me conoscereste anche il Padre mio".
Ma
quando si nomina si chiama Figlio dell'Uomo:
"Vedrete
il cielo aperto, e gli angeli di Dio salire e scendere verso il Figlio
dell'Uomo".
L'affermazione
che lui è Figlio di Dio viene normalmente fatta dagli altri.
È
Natanaele infatti che dice:
"Maestro,
tu sei il Figlio di Dio".
Oppure
é Giovanni Battista a testimoniare che:
"Gesù
è figlio di Dio"
Al di là del
come e del quando vengono usate le due espressioni ciò che più importa
sottolineare è che, in questa contrapposizione, si introduce il dualismo che
costituisce l’innovazione della filosofia cristiana.
Io vorrei
suggerire, anche qui, una nuova interpretazione, nel senso che Cristo introduce, ma allo stesso tempo supera e ricompone, il dualismo!
Il
cristianesimo, secondo l’interpretazione comune, avrebbe introdotto la
lacerazione dell’unità dell’uomo,
dissolvendo la concezione della vita armonica del mondo classico, in una
concezione drammatica ed inquieta, Il cristiano è un uomo che vive la
provvisorietà del mondo terreno in una tensione versa l’al di là. L’uomo
cristiano non saprebbe cogliere, come quello classico, la bellezza
dell’universo, perché l’universo è corrotto e fonte di corruzione.
Questa visione
nasce da una errata interpretazione del messaggio evangelico, o meglio, da una sua lettura, senza riuscire a superare
la concezione antropomorfa della divinità.
Il dualismo
tra me e Dio, tra la vita terrena e quella ultraterrena, si sviluppa
sull’equivoco che, altro da me sarà quello che vivrà la vita eterna, che altro
da me è il Dio da inseguire nei cieli.
Ma se la
novità del messaggio è che io sono figlio di Dio, è in me che debbo ricercare
Dio ed è in me che debbo costruire la vita eterna. Io non sono doppio, figlio
dell’uomo e figlio di Dio, per cui in me ci sarebbe una tensione continua tra i due poli, ed una
sofferenza drammatica in questa tensione. Io sono allo stesso tempo figlio
dell’uomo e figlio di Dio. Il senso della mia vita, si risolve in me
nell’obiettivo di trasformare il figlio dell’uomo in figlio di Dio, capace di
vivere al massimo grado di sensibilità la vita eterna.
La venuta di
Cristo ha un solo motivo: quello di insegnare agli uomini il modo di
raggiungere la vita eterna. L’insegnamento è che dobbiamo vivere la vita con il
corpo, in modo da poter vivere, nel modo migliore, la vita senza corpo,
nell’eternità.
Per fare
questo, devo utilizzare il mondo. Utilizzare non significa nè negare, nè
lasciarsi travolgere. Utilizzare significa essere attenti non alle cose, ma al
rapporto con esse. Le cose non ci appartengono, il nostro rapporto con le cose
invece, è assolutamente «nostro». Nel rapporto si sviluppa e si raffina la
nostra sensibilità. Il rapporto non nega il possesso, purchè il possesso non
diventi il fine, ma un mezzo per intensificare il rapporto.
Chi ha
acquistato un quadro solo per far sfoggio con gli amici del suo possesso, ha,
in fondo, tanto di meno di chi ha visto una sola volta quel quadro, ma si porta
dentro, e riesce a rivivere, l’impressione intensa e profonda che ha provato vedendolo.
Se chi ha
provato un’emozione, compra il quadro per rivivere meglio quell’emozione, ha
evidentemente acquistato il quadro, non per il quadro, ma per l’emozione. Se
però l’ha fatto per riservare in esclusiva per sè quell’emozione, si priva del
piacere di sapere, che quella emozione, è condivisa da altri, e quindi si priva
del piacere di poterla condividere con altri.
C’è chi nel mondo può acquistare il quadro, e
chi invece no. Ma non è questo a fare la differenza. La differenza vera, è nel
diverso grado di emozione, che il quadro sa suscitare in noi.
L’idea del cristiano, non è quella dell’uomo
che cerca Dio nei cieli, incespicando nella terra. Il cristiano cerca Dio in sè
, (in interiore homine habitat veritas) ed interiorizza il mondo, come mezzo
per raggiungere Dio e la vita eterna.
Non c’è dualismo quindi ma una unicità
assoluta della ricerca di Dio in sè stessi, in una rapporto con il mondo,
strumentale ai fini della ricerca di Dio.
Cap. 10
Dio Padre.
Dicevo
all'inizio, della diffidenza istintiva a pensare a Dio, come a quel buon
vecchio padre, che dall'abside della
chiesa della mia infanzia sembra attendere con pazienza e comprensione i fedeli
del paese. Ma dopo aver introdotto il concetto
dell’Esistenza, dell'Energia vitale o dell'Idea del mondo, per spiegare
in termini più logici l'idea d'un Dio che fa incarnare come uomo il figlio, ho
l’impressione d’essermi perso il senso di un'altra delle idee originali del
Vangelo: l'idea che Dio è Padre.
Quando parla di Dio, Cristo, parla normalmente
del Padre, ed è un concetto assolutamente originale non solo nei confronti del
Vecchio testamento, ma anche delle altre religioni. Un concetto importante che
va capito e approfondito, e non messo da parte, come se si trattasse solo di un
modo di dire.
Io vorrei riuscire a capire se è possibile
mantenere l'idea d’un Dio padre, senza che questa cozzi con l'idea che Dio non
può essere un uomo, e tantomeno può essere raffigurato ed immaginato come tale,
perchè è invece l’Esistenza, il
Principio da cui e per cui, ogni cosa nasce e vive.
La soluzione del problema credo possa stare
nella considerazione che non è tanto importante che io riesca a mettere a
fuoco l'idea che Dio è Padre, quanto l'idea, che io sono
Figlio di Dio. Può sembrare un giro di parole: come posso sentirmi figlio, se
non riesco a sentire il Padre?.
Non è così! La situazione dell'uomo nei
rapporti con Dio Padre, a mio avviso, è la stessa del figlio, che non ha mai
avuto la possibilità di conoscere il padre naturale. Immaginiamo un ragazzo che si ritrova in orfanotrofio senza
sapere chi sia suo padre, senza la possibilità di avere neppure una fotografia.
Sa di avere un padre, perchè non può essere diversamente. Ma questi non ha un
volto, se non quello che il figlio riesce ad attribuirgli con la sua
immaginazione.
Tra il padre e lui non c'è, e non ci può
essere, alcun rapporto naturale. Ma, tra
lui e il padre, si sviluppa invece un
rapporto ancora più intenso di quello che i suoi compagni hanno con i loro
genitori. Suo padre è una sua intuizione, con la quale parla continuamente,
alla quale chiede aiuto, chiede consigli in ogni momento della sua giornata.
Suo padre è una presenza viva, dentro di lui, soprattutto nei momenti più
importanti o nei momenti più difficili della vita. Suo padre è l’immagine che
emerge dalla sua profonda nostalgia, per un rapporto che gli consente di
sentirsi più sicuro, più capace di affrontare la vita.
L'intuizione profonda del Vangelo, come ho già
avuto modo di dire, e proprio questa: io sono Figlio di Dio. Ma figlio di Dio,
va sottolineato ancora, non e' un modo di dire, "lo siamo realmente"
ribadisce Giovanni nella sua lettera!" Al contrario, è veramente un modo di essere, un modo di
intuire, e realizzare il rapporto con l'Essere, dal quale è dipesa la mia
nascita, dal quale dipende la mia vita.
La metafora del figlio che non ha conosciuto
il padre, serve anche a ribadire il concetto che si ricava dal Vangelo di Giovanni, d’un Dio che va
ricercato all’interno dell’uomo. Come il figlio che non ha una immagine del
padre, nè in fotografia né nella sua mente, come ricordo, deve ricercare l’immagine nell’intimo del suo
essere uomo, così nella profondità del nostro essere, dobbiamo ricercare Dio.
Ritrovandolo in noi, non ci limiteremo a
pensarlo, a riprodurlo come concetto, ma lo sentiremo «come carne della nostra
carne, sangue del nostro sangue», proprio come il ragazzo sente il padre che
non ha conosciuto.
Se ho perso il padre, che mi guardava
dall’abside della chiesa, per questa strada, ne ritrovo uno, molto più vero,
più mio. Un Dio padre che non si contrappone al Dio esistenza, anzi supera la
freddezza della scoperta di Dio sul piano filosofico, nell’umanità del rapporto
che lega il figlio al padre.
In questo concetto di Dio padre, si evidenzia
come il rapporto del mio esistere con l’Esistenza, non è un rapporto di cui devo
prendere atto, ma è un rapporto che devo sentire, devo vivere. Non è un
rapporto che si ferma al piano
intellettuale, nel momento in cui mi convinco che esiste, ma un rapporto che
deve svilupparsi sul piano sentimentale, diventando ogni giorno più intenso,
più sentito, più autenticamente vero.
Non e’ più
il mio, il rapporto con il Dio dell’abside, davanti al quale devo
inginocchiarmi, nel freddo della chiesa. È invece il mio, il rapporto con un
Dio Padre che, giustamente, Giovanni nella prima epistola dice che «è amore, e
chi vive nell’amore è unito a Dio, e Dio è presente in lui». È il mio il
rapporto d’amore del mio esistere, con l’Esistenza da cui derivo, ed a cui sono
destinato.
Cap. 11
Nicodemo.
Non e' che la strada per la quale mi sono
incamminato risulti agevole. Capire, intuire, sentire di essere figlio di Dio,
sembra quasi impossibile!
Mi trovo forse nella stessa condizione di
Nicodemo che credeva d'aver capito, ma non riusciva ancora a definire che cosa
aveva esattamente capito. Allora, di notte va da Cristo per avere qualche
spiegazione supplementare e si sente dire:
"Credimi
nessuno può vedere il regno di Dio se non nasce nuovamente".
E
Nicodemo, sorpreso da questa affermazione che gli complica, invece che chiarire
quel poco che riteneva di aver capito, chiede ancora ingenuamente:
"Come
e' possibile che un uomo nasca di nuovo quando e' vecchio? Non può' certamente
entrare, una seconda volta, nel ventre di sua madre e nascere?"
Gesù
rispose:
"Io
ti assicuro che nessuno può entrare nel regno di Dio, se non nasce da acqua e
Spirito. Dalla carne nasce carne, dallo Spirito nasce Spirito. Non
meravigliarti se ti ho detto: dovete nascere in modo nuovo. Il vento soffia
dove vuole: uno lo sente, ma non può dire da dove viene, né da dove va. Lo
stesso accade con chiunque è nato dallo Spirito".
Non è che la spiegazione renda più semplice il
messaggio. Cristo contrappone il nascere da acqua e Spirito, al nascere dalla
carne. Se dalla carne è nato il mio corpo, quello che sono e so di essere, cosa
significherà nascere da acqua e spirito?
Forse il nostro errore di fondo che rende
tutto più difficile ed incomprensibile e
proprio quello di voler arrivare a Dio con la ragione!
Dio, al contrario, non si può raggiungere con
la ragione, non può diventare un elemento di quello che so, Dio può solo
diventare oggetto del divenire continuo della mia conoscenza, in un rapporto
diretto con il mio essere, non mediato dalla ragione ma intuito
dall’intelletto, secondo la differenziazione che introduce San Agostino.
Per arrivare a Dio devo ritrovarmi e quindi
rinascere come spirito: come idea del mio esistere. Devo ritrovarmi e quindi rinascere come acqua:
come idea della mia conoscenza in perpetuo divenire.
Dio non si può rinchiudere tra i propri ricordi,
tra ciò che si sa, non può diventare parte del proprio passato, di quello che
si è già acquisito.
Può
sembrare che si forzi l'allegoria, traducendo l'immagine dell'acqua con l'idea
del divenire. Tuttavia non più di quanto la si forza immaginando che
quell'acqua abbia il valore simbolico dell'acqua del battesimo.
Volendo dire che l'uomo deve essere diverso,
per potersi rapportare con Dio, che deve essere spirito e non ragione,
l'immagine che debba essere figlio dell'acqua, invece che della terra, mi pare
un'immagine estremamente comunicativa.
Se l'interpretazione è legittima Cristo dice a
Nicodemo che per entrare nel Regno di Dio e quindi essere ammessi alla sua
conoscenza, è necessario rapportarsi con lui non con la Ragione ma con lo
Spirito, non con il Sapere, ma con la Conoscenza.
Con la Ragione, nella storia più volte si è
tentato di dimostrare l'esistenza di Dio. Ma è già assurdo in sè il fatto che
si sia immaginato un tentativo in questo senso. Come si è già detto, se fosse
possibile comprendere Dio, con la ragione limitata dell'uomo, vorrebbe dire che
Dio è limitato: ed è quindi una contraddizione in termini. Non è possibile
dimostrare l'esistenza di Dio, non fosse altro perchè, Dio in effetti non
esiste, ma E' l'Esistenza.
L'Esistenza è invece intuibile con la nostra
coscienza, con il nostro essere o anima o spirito che dir si voglia. Ed è
questa intuizione che va approfondita, allenando il nostro essere alla
relazione con l'Esistenza, attraverso la preghiera, intesa come riflessione sul
proprio rapporto con Dio.
In questo rapporto si svilupperà la nostra
conoscenza, da non confondere, va sottolineato, con il sapere. Una conoscenza
che non diventa mai un dato, che si rinnova di giorno in giorno che è sempre
nuova.
In questo rinnovarsi continuo della conoscenza
di Dio, attraverso la conoscenza del
proprio esistere si ritrova la bellezza del messaggio evangelico. È in fondo
anche il messaggio di altre religioni, che insegnano all'uomo a rapportarsi in
termini di amore con Dio, a ritrovare Dio, non nell’alto dei cieli, ma nella
profondità del mio cuore di uomo. Dicono ancora le Upanishad:
«Questo
mio sé, situato nel cuore è più piccolo di un granello di riso, o di orzo, o di
sesamo, o di miglio, o del nucleo di un grano di miglio.
Questo
mio sè, situato nel cuore, è più grande della terra, più grande dell’atmosfera,
più grande del cielo, più grande di tutti i mondi.
Ciò
che contiene tutte le opere, tutti i desideri, tutti gli odori, tutti i gusti,
ciò che abbraccia tutto questo mondo, silenzioso, indifferente, e’ questo mio
sè, situato nel cuore. In esso entrerò lasciando questa terra».
Cap. 12
La samaritana.
Se qualcosa non dovesse risultare ancora
sufficientemente chiaro dopo l’incontro con Nicodemo, possiamo rifarci, per un
approfondimento, all’incontro con la samaritana.
Ad un pozzo, Cristo incontra una donna della
Samaria che gli dà da bere. Nel contesto
del colloquio, Cristo esce con due affermazioni estremamente importanti. Ad un
certo punto dice alla samaritana che se lei sapesse chi si trova davanti,
sarebbe lei a chiedere acqua.
La donna osserva:
"Signore,
tu non hai un secchio e il pozzo è profondo: Dove la prendi l'acqua viva?"
Gesù
risponde alla donna:
"Chiunque
beve di quest'acqua avrà di nuovo sete. Invece se uno beve dell'acqua che io
gli darò, non avrà mai più sete: l'acqua che io gli darò diventerà per lui una
sorgente per l'eternità". E poi più avanti Cristo aggiunge:
"Verrà
un ora, anzi è già venuta, in cui gli uomini adoreranno il padre guidati dallo
Spirito e dalla verità di Dio. Dio è spirito chi lo adora deve lasciarsi
guidare dallo spirito della verità di Dio".
Qui evidentemente con la metafora dell'acqua
si riprende il ragionamento sulla conoscenza di Dio.
"Se uno beve dell'acqua della conoscenza
di Dio, che io gli darò, non avrà più sete". Nella conoscenza di Dio, si
appagheranno anche i suoi perchè sul significato della propria esistenza, del proprio destino.
Ma secondo il ragionamento del capitolo
precedente, la sete non sarà appagata dal sapere acquisito, una volta per
sempre. L'acqua che Cristo promette,
non è una rivelazione che si acquisisce una volta per tutte, e che una volta
acquisita, appagherà ogni sete di
sapere. L'uomo invece, non avrà più sete, perchè avrà accanto una "sorgente
per l'eternità'" alla quale potrà bere continuamente, sulla quale potrà
riversare in continuazione, non il bisogno,
ma il piacere di bere.
E più avanti, fuor di metafora, la sorgente
alla quale gli uomini berranno, diventa gli "uomini adoreranno il padre,
guidati dallo Spirito e dalla verità di Dio.
Qui il concetto di conoscenza di Dio come
relazione tra lo spirito dell'Uomo e lo Spirito di Dio, è chiaramente
interpretato attraverso l'uso del verbo "adorare", per cui si può
parlare di conoscenza come preghiera, come contemplazione, come meditazione.
Nella pratica cristiana che io conosco, i
termini più usati sono «pregare», o addirittura «recitare una preghiera», il
termine «adorare» e poco usato e quando lo è, diventa un sinonimo di pregare, o
comunque di pregare con particolare intensità.
Cristo invece spiega che il rapporto dell’uomo
con Dio deve essere il rapporto non di chi chiede, ma di chi beve Dio,
ponendosi in rapporto di adorazione. Un modo di rapportarsi, che ci ricorda da
vicino quello delle religioni orientali, per cui, per capire meglio possiamo
parlare di adorazione di Dio, come meditazione di Dio.
Forse, anche per l’occidentale del duemila,
l'azione del meditare sull'esistenza di Dio, secondo il concetto di meditazione
nelle filosofie orientali, potrebbe essere diventato il modo più adeguato di "adorare
Dio".
Soprattutto se si tiene presente che non si
deve adorare il padre, che è nell’abside o nei cieli, ma il Padre che, come
figli, abbiamo in noi. Il Sé di cui parla la Upanishad citata nel capitolo precedente,
il sé del nostro esistere, che si perde come un atomo nell’infinito del nostro
cuore, ma che contiene l’infinito dell’Esistenza.
La differenza tra chi si riconosce nel Vangelo
e chi non lo accetta, non sta nel fatto che i primi si caricano di rituali,
obblighi e paure che gli altri non accettano e quindi non subiscono, ma nel
fatto che, bevendo della nuova acqua, il cristiano avrà appagata la sua sete,
superata l’angoscia esistenziale. A me, nel catechismo, il messaggio è stato
invece tradotto in altri termini. Io ho imparato che per “seguirlo” avrei
dovuto andare a messa ogni domenica, confessarmi e comunicarmi almeno a Pasqua,
non mangiar carne il venerdì, rinunciare
ai piaceri della corpo…
In quel che mi è stato insegnato, tutto è
banale e meschino. Nel Vangelo ritrovo invece le immagini forti dell’acqua e
della luce che danno la vita. È possibile che la grandezza di queste immagini
sia finita nello stantio odore di muffa d’un confessionale dove, con una
penitenza di tre Pater e tre Ave, vengo rimesso sulla strada della conquista
dell’eternità?
Cap. 13
La Chiesa e il
Vangelo.
Tolstoj nel
saggio "La mia fede", partendo dalla mia stessa premessa di voler
rileggere il Vangelo, prescindendo dalla
interpretazione che ne ha dato la Chiesa, arriva a distinguere nettamente una
dottrina di Cristo, ed una dottrina della Chiesa, normalmente diverse, e spesso
contrapposte.
Il ragionamento paradossale che avrebbe fatto
la Chiesa, secondo Tostoj, e stato questo: la dottrina di Cristo è estremamente
interessante, ma è inattuabile. Ne ha quindi
estrapolata una, più accettabile,
più a misura d'uomo. Tolstoj, rifiutando questa interpretazione prova a rileggere il Vangelo e trova che la chiave di lettura, l'elemento di fondo sul quale si regge tutta la
costruzione del messaggio evangelico, è la frase: "Non opponete resistenza
al male".
Sul
fatto che questa sia la chiave di volta del Vangelo, concorda anche Nietzsche
il quale, su questa constatazione, poggia la considerazione scandalizzata che
non si può non rifuggire da una filosofia che considera "morale
l'incapacità di opporre resistenza".
Tolstoj invece, sostiene convinto che la frase va interpretata alla
lettera, e spiega quindi il Vangelo come
messaggio della non resistenza.
A me pare
che abbiano ragione l'uno e l'altro nel considerare la frase come
centrale rispetto al messaggio, ma sia l'uno che l'altro, la interpretino in termini, all’opposto, troppo radicali.
Ritengo sia possibile una terza
interpretazione. Se mi sono convinto infatti che il modo migliore di vivere
l'esperienza umana è quello di vivere in
uno sorta di stato di innamoramento nei confronti di Dio, della natura, degli
uomini miei fratelli, quando incontrerò qualcuno che vive la sua esperienza
come odio, come invidia, come volontà di male, non mi lascerò trascinare sul
suo campo. Io proseguirò per la mia strada, continuerò ad amare.
Così facendo
diventerà naturale rispondere con
l'amore all'odio, e quindi realizzare il comandamento per il quale Cristo mi chiede di amare anche i nemici. Ma sarà un
fatto conseguente, un persistere sulla mia strada convinto che sia la migliore,
la più alta, senza lasciarmi distogliere da chi vorrebbe portarmi sul suo
piano, a combattere con le sue armi, e quindi a rispondere con l'odio all'odio.
Il concetto viene molto bene espresso da Paolo
nell’inno all’amore, della prima lettera ai Corinzi.
E se avessi il dono della profezia e conoscessi
tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da
trasportare le montagne, ma non avessi l’amore, non sarei nulla.
E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e
dessi il mio corpo per essere bruciato, ma non avessi l’amore, niente mi giova.
Non opporre resistenza al male, non è quindi
un atteggiamento di debolezza come vorrebbe Nietzsche, nè un momento di
abbandono come vorrebbe Tolstoj ma è un atteggiamento di superiorità, che
deriva dalla convinzione che sono io ad essere nel giusto, sono io che vinco,
sono io che sono Figlio di Dio.
Ma perché Tolstoj
può parlare d’una dottrina della Chiesa diversa dalla dottrina di
Cristo? Perché la storia della Chiesa e’ così lontana dall'ispirazione vera del
Vangelo, che pure considera come documento fondante? Perché la storia della
chiesa, fino alle soglie del terzo millennio, è così poco storia della
religione dell'amore?
Perché una religione dell'amore, per sua
stessa definizione, non può essere uno strumento di potere, ma è, al contrario,
un elemento fortemente destabilizzante.
La carica destabilizzante della nuova religione,
era stata compresa appieno dall'impero romano. Da qui, con le persecuzioni, il
tentativo di evitare che il nuovo credo riuscisse a radicarsi. Il problema non
stava tanto nel fatto che il rigido monoteismo, avrebbe eliminato il pantheon dei romani. Nerone non credo si
preoccupasse affatto di come sarebbero finiti Giove e Giunone, capiva invece
che una religione che predicava l'eguaglianza tra gli uomini, metteva a rischio il sistema politico e sociale
romano, basato proprio sullo sfruttamento di questa diseguaglianza tra liberi e
schiavi, tra patrizi e plebei.
Costantino, rendendosi conto che l'Impero
romano non poteva vincere la battaglia, perché troppo velocemente e
diffusamente si stava sviluppando la nuova religione, per la sua capacità di
dare risposta alle aspettative di giustizia così diffuse nel particolare
momento storico, rinunciò a combatterla, trasformandola invece in uno strumento
di potere.
Il cristianesimo così ebbe l’appoggio del
potere politico per diffondersi, ma dovette adattarsi e trasformarsi per
rispondere alle esigenze della politica, diventando uno strumento di potere.
Nello scambio di favori, anche la Chiesa
riuscì ad imporsi come strumento di potere, allontanandosi evidentemente sempre
più dal Vangelo della rinuncia al potere.
Hans Jonas nel saggio provocatorio “Il
concetto di Dio dopo Auschwitz”, si chiede come si possa pensare di ritrovare
Dio nella storia, dopo il massacro senza senso dell'olocausto. Da ebreo osserva
che "l'ebreo di fronte ad un simile interrogativo si trova teologicamente
in una situazione più difficile del cristiano. Infatti per il cristiano, che
attende l'autentica salvezza nell'al-di-là, questo mondo (e in particolare il
mondo umano a causa del peccato di origine) è il mondo di satana, e conseguentemente
un mondo non degno di fiducia. Ma per l'ebreo che vede nell'al-di-qua il luogo
della creazione, della giustizia e della salvezza divina, Dio è in modo
eminente il signore della storia e quindi "Auschwitz", per il
credente, mette in questione lo stesso concetto di Dio, che la tradizione ha
tramandato".
L'osservazione di Jonas andrebbe rovesciata,
con l'aggravante per i cristiani, che il nostro mondo è quello del Messia, che
si è già rivelato, che ha già portato la giustizia tra gli uomini. La scusante che
Jonas riconosce ai cristiani, è il presupposto per il quale il cristianesimo è
diventato l'elemento forte d'un sistema di potere tutt’altro che cristiano.
Attraverso l'alibi dell'aldilà si giustifica ogni sorta di comportamento
negativo: se il mondo dei giusti e quello dopo la morte, è quasi scontato che
il mondo della vita sia un mondo dell'ingiustizia.
Prima di Auschwitz nel nome della croce del
Dio dell'amore, c'era già stato l'olocausto dell'inquisizione, nello stesso
nome c'è stato l'olocausto degli indigeni dell'America latina o degli schiavi
dell'Africa, con l'alibi magari che, solo troppo tardi, si è scoperto che anche
loro avevano un'anima. Anche Auschwitz, del resto è stato giustificato in qualche modo per vendicare la croce, e
comunque è stato realizzato da cristiani.
Come può essere avvenuto? Perché non si poteva
che stravolgere la dottrina di Cristo, della liberazione dell’uomo, volendola
utilizzare per puntellare sistemi di potere contro l’uomo. E così
nell’interesse del «potere temporale», invece di testimoniare il Vangelo, in
nome di Cristo che ha predicato la fratellanza tra tutti gli uomini, si sono
benedetti gli stendardi degli uomini che
volevano uccidere altri uomini.
Ma si potrà arrivare a conciliare la dottrina
di Cristo con la dottrina della Chiesa? A mio avviso il fatto nuovo dei nostri
tempi è la possibilità per il cristianesimo
di tornare ad una interpretazione autentica del Vangelo.
Paradossalmente
mentre si utilizzava il Vangelo della liberazione degli uomini, per rendere gli
uomini schiavi di nuove paure, di nuovi precetti, l’umanità riusciva a
liberarsi per altra via. Attraverso l’illuminismo e la rivoluzione francese, in
contrasto con la Chiesa, si sono imposti i principi di libertà, uguaglianza e
fratellanza, cioè i principi che ispirano il Vangelo. Oggi si può dire che quei
principi si siano affermati, (almeno nel senso che vengono unanimemente
accettati), anche se non sono ancora entrati nelle coscienze, non informano di
sé la società e le strutture che la governano.
Riscoprirli nel Vangelo potrebbe essere un
modo per favorirne l’affermazione, unendo ragione e religione nella liberazione
dell’uomo come individuo, in una società veramente democratica.
La coincidenza per la prima volta della teoria
politica dell'uguaglianza, con la rivelazione evangelica dell'uguaglianza,
consente di immaginare l'aprirsi d'un era nuova. L’era d’una vera democrazia, per la quale gli uomini si
autogovernano sapendosi uguali, e si
riconoscono uguali, malgrado le evidenti
differenze tra loro, nel fatto di essere tutti figli di Dio. L'aggettivo
«cristiana» potrebbe dare quindi un
senso profondo allo stesso termine di democrazia, rendendolo più credibile, più
possibile.
Il termine cristiano può dare un senso profondo e definitivo, alle motivazioni
per le quali gli uomini devono costruire un sistema organizzativo che consenta
di vivere il momento della storia, per prepararsi alla prospettiva
dell'eternità.
Non penso ad una sorta di comunismo cristiano,
dove tutto viene appiattito nell’egualitarismo degli ultimi. Penso al contrario
ad una società animata da un forte spirito di competizione, nella quale ogni
figlio dell’uomo è chiamato ad esprimersi al massimo, senza tuttavia mai
dimenticare, di essere allo stesso tempo figlio di Dio. Una famiglia di
diseguali, con caratteri diversi e diverse capacità, ma una famiglia che
nell’amore fraterno sa trasformare la
diversità in valore.
Cap. 14.
La vita eterna.
Le
riflessioni sviluppate fino a questo punto, sono ancora tutte secondarie e
marginali rispetto all’obiettivo di fondo che m’ero posto nella introduzione:
quello di ricercare quale sia il senso della mia vita.
La risposta che viene dal Vangelo di Giovanni
è che la vita dell’uomo trova un senso nella vita eterna, che gli spetta in
quanto figlio di Dio. Il senso quindi della mia presenza, come un breve respiro
nella storia dell’umanità, è che questo respiro è destinato a restare per
sempre, al di fuori della storia, nell’Infinito.
Ma su quali elementi possiamo fondare la nostra convinzione di essere destinati
alla vita eterna?
«Io sono la resurrezione e la vita, chi vive e
crede in me non morirà in eterno»: dice Cristo a Marta che piange la morte del
fratello Lazzaro. Per capire il senso dell’affermazione è importante
ricostruire il contesto nel quale viene pronunciata.
Siamo all’episodio della resurrezione di
Lazzaro. Cercando di confrontare le versioni dei quattro evangelisti per
ricostruire meglio il fatto, si scopre che è riportato solo da Giovanni. Evidentemente
la sorpresa è grande, perché non può essere considerato uno dei tanti miracoli!
Potrebbe essere considerato il miracolo, per così dire, più «spinto», visto che
Lazzaro era morto già da quattro giorni. Ma doveva aver avuto anche un rilievo
particolare, nella memoria degli apostoli, perché Lazzaro, Marta e Maria erano
amici di Cristo, e quindi anche loro amici. Perché dunque solo Giovanni l’ha
riportato?
Potrei andare a ricercare le risposte che si
sono certamente date tanti studiosi, e forse troverei anche una risposta
razionalmente esauriente. Ma come ho detto più volte, non mi sono posto
l’obiettivo di ricostruire la veridicità del racconto evangelico. Al limite,
che sia vero o inventato il racconto, non sposta niente ai fini del messaggio
che Giovanni ha voluto lasciarci, attraverso il racconto.
Se fosse vero, Dio avrebbe reso possibile un
fatto per rendere comprensibile il messaggio che dal fatto si ricava, se invece
l’avesse inventato Giovanni, l’avrebbe inventato allo stesso modo, al fine di
trasmettermi un messaggio.
E’ il messaggio che mi interessa, non il come
il messaggio mi è stato lasciato! È il messaggio che mi interessa, soprattutto
in questo caso, in cui la rivelazione si riferisce alla vita eterna, cioè
riguarda l’obiettivo di fondo di tutta
la mia ricerca.
Cercando di capire il «contenuto» del racconto
non ci si può non porre una domanda preliminare. Perché, o nella realtà o nel racconto, Cristo
ha resuscitato un amico dalla morte, dal momento che lui è venuto al mondo per
insegnarci che la morte non esiste, che
in realtà è la nascita alla vita eterna?.
Che si sia commosso per la morte è
comprensibile, perchè comunque il distacco da un amico che parte, è motivo di
dolore, anche se sappiamo che avremo modo di rivederlo. Ma che abbia deciso di
riportarlo dalla vita eterna alla vita mortale, non è un controsenso? Che cosa
ha voluto dimostrare con questo gesto?
Il racconto di Lazzaro di solito ci viene
presentato tralasciando la premessa, che
forse è invece il caso di ricostruire, per vedere se ci consente di entrare nel
significato vero del racconto.
Quando Gesù seppe che Lazzaro era ammalato
disse:
«Questa
malattia non porterà alla morte, ma servirà a manifestare la gloriosa potenza
di Dio, e quella di suo Figlio».
Aspettò
due giorni poi disse:
«Il
nostro amico Lazzaro si è addormentato ma io vado a risvegliarlo».
Ai
discepoli che obiettavano: «se si è addormentato guarirà», aggiunse:
«Lazzaro
è morto, sono contento per voi che non eravamo la, così crederete. Andiamo da
lui».
Quando
giunsero alla casa di Lazzaro, questi «era nella tomba già da quattro giorni».
A
Marta che gli dice: «Se tu fossi stato qui mio fratello non sarebbe morto».
Cristo risponde:
«Chi crede in me anche se muore vivrà, anzi chi
vive e crede in me non morirà mai».
Il fatto che poi usi dei suoi poteri per
richiamare in vita l’amico, (dopo averlo lasciato morire per poterlo
“risvegliare”), mi pare evidente ha il solo scopo di dimostrare proprio, quasi
come in una rappresentazione teatrale, che la morte non esiste: è vero che
Lazzaro è morto, che il suo cadavere è già in putrefazione, ma è vero anche
che, nello stesso tempo, lui è vivo». La scena viene preparata, lasciando che
Lazzaro muoia, lasciando che passi del tempo dopo la morte prima di
intervenire, per poi risolvere la tragedia, nella dimostrazione che in verità non è morto, che vive ancora.
Appunto perché «chi crede in me, anche se muore, vivrà.
A
proposito della vita eterna c’è un’altra stranezza nei vangeli: ne parla solo
Giovanni! Gli altri parlano piuttosto del Regno di Dio, usando parabole nel
quale il Regno è visto come una festa, un banchetto.
Questo elemento ci conferma nella giustezza
della scelta che s’è fatta, di fermarsi al Vangelo di Giovanni. Qui il
messaggio è più diretto, essendo rivolto ad un pubblico più preparato, ha una
necessità minore di ricorrere a metafore ed a parabole.
Anche il concetto della vita eterna, al di là
del racconto di Lazzaro, (nel quale comunque l’idea della vita eterna viene
affrontata con affermazioni assolutamente esplicite), viene ripreso altre
volte, con affermazioni altrettanto dirette, che chiariscono in che cosa
consista, e come si raggiunga la vita eterna.
«La vita eterna è questo, conoscere te,
l’unico vero Dio». Sulla base della distinzione che s’è introdotta tra sapere e
conoscenza, è logico pensare che dopo una vita passata a conoscere Dio, con la
mediazione dei sensi, si possa entrare nel sapere di Dio, che è eterno. Ma il
sapere sarà in relazione al livello di conoscenza che si è acquisito. Da qui il
senso della vita terrena, come momento propedeutico finalizzato ad acquisire il
livello di conoscenza che determinerà il livello di rapporti nell’eternità.
Chi nella vita terrena ha sviluppato una
conoscenza esclusivamente in rapporto con le cose, quando gli vengono a mancare
le cose, ha evidentemente una conoscenza nulla. E nulla sarà la sua vita senza
le cose!
Chi invece ha saputo usare delle cose per
sviluppare la conoscenza di Dio. Quando perde le cose, mantiene la conoscenza.
Come l’atleta che ha utilizzato gli attrezzi della palestra per migliorare la
sua forza, quando esce dalla palestra non ha più gli attrezzi, ma ha la forza.
Un amico informatico con il quale discutevo
della possibilità logica di ammettere il passaggio dal temporaneo all’eterno, in
modo che nell’eterno si potesse utilizzare quanto acquisito nel contingente, mi
ha suggerito la parabola del chip senza periferiche.
Il computer ha una memoria, che può essere
utilizzata in tutto o in parte, caricando software cioè dati o programmi per la
gestione dei dati. Per farlo c’è bisogno dell’hardware, che consente di
acquisire gli input, i dati. Se, ad un certo punto, immaginiamo che vengano
staccate tutte le periferiche di input, si blocca per il computer la
possibilità di acquisire ulteriore conoscenza, può colloquiare in rete soltanto
con gli altri computers che sono compatibili con lui, perchè hanno lo stesso
livello di software, lo stesso grado di
conoscenza.
Con una immagine che si rifà ai films di
fantascienza, potremmo pensare ad un universo nel quale vengono prodotti in
continuità dei microchips con una capacità di memoria infinita. Questi, per un
periodo variabile, vengono calati nel mondo dell’input, all’interno d’un corpo dotato di periferiche,
che consente loro di restare impressionati con immagini, ma soprattutto
con parole e concetti. Si staccano
infine dall’hardware per ritrovarsi nell’universo dell’outpout, ove è possibile
utilizzare soltanto il software acquisito, creando delle relazioni con quelli
che hanno la stessa possibilità di linguaggio.
Se Dante dovesse riscrivere la Divina Commedia
alla luce delle attuali conoscenze informatiche e telematiche, potrebbe
immaginare un al di là nel quale i gironi vengono sostituiti da intranet
virtuali, differenziate dal grado di comunicabilità all’interno della intranet
e con Dio, cui tutte le intranet fanno capo.
Dall’intranet più bassa, dove non c’è
comunicazione, ove finiscono gli uomini che non hanno acquisito capacità di
comunicazione, se non con le cose, ed ora si trovano condannati
all’impossibilità d’un rapporto tra loro e con Dio, fino a quella di coloro che
hanno acquisto in massimo grado la capacità di amare, sia gli uomini che Dio, e
che ora godono eternamente di questa capacità di amore e di relazione tra sè e
con Dio.
Se la vita eterna è conoscere Dio, per
ottenere la vita eterna, è indispensabile «riconoscere il figlio e credere il
lui». Ma il riconoscimento non deve restare un fatto intellettuale.
Conoscere Dio non può significare soltanto
ammettere che esiste e programmare la propria vita per dedicargli alcuni
ritagli del proprio tempo: un po’ di più la domenica, meno nei giorni feriali.
Conoscere
Dio deve diventare il modo di essere e di vivere di chi si riconosce figlio
d’un Dio che è dentro di lui, con il quale convive ogni momento della sua vita,
e del quale si nutre continuamente, perché «solo se uno mangia di questo pane,
cioè del pane di Dio che viene dal cielo e dà la vita eterna, vivrà per
sempre.»
Cristo
ribadisce più volte: «Io, in quanto figlio di Dio, sono il pane vivo disceso
dal cielo, chi mangia di me, cioè assimila la convinzione d’essere figlio di
Dio, come sono io, acquista la sensibilità che gli consentirà di vivere la vita
eterna.»
Qualcuno potrebbe considerare la parafrasi
troppo forzata. Credo di no. Credo che questo sia il senso più profondo del
messaggio evangelico: l’uomo sviluppa la sensibilità del suo esistere come
«figlio» dell’Esistenza, per potere vivere eternamente l’Esistenza.La stessa
sensibilità si sviluppa nel rapporto d’amore con gli altri.
Un’altra delle chiavi d’interpretazione del
messaggio evangelico è quella che Matteo sintetizza nell’affermazione “in
verità vi dico, tutte le volte che avete fatto ciò ad uno dei più piccoli dei
miei fratelli l’avete fatto a me”. Cristo non ha detto “è come se l’aveste
fatto a me”, ma proprio “l’avete fatto a me”. Infatti se è in me l’essere
figlio di Dio, lo è anche negli altri miei simili, e come posso trovare Dio in
me così lo trovo in loro.
È questo, quello che è in me e nel prossimo,
il Dio nel quale devo vivere e credere per avere la vita eterna, secondo la
promessa: “Chi vive e crede in me non morirà”.
Ma in conclusione, al di là delle citazioni,
alla fine di questo capitolo, centrale per la mia riflessione, perché cerca di
rispondere alla domanda di fondo sulla possibilità di una vita oltre il corpo,
che dia un senso a questa breve vita con il corpo, posso dire d’avere trovato
una risposta?
Credo di si, penso sia credibile che la
coscienza del mio esistere che si è sviluppata attraverso la conoscenza del mio
esistere in rapporto con l’Esistenza, possa vivere anche senza il mio corpo, in
una dimensione diversa “trasformata” come dice S.Paolo.
Cap. 15.
La società
dell'amore.
Nel
capitolo precedente si è accennato al fatto che il rapporto tra i seguaci del
Vangelo deve essere un rapporto d’amore, ma è immaginabile una società che viva
alla lettera il comandamento dell'amore, che non opponga resistenza al male?
Tolstoj, nel saggio che ho ricordato, pensa di sì, deduce i comandamenti secondo
i quali dovrebbe vivere questa società, ed interpreta il Vangelo in modo da
ricavare questi comandamenti, arrivando a conclusioni rivoluzionarie,
destabilizzanti per qualsiasi sistema politico esistente.
Ritenendo possibile una perfetta società
dell’amore, si finisce per sconfinare nell'utopia, ed immaginare soluzioni che,
valide dal punto di vista teorico, non
riescono però ad incidere, (perchè troppo radicali), sulla realtà che stiamo
vivendo. Non ritenendolo possibile invece, come obietta ancora Tolstoi,
corriamo il rischio di mettere da parte il Vangelo per costruirci un
cristianesimo a misura delle nostre esigenze personali, e delle esigenze
politiche della Chiesa in un determinato momento storico.
Io credo che la risposta stia ancora nel
Vangelo di Giovanni, che ricorda come Cristo, nell'ultima cena, insistentemente
abbia pregato il Padre per i discepoli, che avrebbe lasciato soli a continuare
a vivere l'esperienza del mondo:
"Ti prego perché siano una cosa sola, ti
prego, di proteggerli dal Maligno, di fare che appartengano a te mediante la
verità'".
Non è un dato di fatto. È un obiettivo così
importante, ma allo stesso tempo così difficile e arduo, da dover impegnare
l'intervento di Dio. È l'obiettivo finale dell'umanità, sul quale Cristo
impegna il Padre, ma la storia che segnerà il cammino verso questo obiettivo,
sarà segnata dalla lotta tra il bene e il male.
È l'obiettivo finale d'ogni uomo, al quale
ogni uomo giunge attraverso la lotta che si combatte in lui, tra il Figlio
dell'Uomo e il Figlio di Dio. Così, la
storia dell'umanità, come d'ogni uomo, è la storia della tensione verso il
bene, verso la luce, in un percorso nel quale spesso sembra riescano a
prevalere le tenebre.
L'importante è, come diceva Voltaire, che
facciamo in modo che il nostro, possa essere considerato il migliore dei mondi
possibili, che il nostro modo di essere nel mondo, sia il migliore dei modi
possibili di vivere l'esperienza umana, in una continua tensione verso una
perfezione, che, in quanto tale, può solo restare un ideale, un obiettivo
ultimo.
Ciò che deve trovarci convinti, è la strada
dell'amore indicata dal Vangelo: è la strada migliore, è quella che meglio
risponde ai nostri interessi di uomini. Deve diventare la strada che ci
consente di crescere di sviluppare la nostra sensibilità, in un mondo che
sempre più saprà apprezzare ciò che è veramente bello e grande, e nel quale,
quindi, si trovano sempre più a loro agio le persone sensibili. La società
dell’amore è possibile, se gli uomini
impareranno, come dice Hesse, a mettersi in relazione come anime e non come
oggetti.
Ma
quale, infine, dovrà essere il rapporto del cristiano con la società che
lo circonda? Dovrà lasciare ogni cosa per seguire Cristo? Nel Vangelo di
Giovanni non troviamo la famosa frase, (che si trova solo in Matteo e Luca)
detta da Cristo ad un potenziale discepolo, che chiedeva di poter seppellire il
padre, prima di mettersi a seguirlo:
"Lascia che i morti seppelliscano i
morti!"
Luca aggiunge un'altra frase, data in
risposta alla persona che invece
chiedeva di poter andare a salutare i parenti prima di mettersi a
seguirlo:
"Chi si mette all'aratro e poi si volta
indietro, non è adatto per il regno di Dio"
A mio avviso è quest'ultima frase che può
consentirci di capire il messaggio. Il problema non è se si possa seppellire il padre o salutare i parenti
prima di seguire Cristo, il problema è che si deve fare l'una e l'altra cosa,
avendo in testa di servire Cristo, servendo il figlio di Dio in noi.
Per spiegare il concetto infatti, Cristo
aggiunge: «Chi si mette all'aratro e poi si volta indietro è meglio che lasci
perdere.» Chi si mette all'aratro, deve avere chiaro l'obiettivo, deve guardare
davanti a sè, al solco che deve tracciare.
Chi si innamora veramente non ha bisogno di
chiedere come comportarsi, viene travolto dal sentimento, vive in funzione
della persona amata, ed anche facendo le altre cose che deve fare, non perde
mai di vista quello che è diventato per lui l'obiettivo principale.
Ma che cos’è l’amore? Sembra una domanda retorica,
tutti diamo per scontato infatti di conoscere il significato del termine. Ma
non e’ così! La società cristiana dell’amore è la società nella quale ogni uomo
ama Dio, e gli altri uomini. Ma cosa significa veramente amare Dio? Si può
usare, per definire il rapporto con Dio, lo stesso termine che si usa per
definire il rapporto con gli uomini? Amare una donna e’ già così diverso da
amare i genitori, e, amare Dio, cosa vorrà dire veramente?
Persa l’idea del Dio dell’abside verso il
quale riuscivo a sentirmi in qualche modo in un rapporto filiale come di fronte ad un ritratto mal riuscito di mio
padre, che senso ha dire ora che devo amare l’Esistenza? Che rapporto
sentimentale posso attivare con il Dio che è l’Infinito?
Ma la rivelazione, come si e’ già detto nel capitolo precedente, è
che attraverso il mio esistere di figlio dell’Esistenza, io devo pensare
all’Esistenza. Devo quindi amare il mio esistere per amare l’Esistenza. E se
nei confronti del mio esistere, il rapporto d’amore può svilupparsi nel senso
più pieno e pregnante del termine, allo stesso modo può svilupparsi nei
confronti dell’Esistenza che ritrovo nel mio esistere.
L’amore è
pieno quando il soggetto riesce a far proprio, a portare dentro di sè l’oggetto
amato, realizzando l’unità: sarete due in una carne sola. Allo stesso modo con
il Padre:
«Io vivo unito al padre, e voi siete uniti a
me ed io a voi».
L’esistere è nell’Esistenza, ritrovandomi in
un rapporto d’amore con il mio esistere, vivo allo stesso tempo l’amore con
l’Esistenza. Sono concetti che sembrano freddi, che non riescono a coinvolgere!
Ma è solo perchè le incrostazioni culturali ostacolano la nostra possibilità di
viverli.
Ci sono stati comunicati perchè impariamo a
viverli. «Vi ho detto questo, perchè la mia gioia sia anche la vostra, e la
vostra gioia sia perfetta».
Cap. 16.
La libertà.
Prima di entrare in quello che sarà il tema
della seconda parte della riflessione, e cioè su quale possa essere la strada
per diventare figli di Dio, e meritare la vita eterna, ritengo indispensabile
una premessa sulla libertà data all’uomo di salvarsi, e sull’aiuto che gli
viene prestato per raggiungere la salvezza.
Nell’Eden, si è già visto, decidendo di
prendere il frutto dall’albero della conoscenza del bene e del male, Adamo ha
deciso di vivere da uomo: libero di fare il male o il bene, libero di
scegliere. Libero quindi di salvarsi ma anche di perdersi.
Come può un Dio buono aver dato la possibilità
all’uomo di perdersi? Come è possibile che un Dio buono abbia messo l’uomo
sull’orlo del precipizio, pur sapendo che è come un bambino incapace di vedere
il precipizio?
Ci ritroviamo in un altro mistero, quello
della provvidenza di Dio. in relazione con libertà dell’uomo. A questo si
collega l’altro della predestinazione per il quale l’uomo si ritroverebbe nella situazione
paradossale di vivere un percorso già segnato, credendosi libero, ma in effetti
condizionato dall’esterno, ed a priori, in ogni sua azione.
Una possibile risposta. può essere trovata
riprendendo il concetto che Dio non è esistente, ma è l’Esistenza. Dio è
l’Essere, il mondo il divenire.
Ciò che diviene deve essere libero di
divenire, nello spazio (alto o basso) nel tempo (giovane o vecchio) ma anche in
rapporto all’Essere (vicino o lontano). L’essere è positivo (buono) ma il
divenire può allontanarsi più o meno dall’essere e diventare quindi più o meno
buono. La libertà del divenire di allontanarsi non può essere addebitata
all’Essere.
Jonas cercando di spiegarsi come si possa
immaginare che esista Dio dopo l’esperienza di Auschwitz, come si possa
accettare che nella sua bontà abbia potuto ammettere, senza intervenire, le
atrocità cui ha potuto arrivare l’uomo,
propone l’idea di «un Dio che per l’epoca del processo cosmico, ha abdicato ad
ogni potere di intervento nel corso fisico del mondo».
Con la creazione, la Divinità, con un atto di
autoalienazione, ha consentito di non essere più assoluta, autolimitandosi a
vantaggio di un essere finito, capace di autodeterminare se stesso. È come se
il Dio infinito, avesse accettato di ritirarsi per una parte, lasciando posto
ad un mondo finito, nel quale non sarebbe più coinvolta la sua onnipotenza.
La creazione è determinata, ma all’interno
della creazione, ad un elemento della stessa, l’uomo, è stata data la libertà di distinguere tra il bene ed il
male, di vivere più o meno lontano da Dio e quindi di autodeterminarsi.
La libertà e’ ciò che distingue l’uomo
dall’animale e lo rende «simile a Dio», figlio di Dio. Ma come dice Cristo è
solo la verità che fa l’uomo libero. Chi non sa, non è libero di scegliere! La
verità che Cristo è venuto a portare agli uomini, è che la loro esistenza non
si conclude, come quella degli animali, con la morte. Gli uomini al
contrario, sono, o possono
diventare, figli di Dio, ed in quanto
tali destinati alla vita eterna.
L’uomo ora sa, ma può continuare a vivere da
animale, costringendo anche chi vive da uomo, a vivere in mezzo agli animali, a
subire la ferocia delle belve di Auschwitz.
Ma se un padre costringesse il figlio a non
allontanarsi per non correre rischi, non sarebbe un buon padre. Buono è il
padre che consente al figlio di vivere la sua libertà, dopo averlo formato a
riconoscere la verità.
E Dio ha
mandato all’uomo il figlio per insegnargli a vivere da figlio di Dio, ed ha
anche lasciato all’uomo lo Spirito, per ricordargli continuamente quale è il
modo più giusto di comportarsi, nel suo interesse, che è quello di essere uomo, figlio di Dio, e non certo un bipede
animale.
Riprendendo
ancora dalla Genesi, si potrebbe notare che nell’Eden c’erano due alberi che
l’uomo non avrebbe dovuto toccare: quello della conoscenza del bene e del male
e quello della vita eterna.
Prima di
cogliere il frutto di quegli alberi l’uomo era come un animale, libero in
quanto dipendente soltanto dal suo istinto individuale, immortale perchè non
avendo la coscienza di sè non aveva la coscienza della propria finitezza e
quindi della morte. Nell’evoluzione della specie aveva già raggiunto la
possibilità di comunicare e così aveva dato un nome a tutti gli elementi del
creato. Nel passaggio successivo dell’evoluzione, raggiunge la coscienza di sé
e quindi la possibilità di decidere.
L’enfasi che è stata data nell’interpretazione
della Bibbia alla conoscenza del bene e del male, ha fatto perdere, a mio
avviso, l’idea che la scoperta nascosta nell’allegoria del frutto proibito, è, prima di tutto,
quella della conoscenza, e in particolare della conoscenza di sé. È questa la
conoscenza che è impedita all’animale, ed è questa conoscenza che stabilisce la
differenza tra l’animale e l’uomo.
Conoscenza
di sé è conoscenza dell’altro da sé e quindi scoperta della diversità (si
accorsero di essere nudi e vollero coprirsi), e quindi scoperta della
limitatezza delle singole entità. Libertà di muoversi e rapportarsi con queste
entità ma nella finitezza dello spazio, nella limitatezza del tempo e quindi
scoperta della propria morte. La libertà di conoscere e quindi di sentirsi
vivi, diventa la condanna del sapere di dover
morire.
Con Cristo
infine, l’uomo fa un ulteriore passo nella propria evoluzione, scopre la
libertà di potersi ricongiungere con l’esistenza nella coscienza di poter
superare la propria finitudine in quanto momento dell’esistenza. Il momento
dell’esistenza può risolversi nell’Esistenza per vivere nell’eternità.
Cap.
17.
Lo
Spirito Santo.
Per suggerire all’uomo come fare un uso
corretto della libertà, come si è già detto, Dio ha voluto che il Figlio
Unigenito diventasse figlio dell’uomo.
C’erano già stati
i profeti ad indicare la strada. Ma le parole non erano bastate. Era dovuto
intervenire Cristo che alle parole aveva aggiunto l’esempio.
Ma anche l’esempio di Cristo, collocandosi in
un preciso momento storico, poteva essere ricondotto ad un fatto storico, da
interpretare, da discutere sotto molteplici aspetti, ma come qualcosa di finito
nel tempo, senza la forza di incidere sulla vita e sui comportamenti. L’uomo
aveva bisogno di qualcosa che restasse con lui per sempre e per sempre gli
ricordasse la sua essenza di figlio di Dio.
Se Cristo è Dio che si manifesta nella storia,
lo Spirito è Dio che resta con l’uomo nel tempo. (Oppure, se Cristo rappresenta
la scoperta da parte dell’uomo della realtà di figlio di Dio, in un preciso
momento storico, lo Spirito rappresenta la stessa scoperta nella continuità
della storia dell’umanità, nella individualità di ogni uomo).
«Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro
difensore che starà sempre con voi, lo spirito della verità».
«Chi ha sete venga a me e beva ! Come dice la
Bibbia da lui sgorgheranno fiumi di acqua viva. Gesù diceva questo pensando
allo spirito di Dio che i credenti avrebbero poi ricevuto».
Alla samaritana Cristo aveva detto di essere
la fonte d’acqua viva che avrebbe tolto definitivamente la sete. Qui si riporta
la stessa allegoria, ma si precisa poi che deve intendersi riferita allo
Spirito.
Cristo nella storia, lo Spirito nel tempo sono
l’acqua data all’uomo per ristorare la sua sete di conoscenza: «lo spirito
della verità, che il mondo non vede e non conosce e che quindi non può
ricevere, mentre voi lo conoscete perché è con voi e sarà con voi sempre».
Una parabola credo indiana, racconta di come
Dio, dopo aver completato l’opera della creazione, compiacendosi del risultato, aveva deciso di
vivere nel mondo. Si aspettava qualche apprezzamento dal creato, ma fu subito
deluso. Imparo’ anche lui che, a lavorare per gli altri, non si guadagna
neppure il grazie! Anzi, cominciarono a piovergli critiche da tutte le parti.
Ogni giorno. Che dico? Ogni minuto, c’era qualcuno o qualcosa che veniva a
lamentarsi, a criticare, a suggerire dei cambiamenti.
Dio, esasperato, chiamò lo Spirito e gli
chiese consiglio su dove nascondersi, per evitare la turba petulante dei
saccenti. Pensarono alle montagne più alte, ma poi capirono che l’uomo sarebbe
arrivato senz’altro fin lassù, spinto dalla brama di contestare. Pensarono alle
profondità dell’oceano, ma l’uomo sarebbe riuscito senz’altro a trovare un
mezzo per scendere fin laggiù, con i suoi suggerimenti, non richiesti.
«Entra con me, all’interno dell’uomo», gli
suggerì infine lo Spirito «puoi essere certo che lì dentro non verrà a
cercarti». La favola, liberamente riportata, come tutte le favole ha
evidentemente una morale, ed è per
questa morale che mi è rimasta nella
memoria.
La vita eterna non si conquista attraverso un
complesso di opere da compiere. Non c’è un elenco di regole da rispettare, una
tavola di comandamenti cui doversi adeguare.
«Chi riconosce
il figlio di Dio in sè e crede in lui avrà la vita eterna».
«Chi ascolta
ciò che gli dice il figlio di Dio che è in lui, e crede nel padre che lo ha
mandato, avrà la vita eterna».
C’è quindi un’unica strada: quella di
riconoscere ed ascoltare il figlio di Dio che è in noi, e per facilitarci la
relazione, sempre in noi, c’è un mediatore: lo Spirito.
Siamo stati talmente abituati ad
esternalizzare questi concetti, ed a personificarli, che il riferimento allo
Spirito, ci porta subito alla colomba che il Battista ha visto sopra il Cristo,
a indicare che era lui il Messia.
Quando diciamo quindi che lo spirito è l’aiuto
che ci è stato dato per riconoscere più facilmente il figlio di Dio, ci
mettiamo in attesa per vedere dove la colomba si posi per il riconoscimento.
Non ci sono colombe! C’è invece un passaggio
logico molto semplice. In me c’è una componente che sento diversa dal corpo,
che è la coscienza del mio esistere e che chiamo Spirito. Portando il mio
pensiero sul mio spirito, mi apro all’idea che questo spirito sia partecipe
(figlio) dell’Esistenza, nella quale io stesso sarò assorbito, se imparerò a
vivere ascoltando l’Esistenza, che mi parla attraverso il Figlio, che è vissuto
da uomo nella storia e che vive in me come Spirito.
Lo
Spirito ci aiuta a comprendere e vivere la nostra realtà di figli di
Dio, a entrare nel nostro esistere, per riconoscere l’Esistenza.
Cap. 18.
Chi ama la sua vita
la perde.
Dopo
aver cercato di convincermi, nella prima parte, che l’uomo può in effetti
diventare figlio di Dio e ottenere la vita eterna, in questa seconda parte mi
pongo il problema di cercare di
capire che cosa si può e deve fare,
sempre secondo il Vangelo di Giovanni, per diventare figli di Dio, ed ottenere
la vita eterna.
La prima parte della riflessione si è chiusa
con un appunto sulla società predicata
dal Vangelo, come società dell’amore. Il problema è ora capire, in questa
seconda parte, come si può realizzare questa società, nella quale dovrebbe
dominare l’amore.
Ma la ricerca nel Vangelo di Giovanni di
suggerimenti su come comportarci, su che cosa fare, su quali comandamenti
seguire, resta senza risultati.
C’è un solo comandamento, una sola regola!
«Che vi amiate gli uni e gli altri come io vi ho amato», e un invito pressante,
ripetuto con insistenza, perché ci sforziamo di conformare la nostra vita a
questo comandamento.
Poi ad un tratto, continuando la ricerca, non
prevista e non prevedibile, quando credi di essere già arrivato a delle
conclusioni, ti si para davanti una
frase sconvolgente:
«Chi ama la
sua vita la perde.
«Chi
odia invece la sua vita in questo mondo, «la conserva per la vita eterna.»
Mentre pensavo di aver scoperto che il Vangelo predica una vita da vivere in
positivo, la vita che un Dio buono, un Dio-Padre ha voluto per i suoi figli,
questa affermazione di Cristo, mi si mette contro come un macigno che ti cade sulla strada per obbligarti a tornare indietro, a
rivedere tutte le conclusioni a cui credevi di essere arrivato.
Per cercare di capire il senso di una frase,
così perentoria ed assurda allo stesso tempo, mi rivolgo alla versione latina,
per vedere se l’interpretazione dei traduttori ha stravolto il senso originario
dell’affermazione. In effetti il testo latino parla di «anima» e non di «vita»,
ma la diversità dei termini in un certo senso aggrava l’assurdità del concetto:
non solo devo odiare la «vita» devo odiare addirittura «l’anima», l’essenza
stessa della vita..
Con l’una o con l’altra versione il senso
sembra inequivocabile: per seguire Cristo bisogna odiare la propria vita e
quindi evitare tutto quello che dà piacere, per seguire la strada del
sacrificio, della penitenza e del cilicio! Non basta più soltanto abbandonare
ogni cosa, è necessario anche vivere la propria esperienza umana in termini di
sofferenza!
Anche qui credo, probabilmente, il problema è
quello di trovare la chiave di interpretazione. A mio avviso, per comprendere
nell'esatto significato la frase è necessario tornare alla chiave di
interpretazione del Vangelo, per quanto riguarda il rapporto uomo-Dio. Ci si
deve richiamare alla distinzione che si
è introdotta, sul fatto che Dio non può diventare sapere, ma deve restare
conoscenza.
Come Dio non è ciò che so, ma ciò che cerco di
conoscere sull’Infinito, così l’io non deve essere ciò che sono ed ho, ma ciò
che voglio avere e diventare. Con lo stesso schema logico io devo quindi
evitare di amare quello che ho e quello che sono, per amare invece, quello che
posso avere o posso diventare.
Il concetto viene rafforzato con l’invito a
disprezzare ciò che sono, per riconoscermi e proiettarmi esclusivamente in ciò
che vorrei essere. Alla fine della mia giornata io guardo con distacco ai
risultati che ho conseguiti, guardo invece con amore agli obiettivi che mi
pongo per il giorno dopo. Obiettivi che
riguardano non le cose, ma il rapporto con le cose, obiettivi quindi non del
mio corpo, ma del mio spirito.
E’ vero che il quanto ho, non è ininfluente su
come guardo a quello che ho. Per cui per non correre il rischio di
condizionamenti, S. Francesco ha abbandonato ogni cosa, o, come ricorda Cristo,
entra più facilmente un cammello per la
cruna d’un ago, che non un ricco nel regno dei cieli. Ma è anche altrettanto
vero, e per certi versi emblematico, che Seneca, l’uomo più ricco dell’impero
romano ai tempi di Cristo, abbia saputo
sviluppare una filosofia che per molti tratti richiama il Vangelo, ed un
profondo sentimento di superiorità sulle cose, che gli ha consentito,
condannato a morte da Nerone, di distaccarsi dal mondo serenamente e
consapevolmente bevendo, come Socrate, la cicuta..
Indipendentemente da quello che ho e sono, è
importante il come, in quali termini
definisco il rapporto con quello ho e sono.
Come giustamente dice Cristo, solo chi
disprezza la sua vita la conserva per l’eternità. Infatti se vivo, di giorno in
giorno, proiettato nel domani, nel divenire e non nell’essere, è normale che un
giorno mi ritrovi a pensare e vivere un domani nel quale il divenire del mio
spirito, del mio esistere, si ritrova finalmente libero dai condizionamenti del
mio essere.
Ma fino a quel momento, perché la vita
dell’uomo sia la felicità, che anticipa la felicità eterna, è necessario che
l’uomo impari a vivere con gioia il
rapporto verso Dio, in termini di conoscenza progressiva, verso il prossimo, in
termini di disponibilità alla conoscenza, verso la proiezione di sè nel domani,
senza sentirsi appagato e quindi condizionato da ciò che ha già raggiunto ed è
già diventato.
In questo modo, la vita sarà ricerca continua
del nuovo, e del meglio. Nuovo e meglio evidentemente in termini di essere e
non di avere, senza che l’essere debba implicare comunque la rinuncia
all’avere .
A fronte dei vantaggi che potrebbero risultare
dal vivere il divenire, invece che il
presente, si potrebbe obiettare che il vivere continuamente proiettati sugli
obiettivi futuri, comporta uno stato di
continua tensione e di ansia, e quindi una stato di perenne angoscia ed
infelicità.
Potrebbe sembrare!… Ma non è così!
C’è
chi, vedendo la bottiglia riempita a metà, la vede come mezza vuota, e chi
invece la vede come mezza piena. Chi la vede mezza piena viene preso da quello
che ha, viene travolto dalla necessità di gestire quello che già possiede. Chi
la vede mezza vuota, si darà invece da fare per trovare idee che gli consentano
di riempirla. L’uno vive la vita in modo conservativo, l’altro in modo
innovativo e creativo.
E’ vero che il secondo può essere preso
dall’insoddisfazione perché comunque la bottiglia non si riempie, e
nell’agitazione e nel rammarico, può perdere la bellezza della tensione a
innovare e a rinnovarsi ogni giorno.
Ma il suggerimento di Cristo è: «Non pensare
alla bottiglia! Dimenticala! Odiala,
appunto!».
È evidente che non è piena. Se infatti lo
fosse, sarebbe perfetta, e la perfezione non è per gli uomini. Di quanto sia
piena è irrilevante, se sia più o meno piena di quella degli altri, e’
ininfluente.
Indipendentemente da come sia, in qualsiasi
momento, il tuo compito, per il momento successivo, è quello di scoprire la
gioia nel far in modo che sia ancora più
piena.
Gioire, divertirti, e non angosciarti!
Perché comunque la
bottiglia non e’ tua, e il divertimento sta nel riempirla, non nell’averla
riempita.
Tutto
sembra così logico ed evidente. Eppure è così difficile da mettere in pratica!
La
difficoltà deriva dal fatto che si siamo innamorati della bottiglia, pur
essendo evidente che non ci appartiene
Quando ci sarà tolta, di noi resterà soltanto quello che abbiamo
imparato mentre la si riempiva.
L’assurdo
dell’uomo costretto a riempire una bottiglia che non si riempie mai e che
comunque gli sarà tolta, si risolve soltanto pensando che gli è stata data
questa incombenza, perchè sviluppi un’abilità nel riempirla.
L’abilità
acquisita, diventerà un suo modo di essere, anche quando avrà perso la
bottiglia!.
Cap. 19.
Vivere il divenire.
Secondo l’interpretazione data nel capitolo
precedente, la proposta di vita del Vangelo di Giovanni potrebbe venire
sintetizzata nel precetto di «vivere il divenire».
A Roma quasi in contemporanea a Cristo, la
filosofia stoica trova la sua massima espressione poetica nel «carpe diem» di
Orazio. Il concetto di fondo è che l’unica cosa che ci appartiene, e sulla
quale dobbiamo concentrarci è il presente. Vivendo di ricordi, e quindi nel
passato, perdiamo un attimo del nostro presente. Sprechiamo così un momento della nostra vita. Allo stesso
modo, sprechiamo il presente, immaginandoci di vivere nel futuro.
L’idea che si potrebbe ricavare dal Vangelo di Giovanni, a mio
avviso, è radicalmente diversa. Non è vero che il presente ci appartiene. Il
presente nel momento che è, si è già realizzato, non ha più bisogno di noi. È
invece l’attimo dopo, l’attimo che deve ancora venire, che ci appartiene,
perché è su questo che, assieme ad altri fattori esterni, possiamo influire
anche noi.
È questo quindi l’attimo nostro, quello in cui possiamo
realizzarci, perché noi siamo quello che possiamo divenire e quello che
possiamo realizzare. Quello che siamo, non ci appartiene. Nel momento nel
quale viviamo l’attimo fuggente, questi
è già fuggito. È solo il prossimo attimo che dipende da noi, perché dipende da
quello che facciamo nell’attimo che stiamo vivendo.
Ma in questo
modo, si obietterà nuovamente, l’uomo vive in uno stato di continua tensione
nel futuro e quindi di sofferenza, e si nega la possibilità di godere, per
quello che ha realizzato. Come ho già detto, penso che possa essere vero il contrario!
Il pittore, di fronte al quadro finito, può
pensare a cosa ha fatto, può sentirsi appagato per quel che ha fatto, o può già
pensare al nuovo quadro che farà. In quest’ultimo caso non rinuncia a sentire
il piacere per quello che ha fatto, anzi, il piacere per l’opera completata, si
fonde all’idea dell’opera da compiere e si realizza come piacere dinamico e non
statico. I quadri restano solo episodi del suo divenire di artista.
Per la teoria del «carpe diem», l’attimo
fuggente va vissuto con una intensità assoluta come se fosse l’ultimo. Vivere
il divenire significa invece andare oltre il momento dell’essere, non per perderlo, ma per viverlo
nella pienezza del suo completamento nel divenire.
Sul treno della vita, Orazio mi dice, devo
godere momento per momento della bellezza del paesaggio che mi scorre davanti,
perché ogni momento sarà unico ed irripetibile, quello di dopo sarà diverso, e
non sarà possibile avere il replay di quello che ho perso. In questo modo la
vita viene vissuta come una successione di immagini statiche, una
rappresentazione attraverso diapositive. La vita del divenire, è invece come un
film, nel quale le immagini servono solo a rappresentare il movimento, il
divenire dell’azione.
Seguendo un paesaggio nel suo divenire, non ci
si ferma a quello che si vede, a quello che riuscirebbe a cogliere l’obiettivo
della macchina fotografica, si va oltre, e si vede l’immagine evolversi e divenire,
perché si vede quel che c’è dietro all’immagine, dietro alle cose. Il bosco non
è più soltanto un bosco, ma è la magia d’un atmosfera, lo stormire delle fronde
è il respiro della natura che vive e
diviene, è il fremito che trasforma ogni cosa che esiste.
All’uomo che percorre la cresta della
montagna, verso il precipizio, Orazio consiglia di soffermarsi ad ammirare ed a
godere d’ogni fiore che si incontra sul prato, perchè, presi dalla bellezza del
fiore, si dovrebbe riuscire anche a dimenticare l’angoscia per il precipizio
verso il quale si è incamminati. Per
Cristo invece, a mio parere, l’uomo sulla
cresta deve muoversi senza la paura del precipizio. Avanzando, deve guardare non a dove ha messo il piede,
ma a dove lo metterà nel passo successivo. Anch’egli vedrà i fiori rincorrersi
e sovrapporsi, e l’erba muoversi nel respiro della terra, fino a che il vento
riempirà la vela del suo aquilone e potrà dolcemente staccarsi da terra, per librarsi nell’immensità
del cielo.
“Pensando al futuro si perde il presente”
ripete Orazio, ma forse ha torto. Se mentre costruisco la casa ho in testa
l’immagine di come sarà, non solo non perdo la soddisfazione per ogni pietra
aggiunta, per ogni muro realizzato, per l’avanzamento continuo dell’opera, ma al
contrario ogni azione, ogni gesto assume un significato più vero e profondo.
L’errore sta nel considerare il muro come
qualcosa di definitivo, e non invece un
semplice elemento della casa.
Ma se poi non si dovesse avere la fortuna di
vedere la casa completata? Più che un rischio è quasi la norma: quelli che hanno seminato, di solito non
riescono a raccogliere. Ma come potrebbero seminare se non pensando al
raccolto? Come potrebbero seminare se pensassero che sta per arrivare il freddo
dell’inverno e gelerà la terra nella quale hanno gettato il seme?
Ma ci sarà un anno nuovo, una nuova primavera!
A questo deve pensare chi semina. Non per perdere, ma per provare
intensamente la gioia della seminagione.
Cap. 20
La felicità.
Cristo
avrebbe detto che la felicità non e' di questo mondo. Avrebbe anche
aggiunto che solo attraverso le rinunce,
i sacrifici e la penitenza ci si procura la possibilità di ottenere la vita
eterna. Questo avrebbe detto secondo la formazione catechistica della mia
infanzia.
Ma dove l'avrebbe detto se il suo insegnamento e': "Vivete da fratelli e
sarete felici. Amatevi gli uni e gli altri e sarete felici!"
Felici qui sulla terra, nella vita di ogni
giorno!
E vivendo la felicità della terra,
conquisterete, giorno per giorno, la felicità della vita eterna.
Il cristianesimo e' stavo vissuto come
negazione del mondo. Come si sia potuta sviluppare questa idea, non so.
Certamente non la ritrovo nel Vangelo di Giovanni. Qui io trovo soltanto il
concetto che la vita va vissuta con
l'entusiasmo di chi scopre di essere figlio di Dio, destinato all'immortalità.
Ed anche il rapporto con i beni materiali della terra, e' un rapporto in
positivo.
Dei tanti miracoli che Cristo avrebbe fatto,
secondo gli altri evangelisti, Giovanni ne riporta solo sette. Di questi, due li ritroviamo anche negli altri Vangeli.
Cinque li riporta soltanto Giovanni. Fra questi c’è anche il miracolo delle
nozze di Cana.
L’evangelista che ha trascurato di raccontare
tante guarigioni ben più importanti si sofferma a raccontarci la “banalità”
di Cristo che trasforma l'acqua in vino, per evitare al padrone di
casa la brutta figura di non aver procurato vino a sufficienza. E il racconto,
per giunta, ci viene presentato con una dovizia di particolari, che si giustifica
solo per sottolineare l’importanza del fatto.
C'erano lì sei recipienti di pietra di circa
cento litri ciascuno. Servivano per i riti di purificazione degli Ebrei. Gesù
disse ai servi:
"Riempiteli
d'acqua!"
Essi
li riempirono fino all'orlo. Poi Gesù disse loro:
"Adesso
prendetene un po' e portatelo ad assaggiare al capotavola."
Glielo
portarono.
Il
capotavola assaggiò l'acqua che era diventata vino. Ma egli non sapeva da dove
veniva quel vino. Lo sapevano solo i servi che avevano portato l'acqua. Quando
lo ebbe assaggiato il capotavola chiamò lo sposo e gli disse:
"Tutti
servono prima il vino buono, e poi quando si è già bevuto molto, servono il
vino più scadente. Tu invece hai conservato il vino buono fino a questo
momento".
Giovanni trascura anche di riportare le tante parabole che Cristo ha raccontato.
Io credo che questa di Cana, sia al tempo
stesso una parabola ed un miracolo. Mi piace interpretarla come la parabola
della vita dell'uomo, che deve essere vissuta come una festa. Non deve mancare
nulla di quello che può servire a fare festa!
Anche la moltiplicazione dei pani e dei pesci,
l'unico miracolo che Giovanni riporta assieme a tutti gli altri tre
evangelisti, può essere vista come una parabola con lo stesso significato.
Circa cinquemila persone, sulla montagna, sedute, e il terreno era erboso, e raccolsero e riempirono dodici cesti con gli
avanzi delle cinque pagnotte...
Un
altro fatto-parabola, riportato solo da Giovanni infine mi pare sottolinei
molto bene l'atmosfera che deve caratterizzare la vita degli uomini. È la scena
d’una scampagnata sulla spiaggia, con l'immancabile grigliata, che ci fa vedere
un immagine di Cristo inusitata rispetto a quella che mi torna in mente dal
catechismo, del figlio di Dio che, s’è scomodato a farsi uomo, solo per
tormentarmi con obblighi, divieti e penitenze.
Resuscitato,
Cristo si era già fatto vedere nel
cenacolo, convincendo anche lo scettico di Tommaso che era resuscitato sul
serio. Ma qualche giorno dopo, alcuni discepoli si trovavano a pescare sul lago
di Tiberiade.
C'era
anche Pietro che disse:
"Io
vado a pescare".
Gli
altri risposero:
"Veniamo
anche noi.
Uscirono
e salirono sulla barca. Ma quella notte non pescarono nulla.
Era
già mattina quando Gesù si presentò sulla spiaggia, ma i discepoli non sapevano
che era lui. Allora Gesù disse:
"Ragazzi,
avete qualcosa da mangiare?"
Gli
risposero di no. Allora Gesù disse:
"Gettate
la rete dal lato destro della barca e troverete pesce".
I
discepoli calarono la rete. Quando cercarono di tirarla su, non riuscivano per
la gran quantità di pesci che conteneva. Allora il discepolo prediletto di Gesù
disse a Pietro:
"E'
il Signore!"
Simon
Pietro udì che era il Signore. Allora si legò la tunica intorno ai fianchi
(perché non aveva altro addosso) e si gettò in acqua. Gli altri discepoli
invece accostarono a riva con la barca, trascinando la rete con i pesci, perché
erano lontani da terra un centinaio di metri. Quando scesero dalla barca videro
un focherello di carboni con sopra alcuni pesci. C'era anche pane.
"Gesù
disse loro: "Portate qui un po' di quel pesce che avete preso ora".
Simon
Pietro salì sulla barca e trascinò a terra la rete piena di centocinquantatrè
(!) grossi pesci. Erano molto grossi, ma la rete non si era strappata.
Gesù
disse loro: "Venite a far colazione".
Se Giovanni ha
voluto dare rilievo a questi fatti apparentemente marginali, non credo ci possa
essere altro motivo se non quello d’aver voluto in qualche modo
ricostruire l’atmosfera che deve
caratterizzare la vita dei cristiani assieme a Cristo.
D’altra parte,
se l’unico comandamento che ci è stato dato è quello dell’amore, è evidente che
quelli che vivono nell’amore vivono in positivo, con entusiasmo e con gioia.
Ogni uomo
ricorda i momenti dell’innamoramento come i momenti più felici della propria
vita. Se questa condizione di innamoramento si potesse vivere, come vorrebbe il
Vangelo, non solo nei confronti della persona che abbiamo scelto, ma di tutte
le persone che ci circondano e della natura, e se questo innamoramento fosse
sorretto da una condizione continua di innamoramento nei confronti di noi
stessi figli di Dio, è evidente che ne uscirebbe una modalità di vita per la
massima felicità.
Appunto come
conferma Cristo nell’ultima cena: «Quando metterete in pratica queste cose, sarete felici.!»
Cap. 21
Il Buon samaritano.
Dei tanti racconti, delle tante parabole, che
Giovanni trascura di riportare nel suo Vangelo, mi dispiace soprattutto abbia
dimenticato anche quella del buon samaritano. Una parabola che bene mette a
fuoco quello che dovrebbe diventare l’ideale di vita del cristiano.
Tra l’idea d’un Cristo che a Cana insegna a
non disprezzare neppure i piaceri della tavola, e l’idea del Cristo che sale il
Calvario per insegnarci a soffrire, c’è una contraddizione, per superare la
quale, si è cercato di far prevalere l’idea del Cristo della sofferenza, e
quindi del cristianesimo della rinuncia e della penitenza.
A mio avviso non c’è invece contraddizione
alcuna, se pensiamo che il messaggio evangelico sia per una vita, autenticamente
e sinceramente vissuta, in un rapporto d’amore con i fratelli, sia nei momenti
della gioia che in quelli del dolore, senza concessioni al fariseismo ed alle
apparenze.
Il concetto mi pare molto bene riassunto nella
parabola del buon samaritano, che riporto da Luca, l’unico che ci lascia il
racconto dell’uomo che scendeva da Gerusalemme a Gerico.
S’era alzato un dottore della legge e, per
cercare di metterlo in difficoltà, aveva fatto a Cristo la domanda «da un milione di dollari»:
«Maestro
che cosa devo fare per ottenere la vita eterna?”
Cristo risponde ponendo a suo volta una domanda:
«Che
cosa c’è scritto nella Legge?»
Il
dottore rispose prontamente:
«Amerai
il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la
tua forza e con tutta la tua mente, e il prossimo tuo come te stesso»
«Ecco!
Fai così e vivrai?»
Ma
l’altro che voleva «prenderlo in castagna» continuò: «E chi è il mio prossimo».
Allora Cristo prese a raccontare che una volta
un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico. Incappò nei briganti che lo
spogliarono, lo percossero e lo lasciarono sul ciglio della strada, mezzo
morto.
Passò di lì un sacerdote e lo schivò
transitando dall’altra parte della strada. Altrettanto fece un levita. Un
samaritano invece, che era in viaggio per affari, lo vide e ne ebbe
compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, lo caricò sopra il suo
giumento e lo portò ad una locanda. Il giorno dopo, non volendo rinunciare ai
suoi impegni, estrasse due monete e le diede all’albergatore chiedendo che
avesse cura di lui. Si impegnò infine a ripassare per vedere come stava, se
aveva ancora bisogno di lui, ed a pagare ancora se ce ne fosse stato bisogno.
«Va», disse Cristo al dottore, concludendo il
racconto, « e fa anche tu lo stesso».
Non è certo un caso, che nel suo racconto,
Cristo abbia voluto immaginare, che proprio un sacerdote, fosse il primo a far
finta di niente. Chissà quali problemi teologici
aveva in mente! Non poteva certo
distogliersi dalle sue riflessioni, per interessarsi d’un disgraziato! Il
samaritano era invece uno di noi, preso
dai mille impegni del quotidiano, degli affari, del lavoro. Trovò tuttavia
anche il tempo per prendersi cura d’un estraneo che aveva bisogno di lui! In questo mi pare ci sia la chiave del
messaggio evangelico!
E’
giusto continuare ad impegnarsi nei problemi del mondo, ma lo si deve fare con
un atteggiamento diverso, in un rapporto d’amore con gli altri e con le cose.
Allora si troverà anche il tempo per dedicarsi agli altri ed alle cose, in modo
che questo dedicarsi, ritorni a vantaggio di chi lo fa. Il riferimento al quale
ci si deve ispirare è quello di un uomo,
non succube del mondo, ma, al contrario, capace di utilizzare il mondo per
migliorare e raffinare la propria
sensibilità, nella prospettiva dell’eternità.
Ma il mondo, si può obiettare, non è certo
pieno di buoni samaritani. Devi combattere, vincere la concorrenza, devi farti
avanti a gomitate, se vuoi emergere o semplicemente se non vuoi lasciarti
calpestare.
Certo! Forse anche il samaritano, rientrando,
ha trovato persino che l’albergatore gli
ha fatto la cresta sui conti per l’assistenza, oppure non ha trovato più l’uomo
che aveva assistito, che se n’era già
andato, senza neppure una parola di ringraziamento. Ma alla fine della giornata
il samaritano è comunque felice, l’albergatore invece, avrà migliorato le
entrate, ma, nella sua grettezza, è diventato incapace di vivere la felicità’
per i risultati ottenuti. Il disgraziato infine nell’incapacità di provare
gratitudine avrà perso ogni possibilità di sentire la gioia dei sentimenti.
Tuttavia anche
il samaritano di fronte a tanta ingratitudine e vigliaccheria,
ripensando ai suoi comportamenti ed a come era stato ripagato, forse si sarà ripromesso di non farlo più... Al
contrario, il samaritano del messaggio evangelico, non pensa già più a quello
che ha fatto, ma è con la mente altrove a ricercare come poter rivivere ancora
la felicità provata nel gesto gratuito di generosità! La gratificazione, il
cristiano la cerca in se stesso, non dagli altri. Perchè l’atto del dare e del
darsi, non fa perdere qualcosa a chi dà, ma come già diceva Seneca, torna a
vantaggio e beneficio del donatore.
Quando dai qualcosa di te, sei come il
seminatore che sparge la semente del grano. Chi più semina, più raccoglie. Per
ogni grano dato al terreno, in te spunterà
una spiga, e non attenderti che il terreno ti sia grato dei semi che gli
hai dato!
Come si è già visto, la vita va vissuta in
divenire. Quel che hai già fatto, non ti appartiene più, fa parte del passato,
è in quello che puoi ancora fare che si può realizzare la tua felicità.
Cap. 22
La preghiera.
Dalle mie reminiscenze del catechismo emerge
un Dio che sembra quasi abbia bisogno della preghiera dell'uomo. L’uomo invece,
portando a Dio preghiere, sembra possa ottenere
in cambio dei buoni punto per una raccolta che, se completata, darà
diritto al Paradiso.
E' evidente che, qualsiasi sia l'idea che ce
ne possiamo fare, Dio non può aver bisogno delle nostre orazioni. La preghiera
e' per l'uomo, serve all'uomo, per
migliorare il proprio rapporto con Dio.
Ma cosa significa veramente pregare?
Se l'obiettivo della preghiera è migliorare il
rapporto con la divinità, pregare è, evidentemente, l'atto con il quale l'uomo
abbandonando i pensieri legati al quotidiano, si ritrova a pensare a Dio.
Pregare è pensare a Dio per riuscire a
sentirlo sempre di più, per riuscire a sentirsi sempre più figli di Dio.
Pregare è un atto d'amore. D'un amore, come direbbe Hesse, senza desiderio, che
costituisce la condizione più elevata e desiderabile della nostra anima, la
strada per la beatitudine.
Questo può essere fatto assieme o da soli,
recitando il breviario o partecipando alla Messa, nell’intensità della
meditazione e della concentrazione sul pensiero di Dio o attraverso riti che ci portino a pensare a Dio.
La Chiesa privilegia, come preghiera, degli
atti che realizzano un’atmosfera nella quale è più facile pensare a Dio, ma non è meno preghiera quella
fatta cercando di pensare direttamente a Dio, come hanno insegnato i mistici e
come insegnano, in particolare, le religioni orientali.
L'uomo occidentale, con l’eccezione dei
mistici, ha avuto bisogno per duemila anni di atti esteriori e formulari che lo coinvolgessero nel pensiero di Dio.
Nella sua evoluzione ha raggiunto una capacità di astrazione e di meditazione
pari a quella degli orientali, per cui sente oggi più vicino al suo modo di
pensare, il modo di pregare degli orientali.
Ripetere cinquanta «Ave Maria» ha un senso
solo se attraverso quella recita, e solo in quel modo, io riesco a pensare alla
divinità. Se sono capace di una via più diretta ed immediata, posso, anzi
devo, privilegiare quella via.
Se fisso un punto nell'infinito e riesco a
pensare a Dio e immagino di penetrare all'infinito in quel punto come in un
vortice che non ha fine, se riesco a
pensare che più penetro e più mi avvicino a Dio, io prego. E se trattenendo
il respiro riesco ad immergermi nel
vortice del pensiero di Dio, fino a che il mio corpo lieviti come insegnano le
teorie yoga, il mio pregare non è in contrasto con il Vangelo ma al contrario è
realizzazione di quanto Cristo chiedeva al Padre per i suoi discepoli: Fa che
siano tutti una sola cosa: come Padre tu sei in me ed io sono in te, anch'essi
siano in noi".
Se concentrandomi su di me, io riesco ad
entrare nel profondo del mio io, per ritrovare il senso del mio essere figlio
di Dio. E se io ripeto questa entrata più e più volte, a migliorare
continuamente la mia capacità di immedesimarmi
in Dio che è in me. Questo è pregare!
Preghiera quindi come momento di
identificazione di se stessi con la divinità, di riconoscimento della propria
essenza di figli di Dio, per ritrovare, attraverso l'unità con il Padre,
l'unità con i fratelli.
Nel
Vangelo è molto chiaro il concetto che
non ha senso pregare per chiedere «perché Dio padre sa già di che cosa abbiamo
bisogno, prima ancora che lo chiediamo».
Altrettanto
chiaro è il concetto che la preghiera non ha bisogno del luogo di culto o di un
cerimoniale:
“Tu quando
preghi entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel
segreto”.
Come si è già
detto, pregare significa cercare di
mettere in relazione il proprio spirito con lo Spirito di Dio. La ricompensa
della preghiera è proprio la relazione di risposta di Dio, alla richiesta di
relazione dell’uomo.
Raggiungere questa relazione biunivoca, non è
facile, presuppone un insistenza da parte dell’uomo. Ma se anche uno che non è
ben disposto nei tuoi confronti, se tu insisti a bussare, alla fine ti apre la
porta «a maggior ragione il Padre che è in cielo, darà lo Spirito santo a
quelli che glielo chiedono». La risposta di Dio alla preghiera dell’Uomo è
quindi la concessione dello Spirito santo, cioè della capacità della relazione
con Dio.
Ma come si riesce a realizzare questa
relazione?
Non c’è
evidentemente una modalità particolare, un giorno prestabilito, un cerimoniale
codificato. Non c’è neppure una formula
speciale. Se ci fosse, se Cristo l’avesse insegnata, sarebbe evidentemente di
tale importanza, che nessuno dei quattro evangelisti avrebbe potuto non
riportarla. Ma non c’è una formula! Matteo e Luca ci riportano comunque un
suggerimento di Cristo che in quanto tale ci può aiutare a capire come metterci
in relazione con Dio.
Riporta
Matteo, e gli fa eco pur con qualche variante significativa Luca: «Pregate
così: Padre nostro che sei nei cieli...»
Padre io
vorrei riuscire a sentirti ad un tempo come Esistenza e come Padre, assieme ai miei simili, perché su questa relazione degli uomini con te, si
realizzi la relazione tua con gli uomini sulla terra.
Padre,
vorrei riuscire a sentirti ogni giorno come ciò che alimenta e dà un senso alla
mia esistenza.
Per vivere
la felicità nel respiro dell’amore verso te ed i fratelli, vorrei che nessuno
si sentisse in colpa nei miei confronti,
per non vivere sensi di colpa nei confronti di altri.
Vorrei
poter vivere in un rapporto sempre più intenso con te, per poter superare la
tentazione di farmi condizionare da ciò che mi circonda.
La
mia traduzione può sembrare troppo libera, una parafrasi, più che una versione.
Ma in questa libertà penso d’essere riuscito a rispettare, almeno così
credo, il senso vero del messaggio sul
modo con cui dobbiamo pregare.
Cap. 23.
Le virtù cristiane.
Quali sono i comportamenti da cui si riconosce
il seguace del Vangelo? Soltanto da un fatto. «Se vi amerete come fratelli, da
questo riconosceranno che siete miei discepoli». Tutto qui!
Ma quali possono essere considerati i
comportamenti attraverso i quali si realizza l’amore per i fratelli? Quali sono
quindi le «virtù» che dovrebbe praticare il cristiano per poter essere
considerato tale?
La
compassione.
Nietzsche ricorda con disprezzo che "il
cristianesimo è detto religione della compassione. La compassione si
contrappone agli effetti tonici, quelli che accrescono l'energia del sentimento
vitale: essa ha un effetto deprimente. Quando si compatisce si perde
forza".
Non
è vero che quando si compatisce si perde forza. Anche Seneca, come ho già ricordato, ai tempi di
Cristo, aveva giustamente intuito che
l'atto del dare non porta ad una diminuzione in chi dà, ma ad un accrescimento.
Paolo negli Atti degli Apostoli. ricorda che Cristo ha detto che "c'è più gioia nel dare che nel
ricevere".
Il messaggio evangelico rovesciando
l'interpretazione negativa di Nietzsche, può
essere proprio visto come il messaggio degli "effetti tonici,
quelli che accrescono l'energia del sentimento vitale". E' infatti l'idea
di entrare in rapporto con Dio, per realizzarsi compiutamente nel mondo, ed
attraverso questa realizzazione, conquistare una realizzazione più piena ed
assoluta oltre la morte. Il mondo non viene negato, ma valorizzato, come
palestra nella quale l'uomo si esercita, per vivere al meglio l'esperienza
della vita eterna.
La compassione è quella del samaritano che
nell’inginocchiarsi di fronte al ferito, diventa più grande del sacerdote che
gli passa accanto senza guardare.
L’umiltà.
Come la compassione, anche l’umiltà è stata
vista come l’indicazione data al cristiano, di essere sempre remissivo e
perdente. Da qui l’idea del
cristianesimo come religione dei vinti e dei perdenti.
L’umiltà è invece la virtù di chi non cerca il
riconoscimento degli altri, ma cerca la gratificazione in se stesso. Con una
parabola, anche questa non riportata da Giovanni, Cristo dice che quando ci si
deve accomodare a tavola, è meglio scegliere gli ultimi posti, con la
possibilità quindi che il padrone di casa ti renda onore, facendoti venire più
avanti. Ma la motivazione che dà l’evangelista sull’opportunità di scegliere
gli ultimi posti, va riportata alla sua mentalità, piuttosto che
all’insegnamento di Cristo.
Scegliere gli ultimi posti, è la scelta che
deriva dalla propria convinzione che non ha nessun rilievo essere davanti o
dietro, ciò che conta è come ci si sente dentro. E infatti in Giovanni
l’insegnamento viene rappresentato nella scena della lavanda dei piedi
nell’ultima cena: se con umiltà il maestro ha deciso di lavare i piedi ai
discepoli, l’atto dell’inginocchiarsi davanti a loro, non lo rimpicciolisce,
ma, al contrario, lo rende grande.
La scena interpreta alla lettera la frase
riportata da Luca: «Chi tra voi è il più importante, diventi come il più
piccolo, chi comanda diventi come quello che serve».
Chi «diventa» piccolo, in realtà sviluppa
ancora di più la sua grandezza, chi si umilia, in verità si esalta, dimostra la
propria superiorità di spirito.
Il perdono.
È la più grande delle virtù cristiane perchè
diretta conseguenza del primo e unico comandamento, quello dell’amore. Se
l’impegno assoluto è quello di amare, anche i nemici, è logico che altrettanto
assoluto deve essere l’impegno a perdonare.
Ma anche a questo proposito il racconto di
Giovanni ci stupisce perché non riporta neppure il perdono accordato da Cristo
ai suoi crocifissori. Giovanni che pure era presente ai piedi della croce, non
riporta la frase:
«Padre perdona
loro perché non sanno quello che fanno».
Giovanni introduce il concetto del perdono con
la scena della donna portata a lui dai farisei perché sorpresa in adulterio.
«Mosè ci ha ordinato di uccidere queste
persone infedeli a colpi di pietra, e tu cosa ne dici?»
Ma Gesù guardava in terra e scriveva col dito
nella polvere. Quelli però insistevano con le domande. Allora Gesù alzò la
testa e disse:
«Chi tra di
voi è senza peccati, scagli per primo una pietra contro di lei». Poi si curvò
di nuovo a scrivere in terra.
Io immagino che in qualche modo stesse
scrivendo che il perdono per il cristiano non è un atto di generosità ma di
verità. Ogni individuo è un mondo a sé, in rapporto diretto, originale ed
esclusivo, con l’Esistenza. Ogni uomo ha comportamenti che derivano e si
giustificano nel suo esistere individuale. La società può difendersi dai
comportamenti dell’individuo, l’individuo può difendersi dai comportamenti
anomali di un altro individuo, ma né la società né l’individuo possono
intervenire per punire il comportamento
in sé. Ogni individuo nella sua originalità ha infatti dei comportamenti
che possono essere considerati anomali e quindi puniti da un altro individuo.
Pensare di punirli significherebbe immaginare una società dove tutto può essere
punito.
La società del Vangelo è invece la società che
riconosce la libertà assoluta dell’individuo, fino a che non si scontra con la
libertà di un altro individuo o con le regole che la società si e’ data per
garantire la libertà della maggioranza degli individui.
Ma anche in questo caso l’intervento non può
essere punitivo, ma difensivo, e quindi limitato ad evitare che l’intervento
anomalo possa ripetersi: deve essere l’intervento di chi, in spirito di verità,
sa di aver avuto, o di poter avere comportamenti anomali.
Il comportamento di Cristo con i “diversi” è
sempre un comportamento di tolleranza, di accettazione. Non c’è un
comportamento “ideale” al quale ci si debba conformare. Non c’è quindi una
società “media” da assumere come riferimento. La società deve sapere assumere e
sottolineare il valore della diversità, senza cercare di mediarlo in un
compromesso grigio ed informe nel quale annegare l’originalità del singolo.
Cap. 24
Il peccato.
"Chi
commette il peccato va contro la legge di Dio perché peccare vuol dire mettersi
contro la sua volontà. Voi sapete che Gesù è venuto in mezzo a noi per togliere
il peccato. In lui non c'è peccato. Chi rimane unito a Gesù non pecca più. Se
pecca ancora dimostra di non aver veramente veduto Gesù e di non averlo
capito".
Così scrive Giovanni nella sua prima epistola.
Ho cercato nelle lettere, per vedere se trovavo qualcosa di più concreto. Nel
Vangelo di Giovanni infatti, il peccato non appare quasi mai, o almeno non c'è
una esplicita presentazione di che cosa sia peccato.
Eppure nell'idea del cristianesimo che io mi
porto dentro dalla mia infanzia, dalle lezioni di catechismo alle elementari,
il peccato è l'elemento dominante. Il cristiano è uno che pecca continuamente.
Non c'è cosa che faccia il cristiano, senza che corra il rischio in qualche
modo di cadere in peccato. Se non è peccato quello che fa, può diventare peccato
quello che pensa, anche se non ha l'intenzione di peccare. La sua vita è come
una roulette russa con il rischio incombente di morire in peccato, e quindi di
finire all'inferno per sempre.
Ho cercato in Giovanni il riscontro
dell'insegnamento di Cristo dal quale sarebbe venuta questa idea dell'uomo che
cammina sull'orlo del precipizio del peccato, e non l'ho trovato. Come ho già detto in Giovanni non troviamo un elenco di
prescrizioni e di comportamenti. Il comandamento è uno solo: quello dell'amore.
Ne discende che, l’uomo il quale ha capito
Cristo, si comporta secondo la legge dell'amore, e quindi non pecca. Peccato
quindi è soltanto comportarsi in difformità rispetto a questa legge.
L'opposto dell'amore è l'odio: e quindi l'odio
è peccato. Ma non ama neppure chi invidia e quindi anche l'invidia è peccato.
Io credo però che il più significativo
insegnamento sul peccato sia da ritrovare nel fatto che il peccato viene
trattato marginalmente. Il comandamento non è "Non peccare" ma
"Ama". E la differenza è sostanziale perché ci richiama ad una
interpretazione positiva della vita. Obiettivo del cristiano è quello di
assumere un atteggiamento positivo e quindi di amore, verso Dio, verso gli
altri, verso la natura.
Nella storia del cristianesimo si e andato sempre
più affermando il concetto del negativo. Tutto si riduce ad una sequela di «non
devi», mentre invece Cristo ripete quasi ossessivamente che il comandamento è
uno soltanto, ed è in positivo: “Ama!”
Ci è stata insegnata una strada da percorrere
nell’angoscia, per la certezza che finisce in un precipizio, nel quale non abbiamo idea di che
cosa potremmo trovare. Per giunta, ai lati della strada, sono state poste barriere di filo spinato, per costringerci a
percorrerla senza divagazioni o soste. Ci viene anche suggerito di guardare
possibilmente alla strada, senza lasciarci distogliere dal paesaggio
circostante, per avere meno rimpianti, quando precipiteremo nel burrone finale.
Ma perchè si e’ affermata questa idea, se
Giovanni mi parla soltanto dell’amore e quindi d’una condizione di serenità e
di felicita’?
Non ci sono palizzate, non ci sono divieti!
Non c’è neppure la strada. Vado felice nella campagna in fiore, a primavera,
inebriato dai profumi, esaltato dai colori, divertendomi con gli amici, cercando
di fissarmi dentro, le immagini di quella felicità.
Non omnis moriar, multa pars mei vitabit
Libitinam. Come dice Orazio, non morirò tutto, gran parte di mè eviterà il
fiume della dimenticanza. Certamente! Non lo eviterà il mio corpo. Ma perché
dovrei dolermi di perdere tutti i miei limiti? Lo eviteranno invece i miei
sentimenti, la mia coscienza. Diventeranno invisibili a quelli che guarderanno
ancora attraverso il corpo e che crederanno di averli visti morire.
Possibile? Ritengo di si! Mentre ci pensavo ho
fatto comunque un sogno che vorrei raccontare.
C’era un piazzale enorme, infinito. Pieno di
macchine di ogni tipo, tutte in movimento verso l’orizzonte. Andavano avanti e
indietro, si fermavano, si incrociavano. Gli automobilisti comunicavano tra
loro con gli strumenti dell’automobile. Lampeggiavano, suonavano il clacson,
mettevano le frecce di direzione, segnalavano le frenate con le luci di stop,
acceleravano per far notare la potenza del proprio motore. Non era molto! Ma le
automobili non erano attrezzate per comunicare tra loro. Per questo, gli
automobilisti più intelligenti avevano aperto il finestrino e comunicavano
direttamente, facendo conoscenza tra loro. Parlavano anche dell’orizzonte,
verso il quale tutti stavano andando. Ma nessuno sapeva che cosa avrebbe
trovato all’orizzonte!
Mi trovavo su una di quelle macchine. La mia
era piccola, una utilitaria scassata. Avevo paura ad avanzare. Come negli
autoscontri al lunapark, tutti avevano la meglio su di me. Tutti mi sembrava
avessero una macchina più forte, più grande. Finalmente riuscii a fare gruppo
con altre macchine di modesta cilindrata. Presi a parlare con gli altri
autisti, a scherzare sul manicomio infernale che facevano quelli delle macchine
più grandi, a chiedere dell’orizzonte. Ma nessuno sapeva che cosa avremmo
trovato. Tutti cercavano di fare delle congetture. Ma erano soltanto
congetture!
Finalmente si arrivò all’orizzonte! In effetti
non ci si accorse di arrivare. Ad un certo punto la macchina si fermò, e si
capì che si doveva proseguire a piedi. Cominciando a camminare ci si accorse
che si era al di là dell’orizzonte.
Guardando
indietro non si vedevano più le automobile, come prima, quando si era in
macchina, non si era visto nessuno davanti che camminasse a piedi.
La scena era d’una comicità’ surreale. Noi del
gruppo che avevamo cominciato a parlare ed a far conoscenza in macchina,
continuavamo a parlare anche andando a piedi. Gli altri invece continuavano ad
agitarsi, come se stessero suonando il clacson, mettendo le luci di direzione,
frenando ed accelerando, come dei comici che mimano la guida della macchina.
Noi li guardavamo e scherzavamo su di loro,
come avevamo scherzato sulla foga con la quale guidavano la macchina!
Sorridevo ancora ed ero già sveglio. Vivevo
ancora le sensazioni del sogno, come se non ci fosse stato un passaggio dal
sonno alla veglia. Ma nell’incertezza tra sogno e realtà sentivo invece d’aver
acquisito una spiegazione che mi appagava, come se avessi intuito cosa c’era
veramente oltre l’orizzonte.
Chi s’era abituato a comunicare soltanto
attraverso gli strumenti dell’automobile, avrebbe continuato a fare l’unica
cosa che sapeva fare, anche se l’automobile non c’era più, s’era sfasciata e si doveva proseguire a piedi. Chi aveva
invece imparato a comunicare direttamente, senza la mediazione della macchina,
ora poteva continuare a farlo in libertà e in modo più compiuto, senza la
barriera della macchina.
Se lo sapessero quelli che stanno andando
ancora in macchina e che non sono arrivati all’orizzonte! Se sapessero che
basterebbe far meno rumore con il motore, e cominciare ad aprire il
finestrino!...
Cap. 25.
L'Ultima cena.
La diversità tra le quattro versioni dei
Vangeli ammesse dalla Chiesa, senza tenere in considerazione le versioni
apocrife, ha portato e porta a grandi discussioni tra gli studiosi.
Per
il particolare approccio al Vangelo di questa mia riflessione, la discussione
su queste diversità ha un valore molto marginale. Come ho già detto, a me non
interessa la veridicità dei singoli fatti, se Cristo abbia detto o no una
parabola, se abbia o no fatto un miracolo. Preferisco cercare di ricavare dal
Vangelo il nucleo centrale della rivelazione, l'essenza del nuovo messaggio.
Tuttavia, di fronte alla diversità con la
quale viene presentata l'ultima Cena, sono rimasto anch'io sconcertato. Quando
mi sono accorto che Giovanni, che pure si diffonde a ricordare tanti discorsi
fatti da Cristo, in quell'ultimo incontro con i discepoli prima della morte, trascura di ricordare la
scena nella quale Cristo avrebbe istituito l'Eucarestia, non ho saputo darmi
una ragione. Si ha un bel giustificare il fatto dicendo che Giovanni dava per
acquisita la cosa. Non è immaginabile che, raccontandoci la storia di Cristo,
Giovanni tralasci il momento essenziale, nel quale Cristo avrebbe lasciato sè
stesso agli uomini.
La spiegazione può essere solo quella che
Giovanni era soprattutto preoccupato di
riportare le parole salienti di
quell'incontro con Cristo, prima della sua passione e morte, e che abbia voluto riportare solo i fatti e i gesti
che confermavano ed erano in relazione con quelle parole.
Quella sera, Cristo, nel racconto di Giovanni,
nel salutare i suoi discepoli cercava di riassumere loro i concetti più
importanti del messaggio che aveva trasmesso nei tre anni passati con loro.
Aveva insegnato loro una nuova filosofia di vita, riassumibile in un unico precetto:
"Io vi do un comandamento nuovo: amatevi
gli uni e gli altri. Amatevi come io vi ho amato! Da questo tutti conosceranno
che siete miei discepoli, se vi amate gli uni e gli altri".
Non vi riconosceranno come coloro che spezzano
il pane (negli altri evangelisti ogni
volta che si da il pane questo viene spezzato, in Giovanni mai!) ma come
coloro che si amano tra loro e si comportano di conseguenza. E per rendere
esplicito questo comportamento con un gesto-parabola, Cristo aveva voluto poco
prima lavare i piedi ai discepoli.
In Giovanni il fatto saliente dell’ultimo
incontro non è la cena ma la lavanda dei
piedi, episodio invece che gli altri non
citano neppure. A mio avviso, Giovanni si sofferma su questo ricordo perché lo
considera l’esemplificazione dell’atteggiamento e del comportamento che avrebbe
dovuto distinguere i seguaci di Cristo.
A Pietro che si rifiuta, sembrandogli
inaccettabile che il discepolo possa lasciarsi lavare i piedi dal Maestro,
Cristo, insistendo, ribatte:
"Se
io non ti lavo non sarai veramente unito a me".
Poi intuendo che il significato del gesto non
era stato ben compreso, cerca di
precisare:
"Capite
quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate Maestro e Signore, e fate bene
perché io sono. Dunque se io, Signore e Maestro vi ho lavato i piedi, anche voi
dovete lavarvi i piedi gli uni e gli altri. Io vi ho dato un esempio perché facciate
come io ho fatto a voi.
Certamente un servo non è più importante del
suo padrone e un ambasciatore non è più grande di chi l'ha mandato. Ora sapete
queste cose, ma sarete beati quando le metterete in pratica".
Cristo ha dato ai cristiani il comandamento di
amarsi gli uni gli altri. Ma la pratica del comandamento non deve restare un
fatto formale, deve diventare un comportamento, che emblematicamente viene
spiegato attraverso la lavanda dei piedi. Credo che il gesto si possa
interpretare nel senso che tra gli uomini, indipendentemente dal fatto che uno
sia maestro e l'altro discepolo, per il fatto di essere comunque profondamente
uguali, per essere tutti figli di Dio, il rapporto deve essere fondato su un
sentimento ed un atteggiamento di grande disponibilità degli uni verso gli
altri.
Il gesto di
disponibilità di chi è più in alto verso chi è più in basso, pur lasciando
inalterato il fatto che uno resta maestro e l'altro discepolo, consente a chi
sta in basso di aprirsi superando ogni remora o barriera. In questo sta il
senso della affermazione fatta a Pietro:
"Se io
non ti lavo, tu non sarai unito a
me".
Perché per il Cristo, amarsi come fratelli,
non è dire di volersi bene, manifestare esteriormente un rapporto di
fratellanza. Amarsi è essere uniti.
Cristo è venuto al mondo per insegnarci a
vivere da Figli di Dio e quindi da
fratelli che si amano gli uni e gli altri. Il mondo ha bisogno delle sue
gerarchie, c'è chi è maestro e chi discepolo, chi dirigente e chi operaio, chi
proprietario e chi proletario. Cristo non chiede di eliminare queste
differenze, starà all'uomo come Figlio dell'uomo muoversi per ridurle, per
superarle e il proletario si porrà l'obiettivo di diventare proprietario e
l'operaio dirigente, ma comunque stiano i rapporti tra gli uomini, al di sotto
delle vesti e dei ruoli diversi, c'è in tutti un'anima uguale, l'anima di figli
di Dio e quindi l'anima di fratelli.
Questo è il dato di fatto che deve essere
tenuto presente e deve improntare le relazioni tra gli uomini, e su questa convinzione
deve svilupparsi la comunità dei cristiani. Una comunità che vive felice, non
negando il mondo, ma interpretandolo per quello che veramente è, come si è
detto: una palestra nella quale l'uomo si esercita per migliorare il proprio
modo di sentire e di rapportarsi con gli oggetti, senza confondere gli
strumenti della palestra, con gli oggetti della realtà.
Chi è grande nel mondo resta grande, anzi
diventa più grande se saprà vivere avendo la capacità di scendere allo stesso
livello di chi è più piccolo. Se chi è al di sopra, sa scendere a lavare i
piedi di chi sta sotto, in effetti non scende né nella considerazione che lui
ha di se stesso, né nella considerazione che gli altri hanno di lui, realizza
invece un rapporto di vera amicizia: se ti laverò sarai veramente unito a me.
Il significato profondo della frase, a mio
avviso, sta proprio nella contrapposizione del «se io ti laverò», al «tu sarai
unito a me». È nella disponibilità di chi sta sopra, che si realizza un nuovo
rapporto tra diversi!
La solidarietà non deve essere una pretesa e
una rivendicazione di chi non ha, ma un atto di disponibilità e liberalità di
chi ha.
E
Cristo aggiunge "Quando metterete in pratica queste cose, sarete
felici". Non nell’al di là, nella vita eterna o nel Regno dei cieli, ma
qui, su questa terra, in ogni momento nel quale vi comporterete, relazionandovi
con gli altri in termini di amore.
Cap. 26.
Il mistero
della Croce.
Ho già
detto, della difficoltà ad accettare razionalmente, l'idea d'un Dio che
sacrifica il figlio sulla croce, al fine di salvare l'umanità. Qualche studioso
riconducibile alla corrente dell’”ateismo cristiano”, ha pensato persino che la
morte di Cristo volesse significare la necessità per il cristiano di imparare a vivere l’esperienza
terrena senza Dio. A me, più semplicemente,
pare che tutto si spieghi nella
logica d'un Dio che fa assumere
al figlio la condizione umana, per insegnare agli uomini a vivere la loro
condizione di figlio di Dio.
Se Cristo è venuto al mondo per insegnare agli
uomini a vivere, non poteva non morire, perché la morte é il momento
fondamentale della vita dell'uomo. Ma la cosa forse più assurda della vita
dell'uomo, è la grande sofferenza attraverso la quale deve arrivare alla morte,
quando viene condannato a conquistarsi,
a prezzo di indicibili sofferenze, la cosa che, come uomo, meno vorrebbe avere:
l'annullamento fisico di sé stesso. Nella logica di Cristo che percorre la
strada degli uomini, non solo è logico dovesse morire, ma è anche logico che dovesse
morire tra le grandi sofferenze che comporta la morte in croce.
L'uomo può morire per un improvviso arresto
cardiaco, per un incidente: può morire senza accorgersi. Più spesso però
conquista la morte tra le sofferenza dell'agonia, e spesso vive tra le
sofferenze la propria condanna a morte, per un male incurabile.
Cristo condannato a morte, che sale il
Calvario portandosi lo strumento con il quale si procurerà la morte,
rappresenta emblematicamente tutti i condannati a morte da un male incurabile.
Dalla lebbra ai tempi di Cristo, al cancro ai giorni nostri, per tanta parte
dell'umanità, la storia individuale è storia di condanne a morte, di croci
cariche di sofferenza, da portare, sapendo che non ci sarà via d'uscita, se non
nella morte.
Mi pare quindi perfettamente logico che, se
l'intento di Cristo era quello di insegnarci a vivere in un modo nuovo, non
potesse non vivere con noi l'esperienza più terribile (dal punto di vista
dell’uomo), quella della condanna a morte.
In
questa prospettiva può essere capita anche l’affermazione che fa Cristo stesso,
quando dice che "morirà per gli uomini" o si sacrificherà per gli
uomini!
Morirà nell’interesse degli uomini, per
esplicitare meglio il messaggio che deve lasciare agli uomini.
Quando Cristo si paragona ad un pastore e dice
che il buon pastore e' pronto a dare la vita per le sue pecore, non mi pare
affermi che il pastore deve dare la vita per salvare quella delle pecore, e
tanto meno che la morte del pastore salva le pecore.
Il concetto di lottare fino alla morte, non ha
nulla a che vedere con quello di farsi uccidere perché dalla propria morte
venga salvezza. Anzi, lasciandosi sbranare dal lupo, il pastore non fa altro
che consentire al lupo di sbranare successivamente anche le pecore.
Come il pastore, Cristo non ha nessun motivo
per sacrificare la sua vita, perché dal sacrificio ne tragga vantaggio il
gregge, è disposto invece, anche a morire, pur di salvare il gregge.
Come ho già avuto modo di anticipare, l’idea
di Cristo che si sacrifica per salvarci, si giustifica nella tradizione
ebraica, ma non ha nessun senso logico per noi.
Quando diciamo che Cristo ha vinto la morte,
diciamo che Cristo ha vinto la paura della morte, spiegandoci che non esiste la
morte eterna, ma che la morte del corpo apre le porte alla vita eterna. È la
rivelazione della vita eterna che vince la paura della morte, non il fatto che
Cristo sia morto.
E poi che senso avrebbe «sconfiggere la morte»
se la morte e’ il felice ingresso nell’immortalità?
«Ecco, dice giustamente Paolo, il nostro corpo
fatto di carne e di sangue non può far parte del regno di Dio e quel che muore
non può partecipare all’immortalità. Ecco, io vi dico un segreto. Non tutti
moriremo, ma tutti saremo trasformati, in un istante, in un batter d’occhio, quando
si sentirà l’ultimo suono di tromba».
Lo schema veterotestamentario con cui affronta
il problema, dopo questa giusta intuizione, porta Paolo ad inquinarla nell’idea
del suono di tromba dell’ultimo giorno, quando i morti saranno resuscitati per
non morire più. Cristo però aveva detto che «chi ascolta la mia parola e crede
nel Padre che mi ha mandato ha la vita eterna: è già passato dalla morte alla
vita.»
Chi crede infatti, comincia a vivere
nell’Esistenza già durante la vita mortale. Liberandosi del corpo nella morte,
non potrà che continuare a vivere eternamente la propria identificazione con
l’Esistenza.
La difficoltà a seguire il ragionamento deriva
soprattutto dal fatto che Cristo viene sentito come dato storico. È vissuto in
un determinato periodo in Palestina, ha detto delle parole, ha fatto
determinate cose. Ma se Cristo è Dio, non ha nessun senso immaginarlo chiuso in
un momento della storia.
Cristo-Dio non può che essere al di fuori del
tempo e della storia e quindi vive oggi, muore oggi, non in Palestina ma in
ogni luogo. Il Cristo-figlio di Dio della storia, ci può servire solo come
riferimento, per vivere la nostra storia di figli di Dio, per ritrovare il
figlio di Dio che è in noi.
Cap. 27.
La morte di Cristo.
Nel
racconto evangelico della passione e morte di Cristo, superato lo scandalo
della morte in sè, nell’idea che è morto per insegnare a morire, sconcerta il
fatto che abbia avuto paura della morte.
Se doveva insegnarci a vincere la morte, come può aver avuto paura anche lui della
morte?
L’espressione
angosciata "Dio mio perchè mi hai abbandonato" secondo Antonio
Messori, è certamente stata gridata da Cristo. Avendo interesse infatti gli apostoli a rappresentare la grandezza del
Messia, certamente non si sarebbero soffermati a riportare questo momento di
debolezza, se non per la necessità e nel desiderio di essere fedeli alla verità
.
Ma
anche su questo Giovanni si discosta dagli altri tre. Gli altri ricostruiscono
la morte d'un uomo e, a mio avviso, per esigenze di drammatizzazione,
inseriscono l'angoscia che ogni uomo prova di fronte alla sua fine. Rivivono la
morte di Cristo come l’avrebbero vissuta loro.
Giovanni
ci parla invece della morte del figlio di Dio. Come uomo, Cristo, si sente
oppresso dalla sofferenza, ma come figlio di Dio, sa che attraverso quella
sofferenza, si libererà del corpo per tornare al Padre.
Parlando
della morte, nell'ultima cena, la paragona al parto. "Una donna che deve
partorire, quando viene il momento, soffre molto. Ma quando il bambino è nato,
dimentica le sue sofferenze per la gioia che è venuta al mondo una
creatura".
Come la
partoriente anche Cristo, ed il cristiano figlio di Dio, soffre molto, ma è per
liberarsi del corpo e consentire la nascita di una nuova creatura che, non
definita, attraverso il corpo, nello spazio e nel tempo, potrà vivere la vita
eterna.
Giovanni non
ci dice che Cristo ha sudato sangue nell’orto dei Getzemani. L’apostolo più
intimo di Cristo, poteva dimenticare un
particolare così importante della sofferenza del maestro?
Non so se l’ha
volutamente dimenticato, è certo però che il Cristo che lui ci racconta non è
un uomo condannato a morte, ma il figlio di Dio che ha accettato di morire.
Quando alle
guardie si rivela dicendo «Io sono», queste cadono per terra. Dimostra
quindi di essere in grado di opporsi
alla cattura, di poter evitare la morte, ma a Pietro, che cerca di difenderlo e
taglia l’orecchio a Malco dice: «Metti via la tua spada! È necessario che io
beva il calice di dolore che il Padre mi ha preparato».
Ancora un
insegnamento all’uomo ad accettare, non a subire, il proprio destino di uomo!
Nel sommario
processo, Cristo si comporta con coraggio da figlio di Dio, al punto da
prendersi uno schiaffo da un servo per aver risposto in modo impertinente al
sommo sacerdote. A Pilato che gli chiede se è il re dei Giudei, replica:
«Hai pensato
tu questa domanda, o qualcuno ti ha detto questo di me?»
E più avanti:
«Non avresti
nessun potere su di me se non ti fosse dato da Dio»
E sulla croce,
null’altro avrebbe detto, secondo Giovanni, che la frase : «È compiuto».
L’affermazione
più logica per il figlio di Dio che ha compiuto la missione affidatagli dal
Padre, e che, liberandosi della carne, può tornare al Padre.
L’affermazione
che, secondo l’insegnamento che Cristo è venuto al mondo a portarci, ogni
cristiano dovrebbe poter ripetere, nella convinzione d’aver portato a termine
al meglio, la propria missione individuale, nell’esperienza del corpo nel
mondo.
Dalla morte di
Cristo viene dunque all’uomo la salvezza, come insegnamento per saper vincere
la propria morte, nella certezza della vita eterna.
Cap. 28
Il mistero della
sofferenza.
Se la vita terrena è un continuo divenire
verso la vita eterna, come si è già visto, il senso della vita è nell’acquisizione
del modo di sentire e quindi del modo di
essere che avremo nell’eternità.
In questa prospettiva si dovrebbe
riuscire anche a capire il senso
dell’apparente ingiustizia con la quale gli uomini sono collocati al mondo.
In
alcune parabole riportate dagli altri
evangelisti, perché Giovanni non si perde a ricordare parabole, si legge che
non ha importanza quanto uno lavori nella vigna: sono pagati allo stesso modo,
sia quelli che hanno lavorato un’ora che coloro i quali hanno lavorato l’intera
giornata. Ciò che importa infatti ai fini dell’eternità non è il che cosa hai
fatto, ma il come.
E’ dal come infatti
che acquisisci il modo di essere che vivrai oltre la vita terrena.
Ognuno è stato trattato in modo diverso,
alcuni hanno cinque talenti ed altri solo uno, ma ciò che importa è l’impegno
che mettono nel farli fruttare, non il quanto
hanno fruttato complessivamente: chi ha uno e rende due, ha fatto come e
meglio di chi aveva cinque ed ha reso dieci.
Se lo scopo è quello di raffinare la sensibilità
che avrai per l’eternità, più sarai messo allo prova, e più hai la possibilità
di ottenere un risultato eccellente, in questa ottica come già anticipa il
Deutero-Isaia la sofferenza, sopportata pazientemente, può essere una
esperienza creativa per tutti quelli che ne sono coinvolti, compresa la vittima
stessa, durante la sua stessa tragedia.
«Signore, se quest’uomo è nato cieco, di chi è
la colpa? Sua o dei suoi genitori?»
Chiesero un giorno i discepoli a Cristo ed egli rispose:
«Non
ne hanno colpa né lui né i suoi genitori ma è così perché in lui si possano
manifestare le opere di Dio».
Nel caso specifico la risposta di Cristo
potrebbe essere intesa nel senso che nel disegno provvidenziale era necessario
che quell’uomo fosse cieco e si trovasse lì, in quel preciso momento per
diventare l’oggetto del miracolo. Mi sembrerebbe però una interpretazione
troppo riduttiva.
La sofferenza dell’uomo consente il
manifestarsi delle opere di Dio, come prova più difficile che viene riservata
agli uni e non agli altri, per provare gli uni meglio degli altri, e nella
prova più difficile consentire a questi una sublimazione del loro modo di
essere che per gli altri è più difficile.
Il ragionamento diventa più facilmente
comprensibile se, secondo quanto si afferma nelle filosofie orientali,
immaginiamo che l’anima possa reincarnarsi più volte, per purificarsi
attraverso le reincarnazioni e giungere al Nirvana o Paradiso che dir si
voglia.
È l’anima che di volta in volta sceglie come
reincarnarsi. Può sprecare un’esistenza, scegliendo di vivere senza che nulla
gli venga in termini di purificazione ai fini del nirvana finale. Può scegliere
invece di reincarnarsi in una vita di sofferenza nella quale riuscirà a
raffinare in modo più intenso la propria sensibilità e quindi a purificarsi più
rapidamente.
Se teniamo presente che l’obiettivo finale è
il Paradiso, la scelta giusta è evidentemente quella di chi si incarna nella
sofferenza, per accelerare la conquista dell’obiettivo.
Nell’interpretazione buddista le successive
incarnazioni sono necessarie perché l’obiettivo finale è quello di raggiungere
lo stadio di sensibilità necessario per entrare nel Nirvana, nel quale tutti
hanno quindi lo stesso stato di sensibilità, e sono ammessi solo se hanno
raggiunto il livello indispensabile per l’ammissione.
Nella nostra interpretazione dell’incarnazione
unica, dopo l’unica esperienza di vita, nel Nirvana, cioè nella vita eterna,
l’uomo accede con diverse sensibilità, che possono essere sia positive che
negative (Paradiso e Inferno).
Se riteniamo giusta la scelta della sofferenza
per il buddista, non possiamo non ritenere occasione fortunata, per il
cristiano, quella della sofferenza sia per chi la vive, che per chi è
costretto, oppure ha scelto volontariamente, di convivervi.
Facile a dirsi! Avrebbe detto il mio amico don
Onelio costretto a vivere in carrozzella senza riuscire a muovere altro che i
muscoli del viso, per potere ancora
sorridere e parlare di speranza!
In effetti il ragionamento è difficile da
accettare. Ma. se ci si riflette, si scopre che la difficoltà sta solo dal fatto che, paradossalmente,
continuiamo a non accettare l’unica cosa che è incontestabile, e cioè che siamo
mortali.
Tutti viviamo come se non dovessimo mai
morire, mentre la morte è l’unica cosa certa della nostra esistenza.
Se
provassimo a ragionare pensando che in me il Figlio dell’Uomo più e stato
caricato di pesi più il figlio di Dio può esercitarsi ed acquisire una
sensibilità estremamente raffinata per la vita eterna, forse cominceremmo a
vedere le cose in un’ottica diversa.
Cap. 29
La sofferenza in
Isaia.
La considerazione con la quale ho chiuso il
capitolo precedente credo ci possa servire come chiave di interpretazione per
rileggere il profeta Isaia, o meglio la seconda parte del libro del profeta
Isaia, che è nota come Deutero-Isaia. La digressione, a sua volta, dovrebbe
consentirci di capire meglio il concetto della sofferenza.
Isaia è
stato definito il «profeta evangelista» perché nei suoi scritti si troverebbe un
numero notevole di riferimenti messianici. Anticiperebbe, come ho già
ricordato, nel mondo ebraico, il concetto introdotto dal Vangelo d’un rapporto
diretto tra l’Uomo e Dio.
Ma sorprendente in Isaia è soprattutto
l’anticipazione del concetto del «servo di Dio» che espia innocente i peccati
del mondo, e quindi la conferma anticipata dell’Agnello di Dio che toglie i
peccati del mondo.
Ho già detto che per me non ha senso l’idea
d’un Dio Padre Onnipotente che fa soffrire e morire il Figlio per redimere attraverso
la sofferenza e la morte i peccati dell’uomo.
L’interesse per Isaia è, in quest’ottica,
finalizzato a scoprire se vi è possibile una chiave di interpretazione diversa,
e se in questa interpretazione diversa, trova una risposta diversa anche il mistero
della sofferenza dell’uomo.
Credo di sì. E credo sia questa la chiave con
la quale il cristiano può spiegare l’ingiustizia della sofferenza.
Scrive
Isaia:
«Eppure
egli si è caricato delle nostre sofferenze,
«si
è addossato i nostri dolori
«e
noi lo giudicavamo castigato,
«percosso
da Dio ed umiliato.
«Egli
è stato trafitto per i nostri delitti,
«schiacciato
per le nostre iniquità.
«Il
castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui;
«per
le sue piaghe noi siamo stati guariti.
«Noi
tutti eravamo sperduti come un gregge,
«ognuno
di noi seguiva la sua strada,
«il
Signore fece ricadere su di lui
«l’iniquità
di noi tutti.
Isaia, si dice, anticipa profeticamente Cristo
e tutta la teoria della salvezza attraverso la sofferenza di Cristo.
E se invece, mi sono chiesto, Isaia volesse
solo presentarci la sua interpretazione della sofferenza? Se la chiave di tutto
il passo fosse la frase: il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di
lui? Ove per lui, non s’intende il Cristo che dovrà venire, ma lui che soffre.
Lui, ogni uomo che soffre, porta su di sé il castigo che dà salvezza a tutti
noi.
Due sono gli elementi della maledizione di
Adamo la morte e la sofferenza, l’uomo sa che non può sottrarvisi e li accetta
e subisce. Ciò che invece non riesce ad
accettare è l’ingiustizia con la quale i due elementi vengono distribuiti.
Perché qualcuno può vivere da Lazzaro mentre altri vivono da ricchi epuloni?
Qualcuno può vivere in un corpo perfetto, mentre altri devono vivere, senza la
possibilità di vedere o di muoversi? Perché qualcuno muore senza accorgersi, e
qualcuno invece deve conquistarsi la morte tra indicibili sofferenze?
Come spiegare tanta ingiustizia voluta da un
Dio buono, da un Dio padre?
Non so fare di meglio che imitare le forme
espressive del Vangelo tentando di darmi una risposta attraverso una parabola.
Gli uomini sono destinati a vivere nell’oceano
senza orizzonti contemplando la bellezza
dell’infinito. Per raggiungere l’oceano devono però attraversare un bosco.
Tutti sanno che il bosco finisce e comincerà l’oceano. Tutti quindi dovrebbero
fare il percorso, pensando all’oceano, guardando ai raggi di luce che entrano
tra gli alberi, per abituarsi alla luce del sole che sono destinati a guardare
alla fine del bosco.
Invece, pur essendo certi che il bosco
finisce, tutti si comportano come se non finisse mai. Tutti cercano di
attardarvisi, lasciandosi prendere da mille incombenze, perdendosi dietro alla
bellezza degli alberi, dell’erba e dei fiori.
Come in una corsa ad handicap alcuni partono
da più lontano, altri da più vicino,
alcuni proprio sull’orlo del bosco per cui non riescono neppure ad accorgersi
della sua esistenza, altri da molto lontano, e quindi arrivano stanchi ed
affaticati. Alcuni vi arrivano attraverso un bosco che si dirada per cui vedono
sopraggiungere l’oceano da lontano, per altri invece il bosco s’interrompe d’un
tratto e si trovano all’improvviso di fronte all’oceano. Per alcuni infine tra
il bosco e l’oceano c’é una palude nella quale finiscono sommersi. Una palude
putrida che rende faticoso il respiro, infette e dolorose le ferite. Una palude
che li dovrebbe portare a cercare con ansia l’oceano, eppure anche in quella
cercano di attardarsi, preferendola comunque all’oceano
Ad alcuni e’ assegnato un sentiero molto agevole,
tra l’erba morbida e gli alberi curati. Un sentiero lastricato, dal quale però
è quasi impossibile vedere i raggi del sole. Quelli che camminano su questi
sentieri però non si abituano alla luce,
e quando d’un tratto s’apre l’oceano, spesso restano abbagliati, e
finiscono per annegare e sprofondare
nella notte degli abissi.
Ad altri invece è toccato un sentiero che
finisce tra i rovi e le spine, che sale tra le rocce impervie e pericolose. È
un sentiero che richiede solo fatica e
sofferenza, ma dal quale si riesce anche a vedere il sole. Vincendo il dolore e la fatica, tra
le rocce, al di sopra degli alberi, si ritrova il sole, e ci si abitua sempre
più alla sua luce, per poterla poi meglio apprezzare e godere nell’oceano.
«Dove è la giustizia?» grida chi sale sulle
rocce, con grande sforzo e grande dolore, guardando gli altri che se ne vanno
passeggiando nel bosco curato e pianeggiante.
«Dove è la giustizia?» grida chi è nella
palude fetida, dalla quale sa che non si può tornare indietro, e nella quale
comunque annaspa, accettando il dolore, pur di ritardare in qualche modo
l’arrivo all’oceano.
E non riescono a darsi una risposta perché,
contro ogni logica, vogliono trovare il
senso e la risposta all’interno del
bosco!
Chi guarda invece le immagini dall’alto e vede
allo stesso tempo il bosco e l’oceano, nella diversa prospettiva, vede che
tutta la scena ha una logica intrinseca, che trova un senso nell’oceano, invece
che nel bosco. Semmai l’ingiustizia è per
quelli che passeggiano comodamente e che poi alla fine del bosco,
abbagliati dalla luce alla quale non erano preparati, finiscono tra le onde e
si perdono per sempre...
Comunque, da lassù, dal cielo, quel formicolio
di uomini, che si muove nel bosco,
andando verso l’oceano, ha una sua
bellezza ed una sua armonia. Tutto sembra coerente e giusto!
Tutto dovrebbe trovare un senso ed una logica
nel fatto che gli uomini dai diversi percorsi, dovrebbero guardare gli uni agli
altri, scambiarsi informazioni,
aiutarsi e sorreggersi a vicenda. La brezza che si diffonde nel bosco, tra gli
alberi, dovrebbe portare un sentimento d’amore, e quegli uomini dovrebbero sentirsi fratelli, pronti ad aiutarsi. La diversità tra
loro dovrebbe diventare la loro ricchezza.
E invece tra loro c’é solo odio ed invidia. La
diversità, diventa motivo perché a gruppi si alleino gli uni contro gli altri.
Avanzano verso l’oceano in guerra tra loro, e presi dalla foga dello scontro,
si dimenticano che c’è l’oceano, che il bosco ha una fine.
Ma lassù tra le rocce, chi più ha sofferto, è arrivato in alto nella
luce, e vede che la luce, si perde lontano nell’oceano e lo grida agli altri.
Stremato e ferito, sembra quasi abbia voluto
caricarsi delle sofferenze e dei dolori degli altri. Anche per loro infatti è
salito lassù, per merito delle sue ferite e dei suoi sacrifici, che gli hanno
consentito di salire così in alto, ad
intuire in lontananza l’oceano, anche gli altri possono ritrovare la strada. Erano sperduti come un gregge, ma
nel suo grido, nel suo richiamo e nella sua indicazione, si sono ritrovati.
Isaia nel suo canto non preannuncia Cristo,
ma, a mio avviso, anticipa la visione del mondo che avrebbe portato Cristo: la
visione del mondo rivoluzionaria, per la quale gli ultimi sono i primi.
Non saranno! Ma sono!
La dottrina della Chiesa direbbe Tolstoj dice
«saranno» e in questo futuro consolatorio mette in pace le coscienze di tutti.
Ma la dottrina di Cristo dice «sono». Quando si dice che Cristo vive in chi
soffre, non si usa un modo di dire, ma si riporta l’affermazione fondamentale del
cristianesimo.
Anche il riferimento di Isaia diventa in
questi termini più esplicito:
«Il
braccio del Signore si è manifestato
«a
chi non ha apparenza né bellezza
«per
attirare i nostri sguardi,
«non
splendore per potercene compiacere.
«Disprezzato
ed allontanato dagli uomini,
«uomo
dei dolori che ben conosce il patire,
«come
uno davanti al quale ci si copre la faccia,
«era
disprezzato e non ne avevamo alcuna «stima, eppure egli è stato caricato dei
nostri «dolori e delle nostre sofferenze”.
Non vedo come si possa ritrovare in queste
parole di Isaia il preannuncio di Cristo
che «non ha apparenza nè bellezza», vedo invece il preannuncio di una religione
che valorizza chi prima era disprezzato, che mette in prima fila, chi prima
veniva nascosto con vergogna, perché «non ha apparenza né bellezza».
Solo se
pensiamo che quanti soffrono sono guida
ed occasione per chi intende esercitarsi a valorizzare e sviluppare il proprio
spirito, riusciamo forse anche a capire il perché il Figlio di Dio, vivendo da
uomo, abbia voluto soffrire e morire sulla croce.
Non per salvarci con il suo sacrificio!
Sarebbe dopotutto assurdo in sé, e troppo comodo per l’uomo!
Ma per insegnarci il senso della sofferenza e
della morte. Per insegnarci ad
affrontare in positivo l’esperienza della sofferenza e della morte: della fine del bosco che si apre negli
orizzonti sconfinati dell’oceano.
Cap. 30.
Se Cristo non è
risorto vana e la nostra fede.
Tutti i Vangeli concordano nel racconto che
Cristo è risorto. Concordano molto meno invece, nel dirci come era il risorto.
Riesce difficile capire come fossero le sue sembianze, dal momento che neppure
gli amici più intimi, vedendolo, l’hanno riconosciuto. Per farsi riconoscere,
ha dovuto mostrare i segni della crocifissione.
Da un lato viene presentato risorto come
spirito, una sorta di fantasma capace di attraversare i muri. Ma poi si ferma
anche a mangiare, rendendo difficile capire come possa mangiare uno spirito
immateriale.
Ma anche in questo caso il mio problema non è
di interpretazione. Anzi, per la mia riflessione direi che è del tutto
ininfluente che sia risorto o meno, per questo non capisco la affermazione di
Paolo, nella prima lettera ai Corinzi, quando dice che «Se Cristo non fosse
risorto la nostra predicazione sarebbe vana».
Mi pare perfetto il suo ragionamento: il
figlio dell’uomo viene dalla polvere e quindi deve tornare alla polvere, mentre
il figlio di Dio venendo dal cielo deve tornare al cielo. Quello che è in noi
il figlio dell’uomo, la carne, resterà alla terra, quello che è in noi il
figlio di Dio tornerà con l’Assoluto.
«Come tutti muoiono in Adamo, così tutti
riceveranno la vita in Cristo!»
Ci ha salvati Cristo non perchè è morto, non
perché è resuscitato, ma perché è nato, perché è venuto in terra, come uomo,
per mostrarci la strada per diventare
come lui, figli di Dio.
Saremo simili a Cristo che viene dal Cielo,
non perché è resuscitato, ma perché, venendo dall’Assoluto non poteva che
tornare all’Assoluto.
La frase di Paolo avrebbe un senso solo se
tradotta in: «vana sarebbe la nostra predicazione se Cristo fosse morto». Ma
Cristo non è morto, come dice lo stesso Paolo la morte è trasformazione e
Cristo per primo si è trasformato «da corpo corruttibile a corpo
incorruttibile», da una entità composta di corpo e spirito in una entità
composta di solo spirito.
Secondo una metafora che ricorre spesso nel
Vangelo e che Paolo riporta nella stessa epistola, il seme e’ finito in terra e
non c’è più, ma non è morto, si è trasformato, o, è “risorto”, che dir si
voglia, nella pianta nata da lui.
Lazzaro non è morto. E’ stato resuscitato solo
per testimoniare che non era morto.
La crisalide non è morta. È rimasto il bozzolo
senza vita, ma la farfalla si è librata nel cielo senza fine, a disegnare, nel
respiro dell’aria, la speranza degli uomini.
Le crisalidi nel loro mondo, non sanno che
esistono le farfalle, non le possono vedere. Non sanno che esiste un mondo
pieno di aria, di sole e di luce.
Chissà se le farfalle, volando verso il sole,
possono vedere le crisalidi!...
Io penso di sì, ma l’immagine è troppo
superficiale rispetto alla profondità del messaggio che mi pare di intuire nel
Vangelo e che cerco invano di mettere a fuoco.
Vorrei
tentare un’ultima strada, tornando al paragone di Cristo che scopre la divinità
dell’uomo-figlio di Dio, con Einstein
che scopre la relatività della materia. Il paragone non regge, si potrebbe
obiettare, perché Einstein ha scoperto, Cristo invece ha introdotto
nell’umanità la possibilità di diventare figli di Dio. Ma di fronte al fatto
essenziale che ora questa possibilità esiste, è secondario sapere se è stata
introdotta o è stata scoperta. Oggi esiste la divinità possibile dell’uomo,
come la relatività della materia,
Einstein dicendosi relativo e Cristo dicendosi
figlio di Dio rendono cosciente l’uomo della peculiarità del proprio modo di
essere, rispettivamente nella propria relatività e divinità. Ma l’uomo onora
Einstein non come il primo dei relativi, ma come colui che ha introdotto la
relatività. Così Cristo va visto e onorato non come il primo dei figli di Dio,
ma come colui che ha rivelato (o introdotto) l’intuizione dell’uomo figlio di
Dio.
Se così è, allora il Vangelo non è il libro
del figlio di Dio nella storia, ma il libro del primo uomo che parla da figlio
di Dio. Se è così, le parole di Cristo devono essere le parole che io, figlio di Dio, rivolgo a me uomo, estrapolate da quelle che Cristo ha
dovuto dire come figlio di un Giuseppe palestinese.
Con
questa chiave di lettura il Vangelo assume una luce completamente diversa ed in
qualche modo più attuale e più facilmente comprensibile. Diventa più facilmente
interpretabile in particolare il testamento spirituale che Cristo lascia ai
suoi nell’ultima cena.
Non
ai suoi ma a me! È infatti anche il testamento che in me, l’io figlio di Dio,
lascia all’io che deve tornare alla polvere.
Dove
io vado tu non puoi venire,
ma
conosci già la via,
perché
io (il figlio di Dio che è in te) sono la via.
Nessuno
va all’Esistenza, se non prendendo coscienza di essere figlio dell’esistenza.
Chi
riconosce l’Esistenza in sè, vede l’Esistenza, perché l’esistente è
nell’Esistenza.
Ma
io, come momento dell’Esistenza. devo vivere nell’Esistenza, perché tu con la
tua esperienza di esistente possa venire dove sono io, infatti questa è la vita
eterna: conoscere l’Esistenza.
Solo
quando io sarò nell’Esistenza tu potrai avere coscienza (nello Spirito), del
rapporto esistente tra te e l’Esistenza.
Con
questo però la mia riflessione invece che concludersi si apre su nuovi
orizzonti. Come quando si cammina in montagna e ci si accorge che la
sommità raggiunta non è la vetta.
Su
questo sentiero ho trovato che il figlio di Dio che è in me, deve morire al
mondo per vivere nell’Esistenza e riuscire ad attrarvi il figlio dell’uomo che
pure è in me.
La
lacerazione dell’uomo che guarda al cielo ed è attratto dalla terra si
ricompone nell’uomo sintesi di due poli l’uno dei quali deve vivere
nell’Esistenza per consentire all’altro di finire nell’eternità dell’Esistenza.
Scoprendo
la verità della via del proprio Sé che vive nell’Esistenza, l’esistente troverà
la vita eterna.
Cap. 31.
La New Age.
Dopo aver cercato di riflettere su come dal
Vangelo di Giovanni possa venire una nuova prospettiva per l’individuo, vorrei
chiudere con tre spunti di riflessione sulla possibilità di una prospettiva
nuova, oltre che per il singolo, anche per l’umanità e per il mondo. E’
possibile pensare, come chiude Giovanni nell’Apocalisse, che ci sarà una nuova
Gerusalemme?
L’idea dell’imminenza d’un cambiamento
radicale nell’umanità è già nel Vangelo. Si sviluppa poi negli Atti degli
apostoli e nelle epistole. A mio parere però va messa in relazione e spiegata
con il fatto che gli Ebrei si attendevano il Messia salvatore e liberatore. Per
accettare come Messia quel Cristo che era morto sulla croce, come un
malfattore, dovevano per forza pensare che la salvezza fosse solo rimandata, in
qualche modo sospesa, per un breve periodo.
Giovanni chiude il suo Vangelo con Pietro che
domanda a Cristo cosa sarà di se stesso, cioè «del discepolo prediletto di
Gesù, quello che nella cena si era appoggiato al suo petto e gli aveva chiesto
chi fosse il traditore».
Gesù gli disse:
«Se
voglio che lui viva fino al mio ritorno, che t’importa? Tu seguimi!»
Per questo, tra quelli che credevano, si
diffuse la voce che quel discepolo non sarebbe morto. Però Gesù non aveva
detto: «Non morirà». Aveva soltanto detto: «Se voglio che lui viva fino al mio
ritorno, che t’importa?».
Giovanni chiude quindi con la convinzione che
ci sarà un ritorno di Cristo. Su questa convinzione di Giovanni, più volte,
nella storia dell’umanità, si è annunciata l’imminente venuta di Cristo. Anche
ai nostri giorni, l’aprirsi d’un nuovo millennio, fa immaginare che l’apertura
possa coincidere con la nuova venuta. Si sono fatte anche delle date. Ma non
essendo avvenuto nulla nei tempi previsti, c’è qualcuno che sostiene che
sarebbe già tornato, ma se ne sta nascosto da qualche parte, in attesa di
manifestarsi, un po’ come ha fatto per trenta anni a Nazareth.
Come il sacrificio per la salvezza, così il
ritorno per la liberazione, fanno parte, a mio avviso, del contesto ebraico per
cui Cristo viene visto a completamento e conferma del Vecchio Testamento.
Ma se invece Cristo è l’Unigenito figlio di
Dio, intervenuto nella vicenda dell’uomo in un preciso momento della sua
storia, quello che c’era prima e ci sarà dopo è ininfluente. Il fatto
assolutamente originale, d’una portata così madornale da sfiorare il paradosso
si e’ già verificato. Proprio per l’assoluta grandezza e originalità non ha
senso pensare che possa ripetersi. Ma il problema è un altro.
Il fatto a mio avviso che mette in discussione
la veridicità dei Vangeli non è un problema storico o storiografico. È in fondo
secondario che sia veramente esistita la figura storica di Cristo. Ancor meno
importa sapere se era delle corrente degli Esseni o degli Zeloti, o quali siano
stati i dettagli della sua vita, che cosa veramente abbia fatto. Il problema
vero è un altro: se il Figlio di Dio s'è incarnato per salvare l'umanità,
perché l'umanità non si è salvata?
Perché questi duemila anni di storia dopo di
Cristo, non hanno visto un uomo migliore di quello dei duemila anni precedenti?
Come mi sono chiesto in altra parte, perché l'olocoausto, se l'uomo è Figlio di
Dio?
Tornando al ragionamento iniziale dell'idea del mondo che si fa uomo,
a significare che l'uomo diventa la figura centrale dell'universo, si
potrebbe immaginare che l'uomo abbia
necessità di un periodo per interiorizzare l'idea, e quindi per realizzarla.
L'uomo in questi duemila anni ha dimostrato di
non essere in grado di dominare il mondo, anzi, al contrario, ha messo in moto
processi di sviluppo capaci di distruggere il mondo, processi di sviluppo che
hanno reso sempre più difficile il suo rapporto con la natura, sempre maggiore
la sua alienazione, sempre più grande la sua infelicità.
Oggi però noi assistiamo ad una nuova
rivoluzione, attraverso le tecnologie
elettroniche e le biotecnologie, l'uomo dimostra veramente di essere in grado
di diventare l'idea del mondo, capace di modificare e quindi di controllare i
processi di sviluppo del mondo.
All'era dell'evoluzione per acquisire gli
strumenti di controllo del mondo, fa seguito l'era in cui l'uomo dimostra di
aver acquisito gli strumenti e mette in pratica le conoscenze. Così nei
rapporti con Dio, all’era della sua vana ricerca con la ragione, può far
seguito quella della sua conoscenza, avendolo
ritrovato nell’esistere individuale dei figli di Dio.
Ma quando verrà?
Secondo le teorie astrologiche cui si richiama anche la New
Age, per la teoria della processione degli equinozi, l'umanità avanza per ere
successive di 2150 anni. Con la venuta di Cristo s'è chiusa l'era dell'Ariete
ed è iniziata quella dei Pesci, ci stiamo ora preparando all'avvio dell'Era
dell'Acquario. Io non credo all'astrologia, posso però credervi come
simbologia.
E se stesse per venire il terzo giorno, nel
quale Cristo ha promesso che sarebbe resuscitato? È vero che non si possono
confondere i giorni con i millenni...È anche altrettanto vero però che il
Vangelo ci dice che Cristo è già resuscitato, proprio al terzo giorno…
Ma chi era resuscitato e cosa si intende per
resuscitato se le donne non l'hanno riconosciuto, se non l'hanno riconosciuto i
discepoli sul lago di Tiberiade?
È possibile una rilettura del Vangelo alla
luce del messianismo che anima l’inizio del terzo millennio? Non tanto per
immaginare che Cristo possa tornare, quanto per pensare che Cristo possa
finalmente venire, perchè l’uomo è finalmente diventato capace di sentire Dio e
di sentirsi figlio di Dio, senza la mediazione del rito e della forma.
Come spiegare la stranezza di questa nostra
società che viene chiamata scristianizzata e laica, e che invece ripropone il
vangelo degli ultimi come nessun regno cristiano aveva fatto! Si pensi agli handicappati di cui Cristo
ha voluto popolati i Vangeli, che poi sono spariti nel cristianesimo, sono
stati nascosti come una vergogna, sono
stati abbandonati come segno di peccato e che oggi riappaiono in termini di
pari dignità, di pari opportunità.
Non sono evidentemente in grado di immaginare se questa nuova era, sia
imminente o remota, ritengo però non si debba escludere che possa venire.
Facendo il verso a Paolo credo si possa dire
che se Cristo non è nato, vana è la nostra predicazione. Se però è nato ed è
veramente il figlio Unigenito del dio
Unico, non può essere nato per alcuni popoli, per alcune civiltà. Dovrà venire
il giorno in cui tutti lo riconosceranno e crederanno in lui!
E forse il
giorno non è lontano, se non pretendiamo che Cristo venga conosciuto ed
accettato attraverso i dogmi del cattolicesimo, ma in spirito e verità, come
modo nuovo per l’uomo di vivere il rapporto con Dio ed il rapporto tra gli
uomini. Se non riteniamo che la nostra speranza di credere, debba per forza
trovare risposta solo nel credo
apostolico e romano
«Che cos’è la verità?» chiede Pilato a Cristo,
ma poi se ne esce senza neppure attendere la risposta.
La verità alla quale Cristo «è venuto a
rendere testimonianza», è il fatto che l’uomo è figlio di Dio. Una verità sulla
quale potrebbero facilmente trovarsi d’accordo tutti i popoli della terra, in
una infinità di forme attraverso le quali manifestare il proprio rapporto con il
padre, tutti d’accordo però sul sentimento d’amore che deve legare i figli
dello stesso Padre.
Se questa nuova era stia per venire come dice
la New Age, e i tempi siano maturi perchè all’era dei pesci, (simbolo che è
stato assunto dai cristiani), che ha visto solo guerre e miserie, odio e
crudeltà, subentri quella dell’acquario fatta di armonia e di pace, non so.
Certo che l’acquario «la figura dell’acquaiolo nell’antico zodiaco, simbolo
della corrente che appaga una sete antica,
sembra essere il simbolo più adeguato», a marcare la speranza dell’uomo
postmoderno, che cerca di superare l’angoscia per il nonsenso della propria
esistenza.
Ma queste considerazioni vanno oltre i limiti
che m’ero imposto per la mia riflessione.
‘
Cap. 32
Una nuova Utopia.
«Il mio regno non è di questo mondo» chiarisce
esplicitamente Cristo a Pilato. Dopo questa precisazione, non avrebbe senso
ricercare se nel Vangelo, oltre alla costruzione di un uomo nuovo, si parli
della costruzione di un nuovo mondo, d’un nuovo sistema politico e sociale.
Ma un uomo nuovo, non può non costruirsi un
mondo nuovo, e dalle caratteristiche di novità dell’uomo, si può risalire alle
caratteristiche di novità che dovrebbe avere l’organizzazione che l’uomo
intende realizzare per sè.
Qualcuno ha pensato che dal Vangelo uscisse
l’indicazione per una comunità degli eguali, per un comunismo cristiano. Non
capisco da dove si possa trarre una tale interpretazione. I figli dell’Uomo
sono profondamente diversi, gli uni hanno cinque talenti gli altri uno solo,
gli uni si smarriscono, gli altri restano sempre fedeli. La comunità degli
uomini non può non tener presenti queste diversità, può porsi l’obiettivo di
ridurle, non può porsi l’obiettivo di eliminarle.
Ma la comunità degli uomini è allo stesso
tempo comunità dei figli di Dio, che si regge su un unico comandamento:
«amatevi gli uni e gli altri come io vi ho amato».
Anticipando in qualche modo il tema, ho
parlato della possibilità di una nuova era di
democrazia fondata e giustificata nell’ispirazione cristiana. Io sono
convinto che solo l’aggettivo renda possibile il sostantivo. La democrazia
infatti è stata giustamente definita il più imperfetto dei sistemi politici.
Nella piramide dell’umanità, è il
sistema che consente alla maggioranza dei peggiori, di comandare sulla
minoranza dei migliori, facendo in modo che sia la base e non il vertice a
guidare la piramide. L’unica variante è nella demagogia, che si realizza quando
alcuni furbi del vertice sanno organizzare il consenso, in modo da essere
scelti dalla maggioranza della base.
L’idea invece che si ricava dal Vangelo
giustifica il concetto di democrazia legittimandolo e superandolo allo stesso
tempo.
Se infatti l’uomo, nella sua individualità, è
figlio di Dio, l’origine del potere politico è in lui, non nel popolo. Il
sistema politico che può nascere su questa premessa, è soltanto quello del
federalismo nella accezione etimologica del termine.
Gli individui riconoscono, nell’interesse
individuale, l’opportunità di stare assieme. Utilizzando infatti assieme le
risorse individuali, realizzando le «economie di scala» , si determina un
vantaggio che può ricadere a favore di ognuno.
Ma lo stare assieme implica che si definiscano
delle regole per la convivenza, che si nomini chi ha il potere di definirle e
di farle rispettare. Nasce quindi il «foedus», il patto tra più individui, che
si accordano sul principio di accettare quel che la maggioranza ha stabilito,
delegando a rotazione, ad alcuni individui
eletti, di gestire le regole della convivenza e le risorse che si è
stabilito di mettere in comune, per gestirle unitariamente nell’interesse di
tutti.
Il patto nasce a livello locale, per la
soluzione dei problemi della comunità locale. Ma poi le singole comunità si
rendono conto che certi problemi devono essere risolti per favorire altre
economie di scala e trovare soluzioni più efficienti, ad un livello superiore.
Delegano quindi la soluzione dei problemi, in termini di sussidiarietà ad una
aggregazione di comunità, della dimensione ottimale rispetto ai problemi da
risolvere, nominando le persone incaricate della gestione della regole e delle
risorse. Da un livello, che solo per capirci, potrebbe essere definito
provinciale si passa ad un livello regionale e quindi ad un livello statale.
C’e’ infine un livello di delega che deve
essere sviluppato ancora: quello a livello mondiale. La globalizzazione
dell’economia implica che si debbano definire delle regole e gestire delle
risorse a livello mondiale.
Ad ogni
livello di delega, nell’atto stesso della delega, si accetta, riconoscendola
come valore da mantenere, la diversità tra gli individui tra le regioni e tra
gli Stati, ma si riconosce anche la necessità che questa diversità, debba
essere ricomposta per consentire una decisione che superi le opinioni
individuali. Si riconosce così nel principio della volontà della maggioranza,
il criterio sul quale si introduce la
norma che deve essere accettata anche dalla minoranza.
Utopia o soluzione possibile della convivenza
tra gli uomini figli di Dio, che si lasciano guidare dall’unico comandamento,
quello dell’amore?
Il rischio lo evidenzia molto bene D.H
Lawrence nel paradosso: «l’amore cristiano salverebbe l’universo, ma c’è
l’invidia cristiana che non sarà mai soddisfatta, fin quando non l’avrà
distrutto. Quando infatti si inizia ad insegnare l’affermazione
dell’individualità alle grandi masse popolari, le quali, qualunque cosa si
dica, sono formate di esseri difformi, incapaci di una totale soggettività,
allora si finisce con il produrre degli invidiosi pieni di rancore e di
rabbia».
La soluzione del Vangelo di Giovanni, è nella
preghiera di Cristo al Padre nell’ultima cena. Ut unum sint. Ti prego perché
siano una cosa sola come io e te lo siamo.
Non è neppure per Cristo quindi, un dato
acquisito e scontato. Anche per lui è una aspirazione. Ma c’è motivo per
ritenere che i tempi per il realizzarsi di quell’aspirazione siano maturati. L’uomo può riuscire ora capire che l’amore non
è negazione di sè, che non c’è contrapposizione, tra la propria volontà di
potenza e l’amore con il quale si rapporta con gli altri.
Paradossalmente l’amore è un atto di estremo
egoismo, perché nulla come l’amore realizza l’individuo. Per questo l’amore può
cancellare l’egoismo e l’invidia, e sull’amore si può concepire una nuova società mondiale.
Forse si stanno sviluppando oggi le condizioni
perché possa essere superata la maledizione di Adamo e l’uomo può cominciare ad
utilizzare nel suo interesse, e non contro se stesso, il vantaggio acquisito
della conoscenza del bene e del male.
Cap. 33
L’Apocalisse.
Le considerazione che si sono fatte, sulla
possibilità che si apra una nuova era per l’umanità, e quelle sulla possibilità
per l’umanità di trovare un nuovo modo di organizzarsi, a mio avviso, ci
permettono di concludere questa serie di spunti, tornando a Giovanni.
Si e’ esaminato diffusamente il suo Vangelo,
si sono richiamate anche le epistole, ma a lui viene anche attribuito il libro
più strano ed incomprensibile del Nuovo Testamento: l’Apocalisse.
In verità molto si è discusso e si discute se
il Giovanni dell’Apocalisse sia lo stesso del quarto Vangelo. Chi sostiene che
si tratti di due persone diverse, lo fa anche sulla considerazione che i testi
sono troppo differenti, per essere ricondotti alla stessa persona. Io credo
invece che l’autore possa essere lo stesso, perchè mi pare logico che Giovanni
il quale aveva cominciato ricordandoci che «in principio erat Verbum», concluda
profetizzando la Nuova Gerusalemme.
«Questo libro», così si apre l’Apocalisse,
«contiene la rivelazione che Cristo ha ricevuto da Dio, per far conoscere ai
suoi servitori, quel che tra breve deve accadere. Gesù ha mandato il suo
angelo, al suo servo Giovanni, per farglielo sapere».
Se diamo un valore relativo all’espressione
«tra breve» e andiamo a cercare il senso profondo della visione profetica di
Giovanni, troviamo la descrizione, resa attraverso immagini fantasiose, di
quella che è stata in questi duemila anni
l’umanità, malgrado Cristo.
Cristo è venuto a salvare l’umanità, ma la
rivelazione è (apocalisse è sinonimo di rivelazione) secondo Giovanni, che
prima dell’affermarsi della salvezza, nella nuova Gerusalemme, si dovrà passare
attraverso i sette sigilli, le sette trombe, le sette coppe e la nuova
Babilonia.
Al di là dei simboli, parlando dei sigilli che si devono aprire, è chiaro il
riferimento ad una periodo nel quale «la pace è sparita dalla terra e si è
lasciato che gli uomini si scannassero tra loro» e gli abitanti della terra
«muoiono attraverso le armi, le carestie
e le epidemie».
Le trombe annunciano a ripetizione la morte
d’un terzo di quanto vive sulla terra, ed il succedersi di flagelli. Le coppe
infine vengono versate sul mondo e rendono il mondo invivibile, e «tutti gli
animali che erano nel mare morirono, il sole si fece ardente per tormentare gli
uomini con il suo calore, l’acqua dei fiumi divenne sangue e i fiumi si
prosciugarono».
Se Giovanni voleva anticipare profeticamente
la storia dell’umanità dopo Cristo, s’è certamente avvicinato alla realtà!
Infine, nella sua visione, il mondo diventa una nuova Babilonia dominata dalla
«grande prostituta a cui si sono prostituiti i re della terra e tutti gli
uomini della terra».
Ma Babilonia sarà distrutta, e dal cielo
scenderà una Nuova Gerusalemme. Nella nuova Gerusalemme confluiranno tutte le nazioni, e avremo finalmente il
mondo di pace, per il quale è venuto al
mondo, il figlio di Dio.
Il riferimento, con l’immagine della nuova
Babilonia ad una società nella quale avranno valore solo il denaro ed i beni materiali è abbastanza scoperto,
come è scoperto che, con l’avvento della Nuova Gerusalemme si immagina
l’avvento d’un nuova società, con un diverso modo di organizzarsi della
comunità umana, su una diversa scala dei valori.
È questa nella quale viviamo, la nuova
Babilonia? È quindi prossimo l’avvento della Nuova Gerusalemme? Non so. Tanti
nella storia, in tanti momenti, hanno pensato di vivere nella nuova Babilonia.
Forse è anche possibile ricostruire la storia
di questi due millenni vedendovi lo sviluppo passo per passo della profezia di
Giovanni, come è possibile adattare le profezie di Nostradamus, e giungere alla
conclusione che sì, la nuova Gerusalemme è vicina.
A me interessa solo concludere, ricordando che
Giovanni immagina alla fine, questa nuova Gerusalemme, caratterizzata da «un
nuovo cielo ed una nuova terra» che diventerà «l’abitazione di Dio tra gli
uomini, essi saranno suo popolo ed egli sarà «Dio con loro». Dio asciugherà
ogni lacrima dai loro occhi. La morte non ci sarà più. Non ci sarà nè lutto nè
pianto nè dolore.» E Dio disse: « A chi ha sete io darò gratuitamente l’acqua
della vita. Io sarò loro Dio ed essi
saranno miei figli».
Giovanni apre il suo Vangelo con la
rivelazione che ognuno di noi può diventare figlio di Dio, chiude la sua
Apocalisse con la visione d’un mondo, nel quale Dio non è più esterno ma è «Dio
con loro», o forse meglio «Dio in loro».
Se il traguardo sia prossimo o lontano non ha
importanza. Credo sia comunque una prospettiva verso la quale ha senso
camminare, sia sul piano individuale che sul piano collettivo.
Non in
diverse processioni schierati dietro a diverse croci e diverse bandiere,
perché, ha detto Cristo: «Viene il
momento in cui l’adorazione di Dio non sarà più legata a questo monte o a
Gerusalemme; viene un ora, anzi è già
venuta, in cui gli uomini adoreranno il Padre guidati dallo spirito e dalla
verità di Dio».
Conclusione.
Ci si può porre il problema di come concludere
solo se ci si era posti l’obiettivo di arrivare a delle conclusioni. Ma in
questo caso, come si è detto nell’introduzione, la migliore conclusione potrebbe essere lo stimolo a proseguire.
L’insoddisfazione del lettore è la stessa
dell’autore che non è riuscito ad andare oltre degli appunti, esposti alla
rinfusa.
Ma forse questa insoddisfazione unita al
desiderio di approfondire la ricerca per conto proprio, può essere un risultato
tutt’altro che irrilevante.
Autore e lettore sono presi dallo stesso
desiderio di ripartire da capo e riscrivere tutto, rivedendo certe
affermazioni, sviluppando e approfondendo i concetti. D’altra parte se
l’approccio a Dio deve essere in termini di conoscenza continua, se l’approccio
al mondo deve essere in termini di divenire, anche questa riflessione non può
non essere in un continuo divenire.
Qualcuno può giudicare la mia riflessione fredda. Ma voleva essere
soltanto una scintilla. E la scintilla non ha calore. Dalla scintilla può
nascere un fuoco, ma io non ho voluto accendere nessun fuoco. Se l’incendio si
sviluppa o meno, dipende dal terreno su cui la scintilla va a cadere.
Qualcuno può accusarmi d’aver avuto la
presunzione di riscrivere il cristianesimo. Al contrario io non credo ci possa
essere un cristianesimo, come non credo ci possa essere un buddismo. Cristo come
Buddha ci ha dato delle indicazioni per una strada. Ma il percorso, deve
diventare un nostro percorso!.
Se qualcuno, dicevo nell’introduzione, alla
fine del suo percorso, si ritiene pronto per proseguire assieme alla Chiesa,
può entrare nella città’. Il mio percorso non può essere visto né contro né a
favore della Chiesa, è un percorso fuori e prima della Chiesa.
È, ripeto,
il percorso dell’uomo della strada, che continua a cercare, come dice
Vattimo, credendo di poter credere, e comunque nella speranza di poter credere.
Nell’introduzione dicevo che avrei cercato
nella religione in particolare le risposte per superare la paura della morte.
Che cosa posso dire d’avere trovato al riguardo nel Vangelo di Giovanni?
La falce che tutte pareggia l’erbe del campo è
diventata meno tagliente? La rappresentazione più usuale della morte è quella
dello scheletro che, con la falce, pone termine alle vite degli uomini, come se
fossero fili d’erba. Una rappresentazione spaventosa, da incubo, come incubo è
per l’uomo la morte. Ogni tentativo di eliminarla è vano, riemerge prepotente
dai fallimenti della scienza, riemerge prepotente dall’inconscio. Appunto come
un incubo.
La visione negativa della morte deriva però
dalla visione positiva della vita. Se questa viene raffigurata come un fiore,
la morte non può che essere la falce che lo recide. Ma non è corrette
l’immagine del fiore! Più propriamente la vita dell’uomo, può essere riprodotta
nell’immagine del seme: un periodo di vita nella terra in attesa di vedere il sole.
L’uomo come il seme si muove nella terra, e
matura lentamente fino al giorno nel quale, riesce a vedere il sole. Quando il
filamento che si è sviluppato a fatica dal seme, incontra finalmente la luce
del sole, è come se il seme scoppiasse, annullandosi nella sua morte, per far
luogo alla pianta. Non è facile la vita del seme nella terra! A volte le scarpe
del contadino calpestando la terra, lo fanno scendere in profondità annullando
gli sforzi fatti fino a quel momento per risalire. E la terra calpestata è
diventata dura, difficile da penetrare! A volte la terra è greve e arida, e ogni movimento provoca sofferenza.
Sembra di avanzare in un groviglio di rovi!. A volte invece la pioggia la rende
molle e viscida e, come nelle sabbie mobili, cercando di avanzare si
sprofonda.
Trasformandosi,
nella sua dimensione di seme, l’uomo vive nella sofferenza la sua
trasformazione. Adattandosi, riesce anche in qualche modo a trasformare la
sofferenza in gioia. Si convince dell’assolutezza della propria condizione di
seme.
Tutto si esaurirà nella notte della terra!
E diventerà terra lo stesso seme,
marcendo. «Non ci sarà mai la luce del sole» dirà il seme nella sua
disperazione. Anzi si convincerà che non c’è il sole, e che quindi l’esito
della sua vita non può che essere nella disperazione della morte.
«Nessuno è tornato a dire di aver visto il
sole!» E come potrebbe una pianta tornare alla condizione di seme?
Il problema della morte potrebbe essere posto
nei termini nei quali lo poneva Socrate. O
è come un non essere nulla, e chi è morto non può pertanto avere alcuna
sensazione, o è migrazione dell’anima da questa condizione terrena ad un’altra
condizione.
In nessuno dei due casi può essere considerata
un male perché nel primo caso, non esiste. Come sintetizzerà efficacemente
Epicuro: «quando ci siamo noi la morte non c’è, quando invece ci sarà la
morte
non ci saremo noi», se invece la morte e’ trasmigrazione dell’anima alla
condizione di immortalità deve essere considerata una fortuna e non un male per
l’uomo.
Cristo introduce una terza possibilità: che la
seconda opzione non sia automatica ma una conquista. Da qui una storia di gente
che ha sacrificato la vita per potersi conquistare la vita eterna. Da qui anche
una storia di ingiustizie fatte accettare e subire con il miraggio della vita
eterna. Da qui un assurdo cumulo di imposture, di indulgenze pagate. La
vita ridotta ad una scommessa sulla vita
eterna.
Ma la vita eterna si conquista in altro modo.
Ognuno di noi, in quanto figlio di Dio, è
per sé, la resurrezione e la vita, e chi crede nel figlio di Dio che è
in lui e vive questa realtà, avrà la
vita eterna. E’ questo il concetto che ho voluto enfatizzare anche nel titolo.
La venuta del figlio di Dio nel mondo, non può
essersi esaurita in un uomo. Cristo, come dice Paolo è stato il primo dei
redenti, noi lo siamo alla stessa stregua.
Come lui è possibile che «risorgiamo» dalla carne, per vivere nel Padre
in una dimensione diversa da quella della carne, come un fiore che è sbocciato
dalla morte del seme, come una farfalla che nella morte della crisalide ha
trovato la possibilità per librarsi nella dimensione del volo.
Le risposte non hanno certo esaurito il mio “bisogno di sapere”. Non so se alla
fine mi sia rimasta un po’ d’acqua nei secchi, comunque ho come l’impressione
di aver intravisto una strada nuova, sulla quale, assieme ad altri, forse vale
la pena di provare a proseguire…
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