sabato 8 aprile 2017

Io, figlio di Dio.


 


 (pubblicato originariamente con lo pseudonimo di             Diver Dalce)

 Igino Piutti

 Io, figlio di Dio.
          Il Vangelo di un laico.





   


INTRODUZIONE

Perché la religione?
  Per vivere non serve la religione! L’uomo del duemila sta trovando tutte le risposte possibili ai perché della vita, ai perché dei fenomeni che lo circondano, ai perché dei sentimenti che si agitano dentro di lui. Non c’è più alcun motivo, per cui ci si debba dare delle risposte, risalendo  al mistero d’una esistenza esterna all’uomo, che consentirebbe di spiegare ciò che nell’uomo è inspiegabile.
  Non c’è più bisogno di pensare nè a Vulcano che scaglia i fulmini, nè ad Eros che trafigge con le frecce. Come i campi elettrici dell’atmosfera spiegano i fulmini, così possono essere spiegati in termini di attrazione o repulsione tra neuroni, nell’ambito di particolari campi elettrici attivi nella mente  dell’uomo, l’amore e l’odio tra le persone.
  In effetti in alcuni momenti di difficoltà, farebbe comodo poter pensare a qualcuno che, se pregato, può intervenire in aiuto. Per comodità allora  si può anche lasciare che il sentimento si aggrappi a questa finzione, si può cedere al mito ed alla poesia. La  ragione dell’uomo del duemila, sa  però che si tratta soltanto d’una finzione.
  L’idea del sole che ruota attorno alla terra dà luogo alla poesia del giorno, del suo alternarsi con la notte, del suo disperdersi nel tramonto, per riemergere nei bagliori dell’aurora. Perché non viverla, questa poesia, pur sapendo che la verità è quella della terra, che gira attorno al sole?
  Si potrebbe concludere che, per vivere, la religione può essere considerata al massimo una soluzione di comodo, ma, per non morire, la religione e’ indispensabile.
 Ed al desiderio di non morire, anche l’uomo del duemila, non ha saputo trovare risposte. Tutte le  spiegazioni  si fermano di fronte alla morte. Da una catena originaria di dna, si è sviluppato un corpo con meccanismi d’una complessità e d’una perfezione assoluta. Ma ad un tratto, il tutto si inceppa, per autodistruggersi in un putridume, che deve essere nascosto nel profondo della terra, o arso con il fuoco.

  Che senso ha tutto questo?
  Se questo è l’uomo, se questo è il destino d’ognuno di noi, che senso ha tuttavia costruire la finzione d’un destino diverso? Che senso ha, soprattutto, sacrificare quello che ci è dato a vivere, rincorrendo la fantasia d’una vita diversa, che si aprirebbe per noi dopo la morte e che deve essere conquistata rinunciando ai piaceri, seppure momentanei, di questa vita?
  Nessuno! Evidentemente! Ma prima di metterla da parte, questa idea di un’altra vita,  forse è il caso di verificare se debba essere ricondotta soltanto a frutto d’immaginazione poetica, a pura fantasia. o se, invece, quantomeno possa essere una ipotesi che vale la pena di tenere in considerazione.
  La prima difficoltà ad immaginare una vita eterna per l’uomo, nasce dal fatto che, per riconoscere questa possibilità, è necessario ammettere  che ci sia qualcosa nell’uomo, capace di durare in eterno. Devo poter pensare ad  un uomo fatto di anima e corpo, d’una realtà materiale e d’una spirituale. Solo così è possibile ipotizzare che, al venire meno del corpo, possa sopravvivere lo spirito.
  Cartesio aveva immaginato che nell’uomo coesistessero una res extensa, il corpo materiale, ed una res cogitans, la mente, immateriale. Diventava quindi conseguente, pensare che la parte immateriale, potesse avere una vita oltre la morte della materia.
  Ma l’uomo del duemila sa che la mente non è immateriale. Anche i sentimenti, che sembrerebbero riconducibili ad un piano diverso da quello fisico, in effetti non sono che il risultato di processi chimico-fisici, che interessano l’apparato neurologico del suo corpo.
  Di scoperta in scoperta, l’uomo è andato togliendo dal suo corpo ogni alone di mistero. S’è sbriciolato il fascino  d’uno spirito, costretto a convivere in un corpo che gli va stretto, e che rompe le catene, nell’anelito dell’eternità. A forza di scavare, la scienza ha riportato alla luce un corpo nel quale tutto è spiegato, o spiegabile, e, nel quale, soprattutto, tutto è riconducibile all’interno della fisicità e della materia.
   Una conoscenza che si risolve nella scienza, senza aver bisogno della filosofia, e tantomeno della metafisica.
  Ma perché proprio da questo percorso all’infinito della scienza, che scopre ogni giorno una verità più profonda, che supera quella precedente, non dovrebbe essere possibile riportarsi all’idea dell’infinito? Avendo scoperto che l’esistenza dell’uomo si sviluppa da una catena di dna, perché, ad esempio, si dovrebbe escludere che il risultato dell’esistenza sia riconducibile ad un’altra nuova catena di dna? Una catena immateriale, virtuale, con le informazioni che esistono, senza la necessità di alcun supporto. Un software, un programma,  costruito attraverso infiniti input, raccolti attraverso il corpo, ma capace di ripetersi all’infinito, pur avendo perso, con la morte del corpo, le linee di programma sulle quali è stato costruito.
  Da una catena invisibile, infinitesimale di dna, si è sviluppato il mio corpo. Quella catena aveva tutte le informazioni necessarie per costruire ogni elemento del mio essere, e su quelle  informazioni mi sono sviluppato. Il mio essere si è poi confrontato con l’ambiente e con la realtà storica nella quale è stato collocato ad esistere. Le informazioni che gli sono venute dall’esterno, hanno modificato le informazioni originarie. Alla fine della mia esperienza umana, sono quindi riconducibile ad una catena d’informazioni diverse, da quelle iniziali. In questo nuovo sistema d’informazioni, c’è tutto il mio essere, maturato nell’esperienza del mondo.
  Nel momento della mia morte fisica, la mia esistenza, racchiusa in questo nuovo codice d’informazioni, si riflette in una dimensione metafisica,  riproducendosi in questa, e continuando ad esistere, pur in mancanza della sorgente iniziale delle informazioni.
  Come se un’immagine,  riflettendosi in uno specchio, nella dimensione riflessa, potesse continuare a vivere, di vita propria, indipendentemente dall’oggetto che l’ha generata. Così, potrei immaginare che,  con il mio ultimo respiro, il tutto di me, rinchiuso nel codice del mio esistere, si rifletta nello specchio dell’infinito, per continuare a vivere nella dimensione dell’eternità, pur essendo venuta meno la sorgente  del mio corpo, che, sviluppato il codice,  si autodistrugge, nella dimensione del finito.
  La scienza non deve dimostrarmi che è possibile. Alla scienza io chiedo soltanto di dirmi che non si può escludere, che sul piano logico,  può essere ammesso. Se così fosse, vorrei chiedere allora alla filosofia e soprattutto alla religione, di aiutarmi a immaginare ed a ricostruire questa prospettiva. Ricostruire l’idea d’un superuomo che si riconosce  tale, non scoprendo  che Dio è morto, ma, al contrario scoprendosi destinato ad una vita, nella stessa esistenza eterna di Dio.
  Assumendo che la scienza possa ammettere, sul piano teorico, la possibilità d’una vita oltre il corpo, vorrei provare a ripercorrere il Vangelo, per vedere come mi viene presentata questa prospettiva, appunto, sul piano della religione.
 
Perché il Vangelo?
  Dal momento che sono nato e vissuto in un ambiente cattolico, il Vangelo è il libro nel quale dovrei trovare le risposte alle domande che riguardano il senso della mia vita.  Se fossi nato in Cina o in India o in Arabia, prenderei in mano altri libri per cercare le stesse risposte.
  Con questo, desidero  chiarire già in premessa che non ritengo il Vangelo l’unico libro nel quale si possano trovare le risposte che cerco, ma quello nel quale  dovrei trovarle più facilmente. Dovrebbe essere il libro nel quale il percorso verso la verità, e’ ricostruito in termini più vicini alla mia mentalità, alla mia cultura di occidentale.
 Almeno in questo momento, il Vangelo non è l’unico libro, anche se non è da escludere che lo possa diventare.  Come in questi due millenni è diventato anche il libro di tanti popoli dell’Africa e dell’America, in seguito potrebbe diventare il libro di tutti i popoli della terra.
  Per ora, prendo atto che ci sono altre strade per le quali altri popoli trovano delle risposte ai loro quesiti esistenziali, strade indicate da Buddha o da Maometto e non da Cristo. Prendo atto anche che molti occidentali, non appagati dalle soluzioni  del Vangelo, sono riusciti a trovare risposte, che hanno considerato più esaurienti, nei libri degli altri popoli, e che ci sono tanti nuovi predicatori, nelle cui parole molta gente ha trovato, o creduto di trovare, le risposte cercate.
  Personalmente ritengo non sia il caso di andare alla ricerca di soluzioni diverse, prima di aver cercato nel libro, nel quale e’ più logico si trovi la risposta più adatta al mio modo di ragionare e di sentire.
  Io voglio partire dall’assunto che il Vangelo è  il libro della fede nella quale sono vissuto, che sento mio, come mio sento l’ambiente nel quale sono nato e cresciuto. Non mi pongo, almeno per il momento, l’obiettivo di verificare se sia veramente il Vangelo il libro che meglio risponde alle domande, che vengono dal profondo dell’esistenza dell’uomo in generale. Do per acquisito che lo sia, e per questo mi  ripropongo di rivisitarlo, alla ricerca delle chiavi di risposta alle mie domande.

Perché’ il Vangelo di Giovanni?

  Avvicinandosi al Vangelo, sorge subito il problema di quale versione scegliere. Ci sono le quattro versioni ammesse dalla Chiesa, e tante altre cosiddette apocrife. Versioni spesso tra loro contrastanti. Per questo la prima considerazione alla quale arriva, chi si accinge a leggere il Vangelo, è che, in effetti, il Vangelo non esiste. Il problema delle diverse versioni, ha fatto sorgere in questi quasi duemila anni di storia dei Vangeli, una letteratura al riguardo.
 Molti studiosi sono arrivati alla conclusione che non esistendo un’unica storia di Cristo, debba essere negata la stessa esistenza storica del Cristo. La  storia del Cristo sarebbe stata quindi una sorta di favola nata nelle prime comunità dei cristiani, trascritta poi in vari modi da vari evangelisti. Ma anche su questi problemi non vuol entrare, almeno per il momento, la mia riflessione.
  Do per acquisito che ci siano quattro versioni autentiche, quelle ammesse dalla Chiesa, e quindi chiamate canoniche. Di queste versioni tre sono simili e per questo sono chiamate sinottiche, la quarta,  si differenzia, perché racconta fatti che le altre non raccontano, tralasciando invece alcuni fatti riportati in tutte e tre le versioni sinottiche.    Anche il problema delle diversità, spesso anche profonde, delle versioni canoniche, ha suscitato un’infinita letteratura, ma, almeno per il momento non voglio pormi neppure questo problema. Per non essere costretto a fare confronti tra le versioni, scelgo come libro di testo una delle versioni, la quarta, quella appunto di Giovanni.
  E’ la testimonianza del discepolo prediletto di Cristo, quello che nell’ultima cena ha posato la testa sulla sua spalla, come lui stesso vuole sottolineare, chiudendo il suo racconto. Ma ciò che più importa ai fini della mia riflessione, è che si tratta della testimonianza, meno preoccupata di riportare i fatti, e più attenta invece a riportare quel che Cristo ha detto, sulla sua essenza e sulla sua missione.
  Volendo quindi, non tanto ricostruire la storia di Cristo, quanto ricostruire e dare un significato alla mia storia, attraverso le parole di Cristo, e volendo scegliere, (anche per non essere costretto a fare il confronto tra le versioni), la scelta non poteva cadere che sul Vangelo di Giovanni.



Perché’ io?

  Perché mi sono messo su questa non facile strada di una libera riflessione sul Vangelo? Non perché più preparato d’altri, o più competente o più sensibile.
  Io, come ognuno di noi, da uomo comune e non da esperto.
 Perché tutti, a mio avviso, dovrebbero porsi su questa strada, sulla strada della ricerca del senso della propria vita, per poter poi fare le cose che hanno senso e rinunciare a quelle che non ne hanno.
  Io, forse perché ho un percorso culturale e di vita più originale di altri. Un percorso che mi fa sentire più pregnante il bisogno di dare un senso alla vita. Io, comunque, come tanti altri che si pongono il problema di dare un senso al vuoto della propria esistenza. Io che, come tanti altri, mi chiedo se il vuoto che sento, sia un vuoto che riguarda la mia esistenza individuale, o se invece riguarda l’esistenza in se’: il vuoto dell’esistenza dell’uomo, capace di pensare l’infinito e di lasciarsi travolgere dall’incombere del finito e del quotidiano.
  In effetti, quale senso può avere una vita che, per quanto venga vissuta intensamente, resta, in ogni modo, un breve respiro di tempo, prima della morte eterna e del nulla?
  O c’è invece una vita eterna? Appunto! Questo e’ il problema.
  Quando mi ponevo queste domande da ragazzo, mi dicevano che avrei dovuto trovare la risposta nel mistero della fede, nel mistero della incarnazione, nel mistero della resurrezione.
  «Ma come si può trovare la risposta in un mistero?»
  «Cercala nella preghiera!»
  «Ma come si può pregare senza credere?»
  «Prega e crederai!»
  Non riuscivo a capire come avrei potuto pregare, senza credere. Non riuscivo a capire, come si possa concepire che Dio sia diventato  uomo, non per parlare agli uomini, in modo che questi lo possano  comprendere, ma per portare loro delle risposte   enigmatiche e dei misteri.
  Non riuscivo a capire allora e non riesco a capire ancora!...
  Per questo voglio riflettere, non per ricercare verità assolute, ma solo appunti e spunti, interpretazioni possibili, e quindi credibili, che mi consentano di aprire la strada del credere. Vorrei poter credere per sperare, e non sperare per credere, vorrei credere per pregare e non pregare per credere.

E la Chiesa?
  Da cristiano, non posso non chiedermi cosa può pensare la Chiesa della mia riflessione sul Vangelo.
  La Chiesa, infatti, s’é riservata l’esclusiva di lettura della storia di Cristo. Lutero, che ha affermato il principio della libertà per ogni credente di rivolgersi direttamente al Vangelo, per ascoltare la parola di Dio e finito scomunicato. Giordano Bruno invece è finito sul rogo, pur tentando di giustificarsi dicendo che la sua speculazione voleva restare nell’ambito della ricerca filosofica. Ma anche questo argomento, almeno per il momento, non rientra nella mia riflessione. Do per acquisito che sia legittimo per la Chiesa  evitare che ognuno, senza la dovuta preparazione, si metta a dare le interpretazioni più strampalate del Vangelo.
  La mia non vuole essere un’interpretazione, ma una riflessione personale, fuori e prima della Chiesa. Per questo, per quanto strampalata, resta solo mia e non vuole entrare in conflitto con alcuno e tantomeno con la Chiesa. La mia non vuol essere una interpretazione nè teologica nè filosofica per le quali non sono preparato, ma una riflessione pre-teologica e pre-filosofica: la riflessione dell’uomo della strada. C’è la città, dentro le cui mura, di queste cose discutono i saggi e gli esperti. Io ne parlo, fuori dalle mura.
  Dentro le mura è necessario seguire le regole, gli schemi. La città si è andata sedimentando, nel corso dei secoli, ha le sue vie, le sue piazze, le sue chiese, ha una conformazione urbanistica, alla quale ci si deve adattare. Fuori le mura c’è la campagna, ci sono i sentieri che si perdono nel bosco. E’ possibile persino andare fuori dei sentieri, liberamente, per i campi e per i prati. L’importante è non perdere di vista la città e cercare comunque di avvicinarvisi.
Io non porto acqua! I miei secchi sono forati, non riesco a portare neppure l’acqua necessaria per me, tantomeno posso portare l’acqua ad altri. Tuttavia, vedendomi girare con i secchi che perdono acqua, ad altri può venire sete, in altri può sorgere il desiderio di bere...
  Se qualcuno seguendo il filo dei miei pensieri, vi ritrova lo stimolo per un ulteriore approfondimento, non può farlo con me, ma deve entrare nel città dove si muovono i saggi, e gli unti dal Signore, e con loro potrà raggiungere, mi auguro,  la verità.
  Per dirla con Giovanni Battista, io potrei essere considerato al massimo uno che grida nel deserto: «Guardate che mi pare di aver intravisto una strada!».
  Ma, ad uno che grida nel deserto, si possono perdonare anche le fantasticherie! Lo si può capire e perdonare, anche se ha preso abbagli ed ha visto miraggi!












Cap. 1  
La novità’ del Vangelo.

Marco inizia il suo Vangelo parlando di Giovanni Battista che predica la venuta di Cristo. Luca risale alla nascita di Giovanni, ricordando come Zaccaria ed Elisabetta, ormai vecchi, avessero avuto, da un angelo, l'annuncio che avrebbero avuto un figlio, al quale avrebbero imposto il nome di Giovanni. Matteo risale ancora, ed inizia il suo  racconto con la genealogia, per dimostrare che Cristo è discendente del re Davide.
  Giovanni, già dall'apertura, vuole subito mettere in chiaro come il suo Vangelo sarà diverso da quello degli altri tre evangelisti. La storia di Cristo è importante in quanto è un momento chiave nella storia del mondo, dell'umanità: il momento nel quale il figlio unigenito di Dio s’é incarnato come uomo, per abitare in mezzo agli uomini. Giovanni apre appunto anticipando che, nella novità del figlio di Dio che si  è  fatto uomo, si ritrova il senso profondo di tutti gli avvenimenti dei quali  e' stato testimone, e di cui  vuol dare testimonianza scritta nel suo racconto.
  A Giovanni non interessano gli antefatti del racconto, intuisce la nostra perplessità all’idea d’una vicenda che riguarda un uomo-figlio di Dio e cerca di fornirci subito  la chiave di lettura, attraverso la quale va interpretato il suo racconto.
  E’ una chiave di lettura che può sembrare non  facile da afferrare ed utilizzare, come, d’altra parte, non è facile da accettare l’idea che ci accingiamo a leggere, non il racconto della vita d’un uomo, ma il racconto della vita del figlio di Dio. E’  una chiave però’ indispensabile per capire il racconto.
  Se non troviamo il modo di utilizzare la chiave, per aprire la porta che ci deve introdurre al racconto, è inutile che ci sforziamo di immaginare e di voler capire che cosa c’è oltre la porta. Solo se sapremo introdurre  la chiave nel modo giusto  e riusciremo ad aprire la porta, da questa entrerà la luce che ci consentirà di dare un senso ad ogni elemento del racconto, come dalla porta aperta, prende luce una stanza, e diventano chiaramente individuabili gli oggetti che vi si trovano.
  Cercando di capire il senso, e come quindi vada usata la chiave che ci propone Giovanni, abbiamo subito una prima risposta  di fondo, sul perché Giovanni ha scritto, e perché è importante che riusciamo a leggere ed a capire.
  Non è un romanzo quello che abbiamo davanti! E non abbiamo aperto il libro  come si apre un romanzo, per vedere come l'autore abbia saputo immaginare dei personaggi, e costruire una trama, attraverso la quale farci entrare nel mondo della sua immaginazione, trasmetterci la sua visione della realtà, farci partecipare allo sviluppo delle sue riflessioni.
  Apriamo questo libro, non per una curiosità letteraria, ma perché, ci è stato detto, vi possiamo trovare la risposta ai nostri più profondi perché: al perché della nostra esistenza, al perché della morte, al perché d'un' esistenza che finisce nella morte.
Apriamo questo libro perché ci è stato suggerito vi possiamo trovare parole di vita eterna, anzi, le parole che danno la vita eterna.
Apriamo questo libro con l'ansia di chi s'è reso conto che non ha senso continuare a vivere senza capire, continuare ad andare, senza sapere dove porta la strada, senza chiedersi se si sta andando nella direzione giusta.             Ancor meno senso ha continuare ad andare senza sapere perché camminiamo, quale sia  il fine del nostro andare, del nostro correre e rincorrere!
  E’ evidente infatti che solo trovando la risposta al perché della vita dell’uomo, riusciremo a trovare la risposta su quale debba essere il modo più giusto di vivere. Una risposta che non ci interessa da un punto di vista accademico e letterario, ma da un punto di vista esistenziale, che ci riguarda direttamente: la risposta che cerco, non riguarda il senso della vita in generale, ma il senso  della mia vita, di quel che faccio e sono, e quindi il senso che posso dare a quel che faccio e sono.
 Solo infatti, dalla spiegazione sul perché, può venirci  chiara la spiegazione sul come vivere, su che cosa abbia senso, e su che cosa, invece, non ne abbia affatto.
  Rispetto a queste domande con le quali apriamo il Vangelo, ci interessa poco il miracolo per cui Elisabetta già sterile e vecchia, ebbe un figlio che avrebbe predicato la venuta di Cristo, e neppure ci interessa il come Giovanni Battista abbia predicato questa venuta. Tantomeno ci interessa la dimostrazione che Cristo discendeva da Davide  re d'Israele.
  Giovanni capisce la nostra esigenza e nell'introduzione, cercando di fornirci  la chiave di lettura, esordisce appunto dicendo che, l'elemento  assolutamente originale del suo racconto, sta nel fatto che il protagonista non è un uomo:
"Egli era Dio, Figlio unico di Dio Padre".
Non leggeremo quindi il racconto della vita di un uomo, fosse anche del più grande tra gli uomini, ma, addirittura, del figlio di Dio. Ma questo non basta ancora per sapere se nel racconto troveremo una risposta ai nostri perché, anzi ci fa venire il dubbio che si tratti d’un libro di mitologia, genere letterario dal quale non  possono venire risposte a domande esistenziali.
Giovanni capisce la nostra esitazione, e assecondando ancora il nostro desiderio di sapere, precisa  subito che  nel suo libro c’è la risposta che cerchiamo, e  sta nel fatto che:
"Dio ha fatto un dono a noi, di diventare figli di Dio".
La risposta ai nostri  perché, la soluzione della ricerca su cosa siamo e dove andiamo, sta dunque, per Giovanni, nel fatto che dalla premessa che Cristo è figlio di Dio discenderebbe che noi tutti siamo o possiamo  diventare figli di Dio.
Di fronte ad un’apertura così provocatoria e sconvolgente un laico, nel senso d'una persona che desidera seguire soltanto ciò che risponde a un criterio di razionalità, che abbia un senso logico accettabile, d’impulso viene  preso dalla tentazione di buttare da parte il libro, per evitare  una inutile perdita di tempo:
"Che mostruosità!» dirà «come posso immaginare e addirittura  credere, d'essere figlio di Dio? In quale delirio di potenza, l’uomo può riuscire ad immaginarsi, addirittura figlio di Dio, e quindi Dio egli stesso?..."
Il cattolico invece penserà:
"Non riesco veramente ad immaginare come sia possibile. E’ inconcepibile ed assurdo infatti che io, uomo limitato sotto mille aspetti, finito nel tempo, perché destinato alla morte, possa ritenere di essere figlio di Dio. Tuttavia, proprio perché è assurdo, lascio il terreno della ragione e salto nel vuoto della fede e credo sulla parola.”
 La parola su cui scommette tutto sè stesso il cattolico, è quella della Chiesa che propone come dogma l’incarnazione di Dio nell’uomo Cristo. L’alibi nel quale il cattolico riesce ad accettare anche ciò che ripugna alla ragione, è quello per cui «si tratta d’un mistero». E’ mistero l’incarnazione, come e’ mistero la resurrezione e l’ascensione! Nella magia della parola «mistero» dovrebbe appagarsi ogni bisogno di sapere che non trova risposte nella ragione.
Gli uomini volevano sapere, ed allora si sarebbe mosso il figlio di Dio per venire tra loro. Ma anche lui non sarebbe stato capace di vere risposte. Si sarebbe limitato a portare qualche enigma, qualche nuovo mistero! Non mi pare che la cosa abbia molto senso!…
Tuttavia, non riuscendo o non volendo, rinunciare agli scrupoli della ragione, e non volendo nascondermi dietro l’alibi del mistero, posso almeno convincermi che la rivelazione, per la quale io sarei  figlio di Dio, è almeno intuibile, se non dimostrabile attraverso la ragione? Se non sarà possibile capire appieno la portata della rivelazione, perché limitato è lo strumento della mente che mi trovo a disposizione, sarà almeno possibile ammetterla?
Se mi sono rimesso a leggere e perchè penso di si! Mi sono convinto di sì! Perché se Cristo è il figlio di Dio, le sue parole non possono che essere “parole di verità” e non enigmi. Deve quantomeno essere possibile avvertire il senso e la validità della rivelazione.
M’ero perso nel deserto della vita e cercavo una strada. Invano! Perché nel deserto non ci sono né strade nè sentieri. Nella mia logica, al bisogno di ritrovarmi, rispondevo cercando una strada. E cresceva la mia angoscia all’aumentare della consapevolezza d’essermi perso, di non sapere, di non avere l’idea, di come riuscire ad orientarmi.
E una voce nel deserto mi disse di guardare le stelle. Pensai che il destino si volesse burlare di me. Stavo cercando con ansia dei segni tra la sabbia, e come aiuto mi si consigliava di guardare al cielo...
Ma poi anch’io ho capito che tra la sabbia, spazzata dal vento, non avrei trovato alcun riferimento. Solo guardando alle stelle avrei potuto trovare l’orientamento!
 Mi sono anche convinto  che l’orientamento e la via d’uscita individuata potrebbero essere  validi solo per me. Infinite possono essere le strade per uscire dal deserto. Se ne trovassi una, potrebbe rivelarsi percorribile solo per me, per il mio peculiare modo di essere e di vedere le cose. Ma comunque, se ci riuscissi, avrei  dimostrato che, come suggerisce Giovanni, guardando le stelle si può uscire dal deserto.
Penso infatti che non si debba e non si possa ricercare nel Vangelo, una risposta valida per tutti. Anche perché, uno degli elementi che caratterizzano la novità della rivelazione evangelica, è proprio quella del rapporto personale ed individuale di ogni uomo con la divinità: non è la società che può diventare la società dei figli di Dio, ma al contrario ogni uomo e’, o può diventare, figlio di Dio.
In una famiglia nella quale tutti i fratelli amano e sono in rapporto con il padre, e' perfettamente inutile che gli uni spieghino agli altri, le motivazioni del loro amore.     Ognuno infatti ha una sua diversa giustificazione, per spiegare un rapporto di affetto e di amore che, pur essendo egualmente profondo e sincero, è diverso per ciascuno dei fratelli.
Ma quando nella famiglia si sono rotti i rapporti tra i fratelli, e tra questi ed il padre, il racconto di uno dei fratelli su come abbia ritrovato il suo rapporto con il padre, può giovare agli altri per  ricostruire un proprio percorso,  per ritrovare un proprio rapporto.
Può essere che il racconto del fratello più sentimentale faccia ridere il fratello più razionale, che quello del fratello più opportunista, scandalizzi il fratello più altruista. L'importante è che, pur ridendo o scandalizzandosi, anche gli altri fratelli ritrovino in sé stessi, il bisogno di riprendere un rapporto  con il padre, individuando poi le modalità e il percorso più congeniale al carattere ed al modo di pensare di ognuno.
La mappa delle mie riflessioni dunque, attraverso la quale cercherò di orientarmi, parte dalla considerazione che, almeno secondo Giovanni, il punto centrale della rivelazione, la risposta da cui discendono tutte le altre risposte, è che io sono figlio di Dio.
Si. Ma anche se volessi accettare questo come postulato, che cosa veramente significa?  Cosa si deve e si può  effettivamente intendere con l’affermazione che io sono figlio di Dio?
Suppongo  che, a monte, si debba risolvere  un problema di terminologia. Giovanni scriveva per comunicare i concetti che  considerava  fondamentali dell’insegnamento di Cristo. Lo doveva fare per gli  uomini del suo tempo, nel modo che riteneva più comprensibile, allo stato delle conoscenze e della sensibilità del momento. Ma sono passati quasi duemila anni. C'è stata una grande evoluzione delle scienze e della filosofia. Se scrivesse adesso, scriverebbe evidentemente in maniera diversa.
Io credo che comincerebbe con il non usare la stessa terminologia.
 Ma quindi potrebbe non usare più il termine «figlio di Dio»? Probabilmente sì, lo ripeterebbe,  perché forse non esiste altro termine che traduca meglio  l’idea che voleva esprimere. Ma per capire l’idea che sottende il termine è necessario che si ricostruisca il contesto nel quale l’idea si definisce nei suoi contorni.        Presa così, come affermazione a sé stante, potrebbe sembrare soltanto una provocazione, o, persino una bestemmia!



















Cap. 2
La verità di Dio.

Se vogliamo cercare di capire il significato del concetto che noi siamo figli di Dio, dobbiamo evidentemente prima cercare di capire cosa significhi l’espressione per la quale Cristo è figlio di Dio, e quindi, ancora prima che cosa si intenda con il termine Dio.
 Quando leggo che Cristo è figlio di Dio, mi viene istintivamente di pensare a quell'uomo sulla croce che domina l'altare della chiesa del mio paese, e  come  padre, vedo quel vecchio che domina l'abside portando le tavole dei dieci comandamenti.
Ognuno di noi ha, almeno a livello subconscio,  un'immagine antropomorfa della divinità. Con il filtro di questa immagine diventa difficile dare un senso all’espressione per cui Cristo è figlio di Dio, e, per analogia, diventa assurda l’espressione che l’uomo è figlio di Dio.
La soluzione più facile, sarebbe quella di considerare l’espressione «figlio di Dio» riferita all’uomo, come un modo di dire, e tirare avanti, senza dare molta importanza a questa originalità espressiva.
Ma nella chiave d’interpretazione del suo Vangelo, Giovanni precisa senza mezzi termini: «Agli uomini Dio ha fatto il dono di diventare figli di Dio», e nella sua prima epistola, aggiunge: «E lo siamo veramente!».
Non si tratta quindi di un modo di dire! E non si tratta neppure d’un dettaglio secondario sul quale si può sorvolare per ritornarci in un secondo momento. E’ invece l’essenza stessa della rivelazione. E’ quindi  indispensabile riuscire a darcene una spiegazione, a capire come sia possibile.
 Lasciando da parte l'immagine che ho nella mia mente e che mi viene  dal catechismo dell'infanzia, io so che non ha senso pensare a Dio come  una sorta di Giove unico che si agita nell’infinito dei cieli contemplando la sua creazione.
Dio evidentemente non può essere immaginato come qualcosa di definito, e tantomeno come un uomo, Dio è il Principio, l'Infinito da cui è nato il finito dell'Universo, l'Idea da cui è nata ogni cosa, l’Esistenza che giustifica l’esistente.
«Dio è l’essere perfettissimo creatore e signore del cielo e della terra», mi hanno insegnato a recitare già in prima elementare. Ma se Dio e’ l’essere perfettissimo signore del cielo e della terra ed io, uomo, sono suo figlio, ne discende che io non sono uno qualsiasi degli elementi dell’universo.
Se poi  non sono in assoluto figlio di Dio, ma ho la possibilità di diventarlo, atteso che l’obiettivo non e’ evidentemente di poco conto, non posso non pormi il problema di cosa fare per  conseguirlo.
Questi sono i due versanti dello stesso problema sui quali vorrei portare il complesso della mia riflessione, articolandola appunto in due parti distinte: cosa significa essere figlio di Dio e che cosa si deve fare per diventarlo.
Prima ancora però di scendere sui versanti, sarà opportuno, come si è detto,  ci si chiarisca e si metta a fuoco l’idea di Dio e di Cristo figlio di Dio.
 Sull’origine e la storia dell’idea di Dio evidentemente ci sono studi che trattano l’argomento da ogni possibile angolatura. Ma non è in questa direzione che credo sia il caso di addentrarsi, non è un sentiero sul quale possa porsi «l’uomo della strada».
A me è sufficiente verificare se alla perentoria affermazione di Nietzsche che «Dio e morto» sono in grado di contrapporre la mia convinzione, altrettanto perentoria, che Dio esiste.
 Anche per me, come per il filosofo, Dio è morto se per Dio devo intendere l’idea di Dio antropomorfa che mi porto dentro. Sono d’accordo con lui nel dire che è morto il Dio dei divieti, delle punizioni, il Dio che incombe minaccioso e vendicativo, pronto a punirmi qualsiasi cosa faccia, che mi tiene in bilico tra grazia e peccato, tra inferno e paradiso.
 «Dio è morto per cui l’uomo è ora totalmente libero» è una affermazione che condivido nel senso della possibilità di pensare Dio senza schemi preconcetti. Appunto come un figlio che ha ritrovato il Padre e vuol sapere tutto di lui, non potendo e non volendo fidarsi di quello che gli dicono gli altri.
E’ quindi  proprio in questa libertà conquistata che ritrovo il Dio che non è morto, il Dio fondamento stesso della mia esistenza. Il Dio che non esiste ma è l’Esistenza da cui trae origine anche il mio esistere.
Nella Bibbia è scritto che Dio ha fatto l’uomo a sua immagine, mentre nella realtà è l’uomo che fa  Dio a sua immagine.
Costruendolo a propria immagine i teologi hanno cercato di dimostrare che esiste, e San Tommaso in particolare ha elaborato una serie di prove che dimostrerebbero appunto l’esistenza. Lo scetticismo che ho sempre avuto di fronte a queste prove mi pare naturale.             Come può infatti il finito dimostrare l’esistenza dell’Infinito? Se riuscisse, in quel momento l’Infinito non sarebbe più tale, perché sarebbe ricompreso nel finito. Più logica mi pare la considerazione che non si può dimostrare che Dio e’ esistente, perché in effetti non lo e’: Dio non è un esistente ma e’ l’Esistenza.
Se non ci togliamo dalla mente l’immagine di Dio a nostra somiglianza, non riusciamo a pensare a Dio. Il nostro ragionamento, in quanto esistenti, tende a far riferimento al divenire, perché per noi esistere è divenire. Pensando all’esistere come divenire non riusciamo a pensare all’Esistere in assoluto, all’Essere.
Ma divenire e’ proprio il  modo di essere transitorio dell’Essere. Il nostro divenire implica e postula l’Essere: il divenire e’ figlio dell’essere, l’esistente è figlio dell’Esistenza.
Se Dio e’ l’Esistenza, Dio è anche il mio esistere. Non evidentemente ciò che sono come corpo e neppure ciò che sono come intelligenza o capacità di sentimenti, ma ciò che sono come puro atto dell’esistere.
Non ha senso che io dimostri di esistere e così non ha senso che io dimostri l’esistenza di Dio. Il mio divenire postula l’esistenza dell’Essere.
 Anche in natura la mia esistenza dimostra l’esistenza di mio padre. Invece che scervellarmi a dimostrare che esiste, sarebbe più logico mi impegnassi a cercare di conoscere, sapendo che anche in questa ricerca, come uomo finito ho un limite. Non riesco, infatti, a conoscere il mio esistere, perché per conoscere è necessario  avere un oggetto della conoscenza, ma l’esistere come soggetto di conoscenza non può diventare l’oggetto della conoscenza. Come non riesco a conoscere il mio esistere così non posso conoscere l’Esistenza.
Ma come sento ed intuisco il mio esistere così posso intuire e sentire l’Esistenza.
La rivelazione insita nel concetto che il figlio di Dio si è fatto uomo e che l’uomo è figlio di Dio è appunto che l’Esistenza non è esterna al mondo, ma è nel mondo. Allo stesso modo l’esistenza dell’individuo non è esterna all’individuo, ma interna.
Il motivo per il quale posso chiamarmi figlio di Dio è il mio esistere, intimo rispetto a tutto quello che sono, sia come spirito sia come corpo, elemento dell’esistenza nello spazio e nel tempo attraverso il corpo, che può restare nell’esistenza al di là dello spazio e del tempo, senza il corpo.
Esisto come momento dell’Esistenza (figlio dell’Esistenza-Dio) e più si sviluppa la coscienza del mio esistere in questo rapporto (di figlio dell’Esistenza-Dio), più la mia coscienza individuale acquisisce la possibilità di consolidarsi autonomamente, in un’altra dimensione al di fuori e senza il corpo.

Cap. 3.
In Principio.

In principio erat Verbum, inizia Giovanni e sembra fare eco alla Bibbia. In principio Dio creò il cielo e la terra. Cosi comincia infatti il primo libro della Genesi.
 Ma in principio, prima di creare, Dio che cosa faceva? Che cosa c’era prima della creazione? Dio disse: “Sia la luce” E la luce fu. Ma prima della luce che cosa c’era? La notte nella quale non si vedono le cose, ma le cose ci sono, o la notte del nulla. E nella notte del nulla allora, Dio che cosa ci faceva? O forse era Dio lo stesso nulla!
In effetti se creare è fare dal nulla, solo il nulla può creare. Oppure qualcosa o qualcuno che conviveva con il vuoto del nulla e ad un certo punto ha deciso di riempirlo. Dio, appunto! Ma che cosa si deve intendere con la parola  “Dio”? Quando dico sasso, foglia, so a che cosa mi riferisco. Anche quando dico amore, odio, seppure con meno precisione, so a che cosa mi riferisco. Ma quando dico Dio, a che cosa mi riferisco? 
La Bibbia da per scontato che io lo sappia, e come se fosse tutto scontato quello che precede comincia  dicendo che in principio Dio creò il cielo e la terra.
Ma non è affatto scontato! Lo capisce anche Giovanni  che aprendo il suo Vangelo propone una risposta. In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio, tutto e’ stato fatto per mezzo di lui e senza di lui niente e’ stato fatto di tutto ciò che esiste.
La chiave del mistero iniziale è quindi il Verbo. Logos in greco, che era con Dio ed era Dio e per mezzo di quale Dio ha creato il cielo e la terra. Leggendo Giovanni si ha l’impressione che se fosse possibile capire che cosa si intende con il Verbo, sarebbe poi facile risalire a che cosa si intende con Dio.
In Dio, dice Giovanni, c’era la parola per mezzo della quale e’ stato fatto tutto ciò che esiste. C’erano quindi le parole delle cose, prima che lo cose esistessero, e queste parole erano raccolte e sintetizzate in una “La Parola” che era in Dio ed era Dio. Chiedendo una metafora all’informatica, si potrebbe dire che c’erano le parole del programma d’ogni cosa, in una costruzione ad albero che si sviluppava da una parola chiave, la Parola.
Le parole-programma non erano scritte da nessuna parte, erano un pensiero, il pensiero di Dio. Posso immaginare che esista il mio pensiero senza di me? E’ possibile! Con la fantasia il pensiero si muove indipendentemente dal corpo. Nel sogno il pensiero mostra di muoversi indipendentemente dalla persona che sogna. E’ credibile quindi che il pensiero possa sopravvivere al corpo indipendentemente da questo. Allo stesso modo e’ possibile immaginare che il pensiero possa preesistere al corpo.
 Nel caso dell’uomo il dubbio su un pensiero preesistente al corpo può venire dal fatto che il pensiero si sviluppa attraverso l’esperienza fatta con i sensi del corpo. Ma in assoluto che ci possa essere stato un pensiero, un’idea del mondo, prima che il mondo esistesse, mi pare accettabile. Sotto il profilo logico, è credibile. Dire che questo pensiero era in Dio ed era Dio, significa dare una spiegazione di che cos’è Dio: l’Idea appunto, l’Energia in potenza, da cui nasce l’universo.
Con la necessità dell’uomo di dare contorni spaziotemporali ad un concetto, intuita la possibilità’ d’un Pensiero-Dio, cadiamo nell’equivoco di pensare che ci sia stato un prima del Pensiero senza il Mondo,  un dopo con il Mondo, e un dopo ancora, di nuovo senza il mondo. Il Pensiero del mondo, che può essere pensiero di mille altri mondi, coesiste invece con il mondo, ne costituisce l’anima.
Il Pensiero della cosa è l’Esistenza della cosa, che consente a questa di esistere. Ogni esistente nello spazio e nel tempo, esiste come momento ed espressione d’una Esistenza al di fuori dello spazio e del tempo.
Nel sviluppo del processo di creazione di questo mondo è avvenuto poi un fatto singolare (potrebbe essere avvenuto anche nel processo di creazione di altri mondi, o potrebbero essere avvenuti fatti ancora più’ singolari): uno degli esseri creati in un primo momento ha preso coscienza di esistere, in un secondo momento ha intuito di essere un momento del Pensiero-Esistenza e quindi di potervisi ricongiungere conquistando l’immortalità.
Questa vicenda dell’uomo viene riportata nel riassunto della genesi sullo sviluppo dell’uomo.  In un primo momento Dio “plasmo’ l’uomo con polvere dal suolo e l’uomo divenne un essere vivente”. Poi l’uomo nell’evoluzione della sua specie, conquistò la parola, Dio infatti nel racconto biblico volle vedere come l’uomo avrebbe dato un nome agli animali e alle cose.
Ma l’uomo, pur capace di comunicare, non aveva ancora  coscienza di sé del proprio esistere. “Erano nudi ma non ne provavano vergogna”, dice la Bibbia.. Solo più avanti l’uomo arrivò alla ragione, cioé alla capacità di distinguere il bene dal male. E il passaggio viene riportato nell’immagine dell’uomo che mangia del frutto dell’albero del bene e del male, al quale gli era stato proibito di mangiare.
L’uso della ragione lo porta alla coscienza di sè. “Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi”, Se vi siete accorti di essere nudi, allora avete mangiato dall’albero dal quale vi avevo comandato di non mangiare! Ribadirà il Signore Dio, che per la prima volta viene sentito con paura, mentre passeggia nel giardino. Dalla coscienza di sè deriva infatti la coscienza della propria finitezza, la consapevolezza di dover morire e quindi la paura e l’angoscia esistenziale.
Ma ora l’uomo è un essere che riesce a pensare! “Ecco”, infatti dice ancora il Signore-Dio-Idea -Pensiero, “l’uomo è diventato come uno di noi, per la conoscenza del bene e del male”. Con la differenza che è mortale.  E Dio farà in modo che resti tale, che non “prenda anche dell’albero della vita, ne mangi e viva sempre”.
L’uomo tuttavia, continuando nella sua evoluzione, ottiene infine da Dio di poter mangiare anche dell’albero della vita per  diventare immortale. Il divieto imposto nel primo libro della Bibbia, viene tolto con l’ultimo, con il Vangelo
In questo infatti si racconta di come il Verbo-Pensiero-Dio si sia fatto uomo, dando a quelli che l’hanno accolto il potere di diventare figli di Dio e quindi in quanto tali, di diventare  immortali.
Fuor di metafora, l’uomo e’ pervenuto alla coscienza del proprio esistere, come  momento dell’Esistenza, pensiero del Pensiero, In altri termini quindi si e’ scoperto e riconosciuto figlio dell’Esistenza e del Pensiero e quindi figlio di Dio.
 Riconoscendomi come tale, la mia coscienza, ossia ciò che io sono, come capacità di essere di sentire e di pensare, potrà sopravvivere alla perdita del corpo per continuare a vivere nell’Esistenza e nel Pensiero, o (per usare un termine usuale che a questo punto del ragionamento, dovrebbe essere  chiaro a cosa si riferisce) in Dio.
 In questa prospettiva appare chiaro anche che cosa si debba intendere con l’affermazione  che all’uomo è stato data la possibilità di diventare figlio di Dio. Non è una metafora! “Lo siamo veramente” aggiunge Giovanni nelle Epistole. L’esistente è una realizzazione spazio temporale del dna (il termine improprio serve a chiarire i concetto) dell’Esistenza, destinato a ricongiungersi ad Essa, integrato nelle implementazioni che gli deriveranno dall’aver vissuto  l’esperienza del mondo.
San Agostino per riuscire ad esprimere l’idea d’un Dio infinito presente nel mondo finito ricorre ad una bellissima metafora. “Come se il mare si stendesse ovunque, solo mare per un immensa infinità di spazio, e tenesse immersa in se una spugna, grande quanto si vuole, ma finita, quella spugna sarebbe piena, senza dubbio, in ogni sua parte del mare infinito. Così pensavo la creazione, finita e imbevuta di Te infinito”.
L’immagine che Agostino rapporta alla creazione può essere riportata anche all’individuo, immaginando la spugna composta di tante spugne con una loro specifica individualità. Quando l’Infinito si ritira da ognuna, questa, senza l’acqua del mare, muore. Ma l’infinito nel periodo che è vissuto nella spugna, ha consentito a questa di realizzare un rapporto con lui, e questo rapporto l’infinito lo porta con sé, nell’infinito e per l’infinito.
Ma se nel periodo in cui la spugna ha vissuto dell’infinito ed è rimasta imbevuta dell’oceano, non ha prodotto   nulla che l’oceano possa portare con se, la sua esistenza si conclude definitivamente quando l’oceano l’abbandona.
Solo chi ha saputo utilizzare quel momento per vivere e sviluppare la coscienza della relazione con l’oceano, potrà continuare a viverla anche quando non ci sarà più la spugna e ci sarà solo l’oceano.




Cap. 4

La Luce.

  Sempre nell'introduzione, Giovanni accanto al concetto che "Colui che è La Parola è diventato un uomo", quasi a ribadire e rendere più facilmente intuibile il concetto, introduce l’immagine  della luce:
La luce vera
Colui che illumina ogni uomo
Stava per venire al mondo.
  L'uomo dopo la cacciata dal Paradiso terrestre viveva in un mondo ostile, che non sentiva come suo. Il sentimento di fondo dell'umanità era quello dell'attesa. L'attesa di qualcosa e qualcuno che sarebbe venuto per dare un senso alla condizione umana.Giovanni Battista è l'uomo che interpreta questa attesa.
  Come quando sta per venire un temporale, tutto si caratterizza e trasforma in funzione dell'attesa del temporale stesso. Il cielo è tutto coperto da nuvoloni neri, che impediscono la vista del sole. Al di sopra dello strato di nubi c'è il sereno infinito, ma l'uomo non lo vede. L'accavallarsi minaccioso delle nubi lo spinge a correre ad affrettarsi. Non riesce a pensare che sopra c'è il sole, che ci sarà, anche per lui. di nuovo il sereno.
  Le raffiche di vento fanno volar via gli oggetti, e lui li insegue, disperato per la paura di perderli. Dalla terra viene un odore acre ed intenso che lo inebria. Lui corre, insegue, cade e si sporca di terra, con lo stesso piacere con cui gli è parso gli animali godessero a coprirsi di fango.
  E finalmente un lampo squarcia l'aria! Dal cielo scende improvviso un guizzo di luce che illumina la natura, come se un per un attimo quella luce infinita che c'è sopra alla coltre di nubi, fosse riuscita a penetrare le nubi, per illuminare il paesaggio sottostante.
  Per un attimo l'uomo ha visto le cose nella loro vera identità, quel lampo, come un raggio di sole improvviso, ha fatto sì che l'uomo vedesse la sua sporcizia e si vergognasse.
  Ma fu un lampo! Poi  tutto tornò come prima: la terra da conquistare con il sudore della fronte, le mani impastate di terra e di sudore, la fronte sporca di terra ogni volta che uno cerca di tergere il sudore. Tutto sembrava come prima, ma nulla era invece come prima. Adesso infatti l'uomo aveva visto. Sapeva! Quel lampo, ritirandosi, aveva lasciato nella natura uno spirito nuovo, un'energia nuova, che avrebbe aiutato l'uomo ad alzare la testa, a guardare al cielo, sapendo che al di sopra di quel cielo così pesante, così apparentemente impenetrabile, c'era invece la luce infinita, dalla quale si era staccato  quell'attimo di luce, che aveva illuminato il mondo per un momento.
  Nessuno ha mai visto la luce al di sopra delle nuvole! Quell'attimo di luce però, che ha squarciato le nuvole, ci ha fatto capire che c'è.
  Fuor di metafora, conclude Giovanni: "Nessuno ha mai visto Dio: il Figlio unico di Dio, quello che è sempre vicino al Padre, ce l'ha fatto conoscere".
  Ma che cosa ci ha fatto conoscere?
  Cercando di eliminare le metafore del Vangelo, ci si trova poi costretti a costruirne delle altre. Ci si accorge che lo scoglio della terminologia è tutt’altro che superato. Non si riescono a trovare i termini che esprimono i concetti, senza ricorrere a metafore, o comunque a giri di parole.
   Usando termini come Padre e Figlio, per esprimere un concetto che va ben oltre quello che si esprime nel rapporto padre-figlio, ci resta l’insoddisfazione per una verità, che ci pare anche di poter comprendere, ma che non riesce a diventare   convinzione. Non si riesce, come direbbe Tolstoj, a sentire che la luce cresce in noi.  E’ come se dalla porta fosse entrato uno spiraglio di luce che  ha dato l’impressione di riuscire a distinguere gli oggetti nella stanza, ma poi ci si accorge invece che, per quanto si sforzi la vista, tutto resta ancora troppo indefinito, per essere riconosciuto.
  E allora forse è il caso di  provare ancora un’altra strada, un percorso nuovo!
  L’interpretazione del Vangelo è diventata per la gran parte degli studiosi, il tentativo di ricostruire una verità storica al di là delle contraddizioni che si riscontrano nelle varie versioni. Per me invece, interpretare il Vangelo, significa scavare tra le parabole e le metafore che Cristo è stato costretto ad usare, per far capire concetti filosofici e teologici a un pubblico di poveri pescatori della Palestina. E prima ancora significa  riuscire a demolire il fantasioso castello di altre metafore, attraverso le quali la tradizione orale dei primi cristiani, si è tramandata la rivelazione, fino a che non è stata codificata, nelle prime versioni scritte.
  Riuscire a ritrovare tra queste macerie il focolare originale della casa, il luogo dove ha brillato la luce che ha illuminato il mondo, non è nè facile nè agevole. Eppure la ricerca importante sul  Vangelo, è solo quella che ci porta a questa luce, a capire l’essenza del messaggio, dentro ai termini ed alle forme nelle quali il messaggio è stato rinchiuso.
  Lasciando quindi perdere i problemi dell’esegesi, dell’interpretazione delle  parabole e dei miracoli, riprovo a scavare per risalire alla chiave di lettura, ma questa volta riprovo con l’aiuto di mezzi esterni.
  Come si è già detto, Giovanni, prima di entrare nel racconto, ci riassume i più importanti concetti, nella premessa che diventa la chiave di interpretazione di tutto il messaggio. Vorrei riprovare a capire la chiave, sovrapponendovi la chiave delle Upanishad, cioè d’un testo di  riflessioni della metafisica indiana, risalenti ad almeno 300 anni prima di Cristo.
  E’ un accostamento che potrebbe sembrare senza senso. A mio avviso ha invece una sua logica. La metafisica indiana infatti, sviluppa una idea di Dio più immediata, senza sentire la necessità di ricorrere a parabole, per esprimere i concetti. E’ come se gli orientali avessero una sensibilità diversa e più evoluta rispetto agli occidentali. Per questo  chi ha rivelato Dio a loro, ha potuto farlo usando concetti più evoluti e soprattutto più immediati.
  Anche tra gli occidentali, superato l’equivoco illuminista, si sta affermando una metafisica che rinuncia all’idea che Dio possa essere conosciuto attraverso la ragione. Come da secoli sono già convinti gli orientali, anche noi ci stiamo convincendo  che altre, e non quelle della ragione, sono le strade che portano a Dio. Questo per un processo di evoluzione della cultura occidentale che giunge solo ora alle raffinate sensibilità della cultura orientale.
  Nella chiesa cattolica invece avviene come se la maestra avesse elaborato uno schema di insegnamento adatto ai bambini e ce lo continuasse a ripetere, ora che siamo diventati adulti. Non è che lo schema sia sbagliato, ma è evidente che ora ci appare insufficiente e puerile. E quindi logico che cerchiamo di rivolgerci ad altri maestri che hanno elaborato schemi per adulti, e che tentiamo di rileggere anche gli schemi della maestra, alla luce di questi.
     In questo senso mi pare legittimo il tentativo di interpretare la nostra rivelazione, alla luce della rivelazione degli orientali, di utilizzare i concetti della teologia indiana, come chiave per capire i concetti della nostra teologia.
  Alla domanda su chi è Dio in rapporto con l’esistenza del mondo, Giovanni mi dice che in principio c’era la Parola e la Parola era presso Dio ed essa era Dio.
 Le Upanishad ci spiegano che «all’inizio questo mondo era soltanto il Sè sotto forma di Persona cosmica. Guardandosi attorno non vedeva  altro che sè stesso. Egli disse perciò dapprima: Io sono».
 Poetica ed infantile allo stesso tempo questa immagine del Pensiero cosmico che si guarda attorno e scopre la propria solitudine. Illuminante invece l’idea dell’Esistenza iniziale, che avverte la coscienza del proprio esistere che viene affermato con la Parola: «Io sono». La parola è la coscienza,  del proprio esistere da parte dell’Esistenza. Allo stesso modo Dio nella Genesi, a Mosè che gli chiede come si chiama, risponde: “Io sono colui che sono”.
  Ma la coscienza dell’esistere del Sè, determina il sorgere della coscienza dell’altro da sè, cioè del divenire, del mondo. L’Esistenza, sviluppa il suo rapporto con il tempo, ossia con il Divenire.
 Nell’evoluzione del mondo, uno degli elementi del mondo, l’uomo, nel corso dell’evoluzione della sua specie è riuscito a comprendere l’idea di Dio come idea dell’Esistenza. Da questa intuizione è derivata all’uomo la coscienza della propria esistenza, come momento puntuale dell’Esistenza, cioè di Dio, nello spazio e nel tempo.
  Lo stesso concetto può essere espresso dicendo che il Logos cioè la Parola:
Era con Dio
Egli era Dio
Egli era al principio con Dio.
Per mezzo di lui Dio ha creato ogni cosa....
E poi:
Egli era nel mondo
il mondo è stato fatto per mezzo di lui
ma il mondo non l’ha conosciuto.
E’ venuto nel mondo che è suo
ma i suoi non l’hanno accolto.
La Parola è diventata un uomo
ed ha vissuto in mezzo a noi uomini.
Alcuni però hanno creduto in lui
a questi Dio ha fatto un dono:
di diventare figli di Dio.
              Parafrasando si potrebbe dire che la coscienza dell’esistere era con l’Esistenza. Dalla coscienza dell’esistere è nata la coscienza dell’esistente, cioè come si è già detto con altri termini, l’idea del divenire, l’idea del mondo. Dalla coscienza dell’esistente si è formato (per mezzo di lui) l’esistente, cioè il mondo.L’esistente, l’universo, aveva in sè la coscienza del proprio esistere e dell’Esistenza, dal momento che si era sviluppato dall’Esistenza. Ma il mondo non avvertiva di avere questa coscienza.
  Finché l’uomo, attraverso l’evoluzione della propria specie, e lo sviluppo della propria intelligenza,  e riuscito a raggiungere la coscienza dell’esistere e dell’Esistenza. Oppure, come dice Giovanni, la coscienza dell’esistente è diventata un uomo, per dimostrare agli uomini che possono avere la coscienza dell’Esistenza.
 Chi, credendo in Cristo, ha acquisito la coscienza dell’Esistenza, acquisisce la possibilità di essere assorbito nell’Esistenza, diventando immortale.
  Concetto che viene ripetuto alla lettera nelle Upanishad: «colui che Lo conosce per intuito e tramite ogni vibrazione di coscienza e consapevolezza, consegue l’immortalità».      Mediante la conoscenza si ottiene l’immortalità. Come dice Cristo «Questa è la vita eterna: conoscere il Padre»
  Che la coscienza di sè e dell’Esistenza si sia rivelata agli uomini attraverso l’incarnarsi dell’idea in un uomo, o che alla coscienza l’uomo sia arrivato attraverso l’evoluzione della propria intelligenza, è ciò che distingue il cristiano dal non credente. Ma, a mio avviso, di fronte al risultato, perde importanza l’interesse su come si sia arrivati al risultato. Ciò che conta,  è che io, uomo, ho la coscienza del mio esistere e attraverso questa consapevolezza ho la coscienza dell’Esistenza.
  Questa potrebbe essere la luce che ha illuminato gli uomini!

Cap. 5

E la Parola si fece carne.
E venne ad abitare in mezzo a noi.

Nei capitoli precedenti si è tentato di capire, con un approccio forse tropo filosofico, il senso dell’affermazione “in principio c’era la Parola”. Ammesso che le conclusioni a cui si è giunti possono soddisfare il bisogno di conoscere d’una persona che non accetta se non ciò che riesce a comprendere, il passaggio successivo della introduzione di Giovanni si presenta ancora più difficile e complesso:
“e la parola si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”.
Riprendendo lo schema del nostro  ragionamento,  dovremmo pensare che ad un certo punto della storia, l'idea del mondo, o la coscienza dell’Esistenza, si è incarnata in un uomo, diventando uomo.
L'idea del mondo-figlio di Dio, si e' incarnata in un uomo di nome Gesù, nato a Nazareth in Galilea, mentre a Roma regnava l'imperatore Cesare Augusto.
Presentata in questo modo l’idea potrebbe anche risultare comprensibile. Tutto si complica però se devo riconoscere che la Parola che si è incarnata è l’Unigenito figlio di Dio. Se il figlio di Dio è il figlio dell’Esistenza, il concetto di unigenito mi porta fuori strada, è un termine che mi riporta alla visione antropomorfa di Dio perché unigenito è una parola alla quale non so attribuire un significato se non in rapporto all’atto naturale della procreazione.
Comunque, nell’economia del mio ragionamento è una parola sulla quale posso sorvolare. Non dico che non sia importante, anzi, proprio per questo, come dicevo nell’introduzione, ritengo che vada discussa e approfondita dentro la città. Fuori possiamo anche evitare la discussione perché ciò che ci interessa è il contenuto del messaggio evangelico non il come ci sia pervenuto.
Dal momento che ci siamo posti nell’ottica di accettare o rifiutare il messaggio in quanto più o meno rispondente ad un criterio logico e non per l’autorità più o meno grande di chi l’ha portato, possiamo anche evitare le discussioni cristologiche. Non ci interessa in questa sede chi è stato Cristo ma che cosa ha detto.
Anche in seguito, parlando del messaggio, mi riferirò indifferentemente al dato come rivelato o al dato come scoperta filosofica, propendendo ora per l’una ora per  l’altra soluzione, solo ed esclusivamente ai fini d’una migliore comprensione del contenuto.
Personalmente propendo per l’idea d’un Cristo-filosofo (che non esclude tutto quello che la cristologia sostiene al riguardo) perché non riesco ad accettare ciò che sta a monte dell’idea del figlio Unigenito.
Che il figlio Unigenito di Dio si sia incarnato, indipendentemente dalla possibilità di dimostrare la storicità dei Vangeli e quindi della figura storica di Cristo, la ragione potrebbe anche accettarlo,  ma ciò che non riesce a capire ed ammettere è il perché sarebbe dovuto avvenire.
Che l’Infinito nella sua onnipotenza abbia voluto che una parte di sè, come parte di sé ogni padre considera  il figlio, diventasse finito nel tempo e nello spazio, diventasse cioè uomo, potrei  anche accettarlo.
Ma se è possibile non è logico!
Dio avrebbe voluto secondo le reminiscenze del catechismo, che una parte di sé, della sua stessa sostanza,  diventasse uomo, perché si potesse sacrificare, morendo in croce, e redimere con la sua morte gli uomini dal peccato originale.
Non c'è alcuna logica in tutto questo. Non fosse altro perché se Dio Onnipotente avesse voluto salvare l'uomo, non avrebbe avuto  bisogno di sacrificare alcuno, sarebbe stato sufficiente l'avesse voluto e si sarebbe verificato.
D'altra parte se accettiamo il concetto che Dio ha voluto che, ad un certo punto della storia, suo figlio si incarnasse, non possiamo immaginare che tutto questo sia avvenuto per lasciare agli uomini una serie di concetti misteriosi ed incomprensibili. 
      Se Dio e' l'Infinito e Cristo e la sua manifestazione tra e per gli uomini, questa manifestazione non può essere avvenuta, se non per portare agli uomini qualcosa che non sarebbe stato possibile portare senza la manifestazione stessa, e non certo un mistero.
Io credo che  restiamo bloccati di fronte al perchè dell’incarnazione, perché vogliamo leggere con gli schemi mentali di noi occidentali del duemila, un evento che è stato riportato secondo gli schemi degli ebrei di duemila anni fa.
Se pensiamo a Cristo come al Messia, colui nel quale si compie la storia dell’antico testamento, la presentazione che ci viene data “dell’agnello di Dio che toglie i peccati del mondo» ha una sua logica. Per una cultura religiosa come quella veterotestamentaria, che vedeva nel sacrificio il modo di rappacificare l’individuo con la divinità, è logico che la storia si completi nel massimo dei sacrifici: Dio sacrifica il figlio-uomo sulla croce perché l’umanità intera possa riconciliarsi con lui.
Per noi, pensare che Cristo si è incarnato per morire, diventa giustamente uno scandalo, diventa la «sconfitta di Dio».
Ma perché dobbiamo pensare a Cristo attraverso gli schemi con i quali ce l’ha riportato la cultura ebraica? Già leggendo le epistole di Paolo  si nota come questo concetto di «Cristo che offre sé stesso in sacrificio per eliminare il peccato», viene enfatizzato appunto soltanto nella lettera agli Ebrei. Quando parla ai Romani il linguaggio di Paolo è diverso. E perché allora noi ci ostiniamo a voler capire il messaggio nell’interpretazione ebraica, così lontana della nostra scrittura?
 Ma se non e’ venuto al mondo per essere immolato come vittima sacrificale al Padre, a quale fine si sarebbe incarnato?
Se eliminiamo ogni sovrastruttura, il Vangelo di Giovanni ci riporta la storia di un uomo che si dichiara figlio di Dio, che vive tre anni di predicazione scanditi da tre viaggi a Gerusalemme. Quando arriva a Gerusalemme per la terza volta, viene arrestato, condannato a morte e giustiziato. Una fine più che prevedibile, per un contestatore  che per tre anni si era proposto con un messaggio rivoluzionario, che metteva in pericolo il sistema di potere religioso ebraico, che si reggeva sul compromesso con il potere politico del conquistatore romano.
Da quello che ci ha detto nei tre anni, ricaviamo che è venuto per insegnarci a conoscere il vero Dio, a vivere da figli di Dio per ottenere la vita eterna. Se doveva insegnare agli uomini a vivere, non poteva non  insegnare loro anche a morire, dato che la morte è l’elemento caratterizzante la vita dell’uomo. Un concetto che Paolo riporta  proprio nella lettera agli ebrei: «mediante la propria morte ha potuto distruggere il demonio che ha il potere della morte, e ha potuto liberare quelli che vivevano sempre come schiavi, per paura della morte».
L’idea d’un uomo schiavo per paura della morte mi pare molto pertinente. Ma volendo liberare l’uomo da questa schiavitù non servono i sacrifici alla divinità. Gli si deve insegnare concretamente che c’è un modo per vivere vincendo la morte, o con una figura poetica, vincendo, «il demonio che ha il potere sulla morte».
Se Cristo s’è incarnato per insegnare agli uomini e non per sacrificarsi, ci si scontra in un altro paradosso quando, come ho già detto, attraverso il catechismo, si impara che non ci sono state lasciate delle verità, dei concetti facilmente  comprensibili, ma soltanto dei misteri.
Possibile? Mi chiedo. Nessuna religione ha il coraggio di spingersi fino all’idea del figlio di Dio che diventa maestro degli uomini. E con un maestro così eccezionale l’uomo sarebbe riuscito a capire soltanto che tutto è un mistero? …
Dice giustamente Giovanni nella sua prima epistola: "Noi sappiamo che il Figlio di Dio è venuto e ci ha insegnato a conoscere il vero Dio". Ma che cosa ci ha fatto conoscere se sono ridotto ad immaginarlo in quel vecchio dipinto nell’abside della chiesa del mio paese?
Alla base della mia riflessione c'è l'idea che i messaggi non erano incomprensibili, erano al contrario chiarissimi e sintetizzabili in poche parole. Sono stati stravolti nell'interpretazione che se n'è voluta dare, perseguendo finalità che non erano solo quelle di trasmettere la Rivelazione.
La rivelazione e' infatti tanto semplice quanto sconvolgente: io sono figlio di Dio e per rendere vivibile e non solo comprensibile questo concetto Dio ha fatto si che lo vivesse, il Figlio suo Unigenito. Il figlio di Dio e’ vissuto  da uomo per insegnare agli uomini a vivere da Figli di Dio.
Vivere da figli di Dio significa vivere amando Dio ed i fratelli".
Vivendo da figlio di Dio l'uomo riconquista l'immortalità perduta.
"Chi ascolta la mia parola e crede nel Padre che mi ha mandato ha la vita eterna!"
  Il Vangelo è tutto qui. La rivelazione è sintetizzabile in queste poche parole. La salvezza non è nella morte di Cristo, ma nella rivelazione che ha fatto agli uomini della loro natura di figli di Dio.





Cap. 6
L'Uomo Figlio di Dio.

  Se anche fossi in qualche modo riuscito a rendere più comprensibile il concetto che il figlio di Dio s’è fatto carne, sarei comunque molto lontano dal poter comprendere la seconda parte della proposizione: «il figlio di Dio s’è fatto carne, perché la carne, cioè l’uomo, capisse di poter diventare figlio di Dio». A quelli che hanno creduto in Cristo, «Dio ha fatto un dono: di diventare figli di Dio».
Ma è evidentemente  la parte della proposizione e quindi della rivelazione, che più ci interessa.
Infatti  se anche riuscissimo a capire Dio, e a darci una spiegazione del come sia potuto avvenire che il figlio di Dio si sia fatto uomo, non avremmo  ottenuto alcun risultato pratico, se tutto questo non avesse alcun riflesso su di noi, non servisse a dare un senso alla nostra esistenza.
   Il vero problema, ammesso e non concesso d’aver capito come il figlio di Dio possa farsi carne, è quello di capire come sia possibile che la carne diventi figlio di Dio.
  Ma cosa può significare in termini razionali e non come verità di fede, che l’uomo può diventare figlio di Dio?
   Dal punto di vista della ragione, potremmo dire che l’uomo può avvertire di essere figlio di Dio nel momento in cui avverte di avere in sé, nel suo corpo, qualcosa che non e' corpo: la coscienza della propria esistenza, o, come si suol dire, l'anima spirituale. Questo avviene, come si e’ detto, in un momento della storia dell'umanità, per l’intervento dell’Unigenito o per la evoluzione della capacità di pensiero dell'uomo.
  Se in questo processo evolutivo c'è stato un intervento esterno della divinità che ha fatto prendere coscienza dell'evoluzione intervenuta, non trovo difficoltà ad ammetterlo, se ammetto l'esistenza d'un Principio o Energia che guida l'evoluzione del mondo.
  Ma che ci sia stato o no è indifferente!
  Nel momento in cui l’uomo ha cominciato a distinguere il bene dal male ha preso  a sviluppare la capacità di pensare e di sentire, ha sviluppato in se stesso la propria essenza spirituale.
  Essenza spirituale che si è andata sempre più raffinando fino a quando è riuscita a concepire la divinità come l’Assoluto sentendosi parte di esso in relazione con lui.
  Come ricorda Arnold Toynbee, nel VI secolo avanti Cristo in cinque parti diverse del mondo, ci furono cinque «illuminati», (Confucio, Buddha, Zarathustra, Pitagora e il Deutero-Isaia) che svilupparono un nuovo concetto di religione. «La caratteristica comune più importante è la possibilità per  il singolo essere umano di giungere ad un rapporto personale diretto con la realtà spirituale ultima, che sta nel, e dietro l’universo, nel quale l’uomo si trova. Originariamente il rapporto dell’uomo con la realtà ultima era stato non individuale e personale, ma collettivo e istituzionale». Il Dio della Bibbia è il Dio di Israele, non degli israeliti.
  Nel mondo mediterraneo, il pensiero di Dio in un rapporto diretto con l’uomo, si approfondisce  ancora nei secoli, in particolare nel mondo ebraico, che per primo aveva sviluppato l’idea del Dio Unico e Assoluto.
 Ad un certo punto, in un preciso momento della storia, prodotto dalla storia stessa, appare un uomo che testimonia ed enfatizza il nuovo modo dell’uomo di sentire il rapporto con Dio.
  Colombo, Galilei, Einstein sono grandi uomini a cui sono legate grandi scoperte rivoluzionarie per la storia dell’umanità. Da un lato questi possono essere considerati uomini provvidenziali per la storia del mondo, perché hanno avuto intuizioni che hanno impresso uno sviluppo diverso nella storia dell’uomo. Da un altro lato, gli stessi possono essere considerati solo riferimenti nominali di un processo che comunque era maturo, che altri, seppure con qualche marginale ritardo di tempo, avrebbe comunque esplicitato.
  E’ vero infatti che Galilei ha scoperto la sfericità della terra, ma è altrettanto vero che il pensiero del periodo storico in cui Galilei è vissuto, era maturo per giungere a questa scoperta.
  In un’ottica esclusivamente umana quindi Cristo potrebbe essere considerato come uno dei grandi della storia dell’umanità.
  Ma qual’è stata la sua scoperta?
  Che ogni uomo è, o può diventare, figlio di Dio.
  E come ha annunciato la scoperta?
  Proclamandosi lui per primo figlio di Dio e cercando di insegnare agli uomini un nuovo modo di vivere: da figli di Dio.
  Purtroppo però a differenza della sfericità o della gravità della terra la scoperta non è dimostrabile.
  Il ragionamento può essere lo stesso, con la differenza però di dover accettare il fatto indimostrabile che egli sia, come si è dichiarato, figlio di Dio. Ma se Einstein si aspettava che i suoi gli credessero sulla parola anche senza capire la dimostrazione, altrettanto poteva aspettarsi Cristo.
  Io sono relativo, avrebbe potuto affermare Einstein, scoprendo il principio della relatività dell’uomo. Allo stesso modo Cristo afferma, io sono figlio di Dio, scoprendo il principio della divinità dell’uomo, e quindi che tutti gli uomini sono figli di Dio.
 In effetti ad  ognuno verrebbe spontanea la sollecitazione fatta a Cristo da Filippo:
  «Signore, mostraci il Padre: questo ci basta.»
  Certo che ci basterebbe! Senza tanti giri di parole e senza essere costretti ad aiutare la ragione con i «salti di fede». Ma dobbiamo ammettere che la risposta di Cristo è logica ed esauriente:
«Filippo chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi dire mostraci il Padre? Dunque non credi che io vivo nel Padre il Padre vive in me? Io sono nel Padre e il Padre e’ in me»
Volendo cercare di approfondire per arrivare ad una idea più accettabile dalla ragione, si può riprendere il  ragionamento iniziale.
Dall'idea del Mondo è nato il mondo, ma ad un certo punto della sua storia, l'idea stessa si è materializzata in uno degli elementi del mondo: l'uomo. Se prima l'uomo era uno degli elementi costitutivo dell'universo, da questo momento diventa l'elemento centrale che giustifica l'universo, ed attorno al quale l'universo di muove.
All'uomo che aveva paura degli elementi del mondo, al punto da divinizzarli e farli oggetto delle sue preghiere, facendo incarnare l'idea del mondo in lui, Dio mostra   che è lui che ha in sè l'idea del mondo e che quindi può controllare gli elementi dell'Universo e l'Universo intero.
L'idea può sembrare spinta ed in certo qual modo paradossale. Ma  se di paradosso si tratta il paradosso è nel Vangelo perché e incontestabile che la rivelazione del Vangelo e' che l'Uomo e' figlio di Dio.
"Chi ha l'amore", ripete Giovanni nella sua prima epistola "è diventato figlio di Dio e conosce Dio" ed ancora più esplicitamente:
"Quale grande amore ci ha dato il padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!"
Dire che  l'uomo è figlio di Dio  non può non voler significare altro che la centralità dell'uomo rispetto al disegno complessivo di Dio sul mondo.
Se Dio ha adottato l'uomo come figlio è evidente che l'ha fatto perchè ha un disegno nel quale l’uomo-figlio assume il ruolo principale.
Nel Vecchio testamento, a Noè Dio aveva parlato dell'alleanza, che avrebbe realizzato tra se' "tra Dio e ogni essere che vive in ogni carne".
Il fatto che la Parola si sia fatta carne, uomo, modifica evidentemente il patto di Dio con l'uomo, che non è più alla stregua degli altri animali, ma che ora ha la possibilità di diventare figlio di Dio.
Eppure per quanti ragionamenti si possano costruire, l’espressione Uomo figlio di Dio, continua a risultare assurda e paradossale!
Forse a rendere il concetto meno improponibile ed inconcepibile può aiutarci la strada  già imboccata nei capitoli  precedenti. Infatti, almeno per me, tutto diventa più chiaro, se immagino che l’uomo faccia il percorso che la metafisica orientale, attribuisce a Dio.
L’uomo ad un certo punto, per evoluzione o per rivelazione, ebbe coscienza di sè come individuo, del proprio esistere. Ma nello stesso momento in cui capì di esistere, capì l’Esistenza. Capì quindi di essere sviluppo (figlio) dell’Esistenza, e quindi con una espressione  che tutto sommato rende bene il concetto, capì d’essere figlio di Dio.
Ma se Cristo è  figlio di Dio e chi vede lui vede il padre che l’ha mandato, anche nell’uomo che diventa figlio di Dio  si deve vedere Dio.
Infatti se Dio e’ l’Esistenza, come ho già detto, Dio e’ anche il Principio del mio esistere.
Per capire l’affermazione si deve risalire al concetto di Dio. Giovanni non ne parla perché dà per scontato tutto il Vecchio testamento. Ma anche il Vecchio Testamento dà per scontato Dio, aprendo subito con la proposizione «in principio Dio creò il cielo e la terra.
Se invece cerchiamo di ripassare il concetto, con la chiave della metafisica indiana, vediamo che Dio principio d’ogni cosa diventa:
ciò che e’ l’udire dell’udito
il pensare del pensiero
il parlare della parola
il respirare del respiro
il vedere della vista.
E ancora:
Il Dio, il creatore, il grande Sé
dimora nel cuore delle creature.
E’ contenuto nel cuore, nel pensiero nella mente. Coloro che sanno ciò diventano immortali.
  Il «Ciò che è», si trova nel mio cuore come «ciò che sono». Il concetto è lo stesso usato  da Giovanni, quando dice  che il «ciò che sono» è figlio del «Ciò che È», che l’uomo, «ciò che sono», è figlio di Dio, «Ciò che È».


















Cap. 7
Io, figlio di Dio.

  La riflessione  sulla divinità, su Dio, come ho già detto, non è e non vuol essere una riflessione filosofica ed accademica, anche se non può prescindere da alcuni concetti filosofici. Il problema del chi è Dio, non ci interessa tanto come problema in sé, quanto per il fatto che ci aiuta nel tentativo di comprendere la sconvolgente rivelazione di Giovanni che: “Io, sono figlio di Dio”.
  Se  voglio capire cosa si intende dire quando mi si dice che  sono figlio di Dio non posso non cercare di capire, o almeno di intuire, che cosa debba intendere con il termine, Dio, del quale io sarei figlio
  Quand’anche poi fossi riuscito a convincermi, attraverso gli spunti di riflessione dei capitoli precedenti che è possibile pensare ed ammettere anche che l’uomo e figlio di Dio, non avrei raggiunto ancora alcun risultato. Dal sapere che l’uomo e’ figlio di Dio, alla convinzione che io sono Figlio di Dio, c’è ancora un abisso, c’è ancora un impressionante  salto nel vuoto.
  Tutto in effetti sembrerebbe facile! Se l’uomo è figlio di Dio, come s’è visto, ed io sono un uomo, è evidente che io sono figlio di Dio. Il sillogismo non fa una grinza! Eppure non basta! La convinzione che richiede il Vangelo non deve fermarsi a livello razionale deve entrare nel mio intimo al punto da conformarmi e condizionarmi per costringermi a vivere da Figlio di Dio.
  Non mi si chiede di pensare al figlio di Dio di immaginarmi tale, mi si chiede di essere figlio di Dio, di vivere da Figlio di Dio.
  Il cancro può diventare un argomento di discussione. Se ne possono avere opinioni diverse a seconda di come la malattia ci sia passata vicina, ci abbia più o meno toccato negli affetti più cari. Se ne possono dare valutazioni diverse a seconda della nostra conoscenza più o meno approfondita dell’argomento sotto l’aspetto scientifico o sotto l’aspetto sociale.
  Ma qui il problema è un altro, radicalmente diverso:  non si sta parlando del cancro, ma si stà dicendo che io ho il cancro. Sono io che  ho il cancro!
  Di fronte a questa rivelazione, i termini con i quali affronto l’argomento  cancro, sono completamente diversi. Il cancro non è più per me materia di discussione, diventa un nuovo modo di essere, di pensare e di vivere.
  Può sembrare paradossale questa metafora sul cancro, questo mettere sullo stesso piano la rivelazione che mi può venir fatta della mia condanna a morte, con la rivelazione del premio della vita eterna che mi viene assegnato in quanto figlio di Dio.
  Ma il paradosso evidenzia molto bene come la mia condivisione della rivelazione  deve essere radicale e totale.
  Nel momento in cui mi venisse annunciato che ho un tumore mortale, non potrei evitare un momento di smarrimento, resterei travolto dalla sensazione che il mondo mi cada addosso annullandomi. In quel momento di fronte alla comunicazione della mia condanna a morte, vedrei venir meno d’un colpo tutto quello che sono stato e sono, per ritrovarmi solo sulla strada che porta irreparabilmente al precipizio.
  In termini diametralmente opposti, la comunicazione che sono «figlio di Dio», se la capissi veramente in tutta la sua portata, dovrebbe avere per me lo stesso effetto sconvolgente. Smarrito di fronte alla grandezza della rivelazione, dovrei sentirmi al centro del mondo, capace di determinare il mio destino e quello del mondo. Dovrei d’un colpo sentire in me venir meno tutto quello che sono stato e sono, per sentirmi completamente diverso, su una strada completamente diversa, in un mondo completamente diverso.
  E invece no! E come se il medico m’avesse detto che ho il cancro ed io non conoscessi il significato della parola. E’ quindi necessario che qualcuno mi spieghi che la parola cancro è sinonimo di condanna a morte, come è necessario che qualcuno mi spieghi che «figlio di Dio» è sinonimo di destinato alla vita eterna.
  E questo è in fondo ciò che ha cercato di fare Cristo, nei suoi tre anni di predicazione, come ce la racconta Giovanni.
  Non c’è occasione nella quale Cristo non trovi il modo per ricordarci che Lui è figlio di Dio, che anche noi possiamo diventarlo, e che il figli di Dio hanno diritto alla vita eterna.
  Ma, purtroppo sono ancora affermazioni che io sento come modi di dire, non come modi di essere!
  Il problema, alla luce delle Upanishad, sta nel fatto, che io mi sforzo di capire, ciò che invece non si può capire ma si può solo intuire. Quando mi dovessero dire che ho il cancro, non ha nessuna importanza che io capisca il meccanismo delle metastasi impazzite, devo solo intuire che sono condannato a morte.
  Da occidentale, ho sempre cercato di capire ciò che sono, per cercare di risalire a ciò che È, e attraverso questo ragionamento trovare il senso del mio esistere. Da occidentale evoluto, devo invece capire che il mio esistere, non può essere conosciuto, ma solo sentito, intuito, così l’Esistenza può essere solo sentita e non conosciuta.
  Io devo sviluppare e affinare la capacità di sentire ed intuire il mio esistere, così affinerò la mia capacitò di intuire l’Esistenza, in questo percorso il mio esistere scoprirà progressivamente il suo identificarsi con l’Esistenza, conquistando la possibilità di una identificazione completa ed eterna, una volta liberato dal corpo mortale.
  Così per le Upanishad «colui che lo conosce per intuito e tramite ogni vibrazione di sapienza e consapevolezza, consegue l’immortalità».
  Così per il Vangelo: «se uno mi ama, io verrò da lui con il Padre mio ed abiteremo con lui».
  L’errore nostro è quello di cercare di conoscere ciò che invece va “amato o intuito con una vibrazione di consapevolezza”. Ma l’errore ancora più grande è quello di cercare Dio nei cieli, quando il  Vangelo spiega chiaramente che solo attraverso il figlio si puo’ conoscere il Padre. E’ quindi attraverso me, in quanto figlio di Dio, che arrivo a Dio.
  Io, dice Cristo, in quanto figlio di Dio, sono la via la verità e la vita, solo per mezzo di me si va al Padre. E quindi ognuno di voi, in quanto figlio di Dio, è per sè stesso la via per la quale si va al Padre.
  Il senso dell’essere figlio di Dio sta quindi nel fatto che attraverso me, ritrovandomi nel essenza del mio esistere, io ritrovo l’essenza dell’Esistenza. Questo e’ anche il senso profondo dell’affermazione di S. Agostino quando dice che la verità è nell’intimo dell’uomo, e delle Upanishad quando dicono che Dio è nel cuore dell’uomo.
Condividendo l’Esistenza, attraverso il progressivo penetrare nel senso intimo del nostro esistere, si raggiunge la vita eterna. Così le Upanishad: «Ma coloro che con il cuore e con la mente lo riconoscono come colui che dimora nel cuore, diventano immortali». Così Cristo:
«La vita eterna e’ questo: conoscere l’unico vero Dio».


Cap. 8
Il buon pastore.

 Di fronte alla conclusione che riconoscersi figli di Dio è per l’uomo immedesimarsi nell’intuizione del proprio esistere come momento dell’Esistenza, posso anche capire che qualcuno si mostri perplesso, ma, ripeto, le mie non vogliono essere conclusioni ma riflessioni aperte, spunti per ulteriori approfondimenti individuali.
In questa ottica ho voluto verificare come potrebbe essere letta la parabola del buon pastore, assumendo come chiave di lettura le considerazioni  a cui in qualche modo si è già pervenuti.
Gesù disse: Io vi assicuro che se uno entra nel recinto delle pecore senza passare dalla porta, ma si arrampica da qualche altra parte è un ladro e un bandito...E poi accorgendosi che quelli che lo ascoltavano non capivano quanto stava dicendo, riprese a dire: “Io sono la porta per le pecore...” E con questa spiegazione, si può ben capire, lo sbandamento dell’uditorio fu totale...
Del passo sono state date le più disparate interpretazioni, io vorrei provare ad aggiungerne un’altra ancora immaginando che Cristo abbia voluto dire che:
Io che proclamandomi figlio di Dio sono la rivelazione per l’uomo che anche lui e’ figlio di Dio, sono la porta attraverso la quale si può entrare nel recinto protetto del cuore dell’uomo. Chi e’ entrato da altre parti, partendo da altri punti di vista, ha portato solo scompiglio, come il ladro che entra nell’ovile. Chi entra invece attraverso l’idea che l’uomo e’ figlio di Dio, ricompone in unita’ il gregge dei sentimenti, dei moti dell’animo dell’uomo che si riconoscono come  modi di essere dell’esistere individuale.
Chi è entrato nell’uomo con altri riferimenti interpretativi ha portato solo danni.  Chi entra da ladro, uccide e distrugge, portando solo infelicità. Chi entra attraverso e quindi con l’idea di essere figlio di Dio sarà salvo. Chi entra in sè, come il buon pastore nell’ovile, cioè con l’idea d’essere figlio di Dio, dà  la vita al gregge  degli elementi che lo costituiscono, fa cioè rivivere tutto di sé.
Chi invece entra da mercenario e quindi vuole soltanto utilizzare il gregge-uomo, all’arrivo del lupo del dubbio e dell’angoscia, non riesce a dare risposte e si ritira. Le pecore non sono sue, lavora per denaro. Allora il dubbio e l’angoscia rapiscono l’uomo portandolo fuori di sé e disperdendolo.
L’idea d’essere figli di Dio, riporta ad unità l’uomo, l’idea infatti si riconosce in ogni elemento dell’uomo ed ogni elemento si riconosce nell’idea, come l’intuizione dell’esistere si riconosce nell’Esistenza, ed è da questa relazione, che all’uomo viene la vita eterna.
Ci sono altri elementi dell’uomo, come quelli riferiti alla ragione, che non si riconoscono ancora in questa idea, che non l’accettano. Ma con il buon pastore ci sarà la possibilità di ricomporre ad unità l’uomo nella sua totalità come un unico gregge con un unico pastore. Questa è la prospettiva dell’uomo-cristiano.
La ragione deve insegnare all’uomo a sapere di Dio per porsi sulla strada della conoscenza di Dio. Proprio attraverso la ragione l’uomo, come s’è già visto, deve rendersi conto che Dio non può essere capito ma deve essere solo conosciuto, giorno per giorno, in un percorso continuo di approfondimento della propria conoscenza o meglio della propria intuizione.
 Nessun uomo può pensare, per quanto lunga possa essere l’esistenza che gli viene concessa, di riuscire a  capire tutto il mondo che pure è finito. E come può pensare di riuscire a capire, cioè a comprendere in sé, Dio che è infinito.
L’uomo ha un solo modo per scoprire Dio, quello di imparare a scoprirsi figlio di Dio.
La mia è una interpretazione che potrebbe anche sembrare una bestemmia, come una bestemmia può sembrare l’affermazione che io sono figlio di Dio.
E infatti anche Cristo lo volevano uccidere a colpi di pietra proprio perché a loro avviso  “bestemmiava”  insistendo sul discorso del pastore e delle pecore e sul suo essere figlio di Dio,  una cosa sola con il Padre. Allora potrei anch’io difendermi, parafrasando  le sue stesse parole.
“Guardate che già la Bibbia chiama Dei coloro ai quali fu rivolta la parola di Dio, e quindi non c’è nulla di sorprendente nel fatto che io mi dichiari figlio di Dio (e che quindi anche voi possiate considerarvi figli di Dio)”.
All’obiezione che l’interpretazione della parabola è comunque troppo spinta, troppo “tirata”, risponderei invece chiedendo un ragionamento alla rovescia. Nell’ipotesi che il Cristo-filosofo avesse veramente voluto trasmettere questi concetti, come diversamente avrebbe potuto esprimersi, per farsi capire dai pescatori ai quali cercava di insegnare la novità del loro essere figli di Dio?
Non a caso, introducendo la parabola del buon pastore Cristo aveva detto ai Farisei:
“Se foste ciechi non avreste colpa, invece dite noi vediamo, così il vostro peccato rimane”. Come a dire, non si può mai  dire ho già visto, so già…
 Appunto, nessuno sa già di Dio. Dio va cercato e scoperto continuamente. sul percorso della ricerca del proprio rapporto con l’Esistenza..


Cap. 9              
Figlio dell'Uomo e Figlio di Dio.

Nel Vangelo i due termini si alternano, al punto che si potrebbe dire possono essere considerati sinonimi.
Troviamo infatti l'espressione "Nessuno è mai stato in cielo, soltanto il Figlio dell'Uomo. Egli infatti e venuto dal cielo", in un contesto nel quale ci sembrerebbe più logico trovare il termine figlio di Dio. Analizzando più attentamente i contesti nei quali vengono usati i due termini, troviamo che Cristo fa riferimento a sé come figlio di Dio:
"Se voi conosceste me conoscereste anche il Padre mio".
Ma quando si nomina si chiama Figlio dell'Uomo:
"Vedrete il cielo aperto, e gli angeli di Dio salire e scendere verso il Figlio dell'Uomo".
L'affermazione che lui è Figlio di Dio viene normalmente fatta dagli altri.
È Natanaele infatti che dice:
"Maestro, tu sei il Figlio di Dio".
Oppure é Giovanni Battista a  testimoniare che:
"Gesù è figlio di Dio"
Al di là del come e del quando vengono usate le due espressioni ciò che più importa sottolineare è che, in questa contrapposizione, si introduce il dualismo che costituisce l’innovazione della filosofia cristiana.
Io vorrei suggerire, anche qui, una nuova interpretazione, nel senso che Cristo  introduce, ma allo stesso tempo  supera e ricompone, il dualismo!
Il cristianesimo, secondo l’interpretazione comune, avrebbe introdotto la lacerazione dell’unità dell’uomo,  dissolvendo la concezione della vita armonica del mondo classico, in una concezione drammatica ed inquieta, Il cristiano è un uomo che vive la provvisorietà del mondo terreno in una tensione versa l’al di là. L’uomo cristiano non saprebbe cogliere, come quello classico, la bellezza dell’universo, perché l’universo è corrotto e fonte di corruzione.
Questa visione nasce da una errata interpretazione del messaggio evangelico, o meglio,  da una sua lettura, senza riuscire a superare la concezione antropomorfa della divinità.
Il dualismo tra me e Dio, tra la vita terrena e quella ultraterrena, si sviluppa sull’equivoco che, altro da me sarà quello che vivrà la vita eterna, che altro da me è il Dio da inseguire nei cieli.
Ma se la novità del messaggio è che io sono figlio di Dio, è in me che debbo ricercare Dio ed è in me che debbo costruire la vita eterna. Io non sono doppio, figlio dell’uomo e figlio di Dio, per cui in me ci sarebbe  una tensione continua tra i due poli, ed una sofferenza drammatica in questa tensione. Io sono allo stesso tempo figlio dell’uomo e figlio di Dio. Il senso della mia vita, si risolve in me nell’obiettivo di trasformare il figlio dell’uomo in figlio di Dio, capace di vivere al massimo grado di sensibilità la vita eterna.
La venuta di Cristo ha un solo motivo: quello di insegnare agli uomini il modo di raggiungere la vita eterna. L’insegnamento è che dobbiamo vivere la vita con il corpo, in modo da poter vivere, nel modo migliore, la vita senza corpo, nell’eternità.
Per fare questo, devo utilizzare il mondo. Utilizzare non significa nè negare, nè lasciarsi travolgere. Utilizzare significa essere attenti non alle cose, ma al rapporto con esse. Le cose non ci appartengono, il nostro rapporto con le cose invece, è assolutamente «nostro». Nel rapporto si sviluppa e si raffina la nostra sensibilità. Il rapporto non nega il possesso, purchè il possesso non diventi il fine, ma un mezzo per intensificare il rapporto.
Chi ha acquistato un quadro solo per far sfoggio con gli amici del suo possesso, ha, in fondo, tanto di meno di chi ha visto una sola volta quel quadro, ma si porta dentro, e riesce a rivivere, l’impressione intensa e profonda  che ha provato vedendolo.
Se chi ha provato un’emozione, compra il quadro per rivivere meglio quell’emozione, ha evidentemente acquistato il quadro, non per il quadro, ma per l’emozione. Se però l’ha fatto per riservare in esclusiva per sè quell’emozione, si priva del piacere di sapere, che quella emozione, è condivisa da altri, e quindi si priva del piacere di poterla condividere con altri.
  C’è chi nel mondo può acquistare il quadro, e chi invece no. Ma non è questo a fare la differenza. La differenza vera, è nel diverso grado di emozione, che il quadro sa suscitare in noi.
  L’idea del cristiano, non è quella dell’uomo che cerca Dio nei cieli, incespicando nella terra. Il cristiano cerca Dio in sè , (in interiore homine habitat veritas) ed interiorizza il mondo, come mezzo per raggiungere Dio e la vita eterna.
  Non c’è dualismo quindi ma una unicità assoluta della ricerca di Dio in sè stessi, in una rapporto con il mondo, strumentale ai fini della ricerca di Dio.










Cap. 10
Dio Padre.

  Dicevo all'inizio, della diffidenza istintiva a pensare a Dio, come a quel buon vecchio padre,  che dall'abside della chiesa della mia infanzia sembra attendere con pazienza e comprensione i fedeli del paese. Ma dopo aver introdotto il concetto  dell’Esistenza, dell'Energia vitale o dell'Idea del mondo, per spiegare in termini più logici l'idea d'un Dio che fa incarnare come uomo il figlio, ho l’impressione d’essermi perso il senso di un'altra delle idee originali del Vangelo: l'idea che  Dio è Padre.
  Quando parla di Dio, Cristo, parla normalmente del Padre, ed è un concetto assolutamente originale non solo nei confronti del Vecchio testamento, ma anche delle altre religioni. Un concetto importante che va capito e approfondito, e non messo da parte, come se si trattasse solo di un modo di dire.
  Io vorrei riuscire a capire se è possibile mantenere l'idea d’un Dio padre, senza che questa cozzi con l'idea che Dio non può essere un uomo, e tantomeno può essere raffigurato ed immaginato come tale, perchè è invece l’Esistenza,  il Principio da cui e per cui, ogni cosa nasce e vive.
  La soluzione del problema credo possa stare nella considerazione che non è tanto importante che io riesca a mettere a fuoco  l'idea che  Dio è Padre, quanto l'idea, che io sono Figlio di Dio. Può sembrare un giro di parole: come posso sentirmi figlio, se non riesco a sentire il Padre?.
  Non è così! La situazione dell'uomo nei rapporti con Dio Padre, a mio avviso, è la stessa del figlio, che non ha mai avuto la possibilità di conoscere il padre naturale. Immaginiamo un  ragazzo che si ritrova in orfanotrofio senza sapere chi sia suo padre, senza la possibilità di avere neppure una fotografia. Sa di avere un padre, perchè non può essere diversamente. Ma questi non ha un volto, se non quello che il figlio riesce ad attribuirgli con la sua immaginazione.
  Tra il padre e lui non c'è, e non ci può essere, alcun rapporto naturale.  Ma, tra lui e il padre, si sviluppa invece  un rapporto ancora più intenso di quello che i suoi compagni hanno con i loro genitori. Suo padre è una sua intuizione, con la quale parla continuamente, alla quale chiede aiuto, chiede consigli in ogni momento della sua giornata. Suo padre è una presenza viva, dentro di lui, soprattutto nei momenti più importanti o nei momenti più difficili della vita. Suo padre è l’immagine che emerge dalla sua profonda nostalgia, per un rapporto che gli consente di sentirsi più sicuro, più capace di affrontare la vita.
  L'intuizione profonda del Vangelo, come ho già avuto modo di dire, e proprio questa: io sono Figlio di Dio. Ma figlio di Dio, va sottolineato ancora, non e' un modo di dire, "lo siamo realmente" ribadisce Giovanni nella sua lettera!" Al contrario, è  veramente un modo di essere, un modo di intuire, e realizzare il rapporto con l'Essere, dal quale è dipesa la mia nascita, dal quale dipende la mia vita.
  La metafora del figlio che non ha conosciuto il padre, serve anche a ribadire il concetto che si ricava dal  Vangelo di Giovanni, d’un Dio che va ricercato all’interno dell’uomo. Come il figlio che non ha una immagine del padre, nè in fotografia né nella sua mente, come ricordo,  deve ricercare l’immagine nell’intimo del suo essere uomo, così nella profondità del nostro essere, dobbiamo ricercare Dio.
  Ritrovandolo in noi, non ci limiteremo a pensarlo, a riprodurlo come concetto, ma lo sentiremo «come carne della nostra carne, sangue del nostro sangue», proprio come il ragazzo sente il padre che non ha conosciuto.
  Se ho perso il padre, che mi guardava dall’abside della chiesa, per questa strada, ne ritrovo uno, molto più vero, più mio. Un Dio padre che non si contrappone al Dio esistenza, anzi supera la freddezza della scoperta di Dio sul piano filosofico, nell’umanità del rapporto che lega il figlio al padre.
  In questo concetto di Dio padre, si evidenzia come il rapporto del mio esistere con l’Esistenza, non è un rapporto di cui devo prendere atto, ma è un rapporto che devo sentire, devo vivere. Non è un rapporto che si ferma al  piano intellettuale, nel momento in cui mi convinco che esiste, ma un rapporto che deve svilupparsi sul piano sentimentale, diventando ogni giorno più intenso, più sentito, più autenticamente vero.
  Non e’ più il mio, il rapporto con il Dio dell’abside, davanti al quale devo inginocchiarmi, nel freddo della chiesa. È invece il mio, il rapporto con un Dio Padre che, giustamente, Giovanni nella prima epistola dice che «è amore, e chi vive nell’amore è unito a Dio, e Dio è presente in lui». È il mio il rapporto d’amore del mio esistere, con l’Esistenza da cui derivo, ed a cui sono destinato.
















Cap. 11
Nicodemo.

  Non e' che la strada per la quale mi sono incamminato risulti agevole. Capire, intuire, sentire di essere figlio di Dio, sembra quasi impossibile!
  Mi trovo forse nella stessa condizione di Nicodemo che credeva d'aver capito, ma non riusciva ancora a definire che cosa aveva esattamente capito. Allora, di notte va da Cristo per avere qualche spiegazione supplementare e si sente dire:
"Credimi nessuno può vedere il regno di Dio se non nasce nuovamente".
E Nicodemo, sorpreso da questa affermazione che gli complica, invece che chiarire quel poco che riteneva di aver capito, chiede ancora ingenuamente:
"Come e' possibile che un uomo nasca di nuovo quando e' vecchio? Non può' certamente entrare, una seconda volta, nel ventre di sua madre e nascere?"
Gesù rispose:
"Io ti assicuro che nessuno può entrare nel regno di Dio, se non nasce da acqua e Spirito. Dalla carne nasce carne, dallo Spirito nasce Spirito. Non meravigliarti se ti ho detto: dovete nascere in modo nuovo. Il vento soffia dove vuole: uno lo sente, ma non può dire da dove viene, né da dove va. Lo stesso accade con chiunque è nato dallo Spirito".
  Non è che la spiegazione renda più semplice il messaggio. Cristo contrappone il nascere da acqua e Spirito, al nascere dalla carne. Se dalla carne è nato il mio corpo, quello che sono e so di essere, cosa significherà nascere da acqua e spirito?
  Forse il nostro errore di fondo che rende tutto più difficile ed  incomprensibile e proprio quello di voler arrivare a Dio con la ragione!
  Dio, al contrario, non si può raggiungere con la ragione, non può diventare un elemento di quello che so, Dio può solo diventare oggetto del divenire continuo della mia conoscenza, in un rapporto diretto con il mio essere, non mediato dalla ragione ma intuito dall’intelletto, secondo la differenziazione che introduce San Agostino.
 Per arrivare a Dio devo ritrovarmi e quindi rinascere come spirito: come idea del mio esistere. Devo  ritrovarmi e quindi rinascere come acqua: come idea della mia conoscenza in perpetuo divenire.
  Dio non si può rinchiudere tra i propri ricordi, tra ciò che si sa, non può diventare parte del proprio passato, di quello che si è già acquisito.
  Può sembrare che si forzi l'allegoria, traducendo l'immagine dell'acqua con l'idea del divenire. Tuttavia non più di quanto la si forza immaginando che quell'acqua abbia il valore simbolico dell'acqua del battesimo.
  Volendo dire che l'uomo deve essere diverso, per potersi rapportare con Dio, che deve essere spirito e non ragione, l'immagine che debba essere figlio dell'acqua, invece che della terra, mi pare un'immagine estremamente comunicativa.
  Se l'interpretazione è legittima Cristo dice a Nicodemo che per entrare nel Regno di Dio e quindi essere ammessi alla sua conoscenza, è necessario rapportarsi con lui non con la Ragione ma con lo Spirito, non con il Sapere, ma con la Conoscenza.
  Con la Ragione, nella storia più volte si è tentato di dimostrare l'esistenza di Dio. Ma è già assurdo in sè il fatto che si sia immaginato un tentativo in questo senso. Come si è già detto, se fosse possibile comprendere Dio, con la ragione limitata dell'uomo, vorrebbe dire che Dio è limitato: ed è quindi una contraddizione in termini. Non è possibile dimostrare l'esistenza di Dio, non fosse altro perchè, Dio in effetti non esiste, ma E' l'Esistenza.
  L'Esistenza è invece intuibile con la nostra coscienza, con il nostro essere o anima o spirito che dir si voglia. Ed è questa intuizione che va approfondita, allenando il nostro essere alla relazione con l'Esistenza, attraverso la preghiera, intesa come riflessione sul proprio rapporto con Dio.
  In questo rapporto si svilupperà la nostra conoscenza, da non confondere, va sottolineato, con il sapere. Una conoscenza che non diventa mai un dato, che si rinnova di giorno in giorno che è sempre nuova.
  In questo rinnovarsi continuo della conoscenza di Dio,  attraverso la conoscenza del proprio esistere si ritrova la bellezza del messaggio evangelico. È in fondo anche il messaggio di altre religioni, che insegnano all'uomo a rapportarsi in termini di amore con Dio, a ritrovare Dio, non nell’alto dei cieli, ma nella profondità del mio cuore di uomo. Dicono ancora le Upanishad:
«Questo mio sé, situato nel cuore è più piccolo di un granello di riso, o di orzo, o di sesamo, o di miglio, o del nucleo di un grano di miglio.
Questo mio sè, situato nel cuore, è più grande della terra, più grande dell’atmosfera, più grande del cielo, più grande di tutti i mondi.
Ciò che contiene tutte le opere, tutti i desideri, tutti gli odori, tutti i gusti, ciò che abbraccia tutto questo mondo, silenzioso, indifferente, e’ questo mio sè, situato nel cuore. In esso entrerò lasciando questa terra».
 






Cap. 12
La samaritana.

  Se qualcosa non dovesse risultare ancora sufficientemente chiaro dopo l’incontro con Nicodemo, possiamo rifarci, per un approfondimento, all’incontro con la samaritana.
  Ad un pozzo, Cristo incontra una donna della Samaria  che gli dà da bere. Nel contesto del colloquio, Cristo esce con due affermazioni estremamente importanti. Ad un certo punto dice alla samaritana che se lei sapesse chi si trova davanti, sarebbe lei a chiedere acqua.
  La donna osserva:
"Signore, tu non hai un secchio e il pozzo è profondo: Dove la prendi l'acqua viva?"
Gesù risponde alla donna:
"Chiunque beve di quest'acqua avrà di nuovo sete. Invece se uno beve dell'acqua che io gli darò, non avrà mai più sete: l'acqua che io gli darò diventerà per lui una sorgente per l'eternità". E poi più avanti Cristo aggiunge:
"Verrà un ora, anzi è già venuta, in cui gli uomini adoreranno il padre guidati dallo Spirito e dalla verità di Dio. Dio è spirito chi lo adora deve lasciarsi guidare dallo spirito della verità di Dio".
  Qui evidentemente con la metafora dell'acqua si riprende il ragionamento sulla conoscenza di Dio.
  "Se uno beve dell'acqua della conoscenza di Dio, che io gli darò, non avrà più sete". Nella conoscenza di Dio, si appagheranno anche i suoi perchè sul significato  della propria esistenza, del proprio destino.
  Ma secondo il ragionamento del capitolo precedente, la sete non sarà appagata dal sapere acquisito, una volta per sempre.      L'acqua che Cristo promette, non è una rivelazione che si acquisisce una volta per tutte, e che una volta acquisita, appagherà ogni  sete di sapere. L'uomo invece, non avrà più sete, perchè avrà accanto una "sorgente per l'eternità'" alla quale potrà bere continuamente, sulla quale potrà riversare in continuazione, non il bisogno,  ma il piacere di bere.
  E più avanti, fuor di metafora, la sorgente alla quale gli uomini berranno, diventa gli "uomini adoreranno il padre, guidati dallo Spirito e dalla verità di Dio.
  Qui il concetto di conoscenza di Dio come relazione tra lo spirito dell'Uomo e lo Spirito di Dio, è chiaramente interpretato attraverso l'uso del verbo "adorare", per cui si può parlare di conoscenza come preghiera, come contemplazione, come meditazione.
  Nella pratica cristiana che io conosco, i termini più usati sono «pregare», o addirittura «recitare una preghiera», il termine «adorare» e poco usato e quando lo è, diventa un sinonimo di pregare, o comunque di pregare con particolare intensità.
  Cristo invece spiega che il rapporto dell’uomo con Dio deve essere il rapporto non di chi chiede, ma di chi beve Dio, ponendosi in rapporto di adorazione. Un modo di rapportarsi, che ci ricorda da vicino quello delle religioni orientali, per cui, per capire meglio possiamo parlare di adorazione di Dio, come meditazione di Dio.
  Forse, anche per l’occidentale del duemila, l'azione del meditare sull'esistenza di Dio, secondo il concetto di meditazione nelle filosofie orientali, potrebbe essere diventato  il modo più adeguato di "adorare Dio".
  Soprattutto se si tiene presente che non si deve adorare il padre, che è nell’abside o nei cieli, ma il Padre che, come figli, abbiamo in noi. Il Sé di cui parla la Upanishad citata nel capitolo precedente, il sé del nostro esistere, che si perde come un atomo nell’infinito del nostro cuore, ma che contiene l’infinito dell’Esistenza.
  La differenza tra chi si riconosce nel Vangelo e chi non lo accetta, non sta nel fatto che i primi si caricano di rituali, obblighi e paure che gli altri non accettano e quindi non subiscono, ma nel fatto che, bevendo della nuova acqua, il cristiano avrà appagata la sua sete, superata l’angoscia esistenziale. A me, nel catechismo, il messaggio è stato invece tradotto in altri termini. Io ho imparato che per “seguirlo” avrei dovuto andare a messa ogni domenica, confessarmi e comunicarmi almeno a Pasqua, non mangiar carne il venerdì,  rinunciare ai piaceri della corpo…
  In quel che mi è stato insegnato, tutto è banale e meschino. Nel Vangelo ritrovo invece le immagini forti dell’acqua e della luce che danno la vita. È possibile che la grandezza di queste immagini sia finita nello stantio odore di muffa d’un confessionale dove, con una penitenza di tre Pater e tre Ave, vengo rimesso sulla strada della conquista dell’eternità?

















Cap. 13
La Chiesa e il Vangelo.

  Tolstoj nel saggio "La mia fede", partendo dalla mia stessa premessa di voler rileggere il Vangelo,  prescindendo dalla interpretazione che ne ha dato la Chiesa, arriva a distinguere nettamente una dottrina di Cristo, ed una dottrina della Chiesa, normalmente diverse, e spesso contrapposte.
  Il ragionamento paradossale che avrebbe fatto la Chiesa, secondo Tostoj, e stato questo: la dottrina di Cristo è estremamente interessante, ma è inattuabile. Ne ha quindi  estrapolata una,  più accettabile, più a misura d'uomo. Tolstoj, rifiutando questa interpretazione prova a  rileggere il Vangelo e trova  che la chiave di lettura, l'elemento  di fondo sul quale si regge tutta la costruzione del messaggio evangelico, è la frase: "Non opponete resistenza al male".         
Sul fatto che questa sia la chiave di volta del Vangelo, concorda anche Nietzsche il quale, su questa constatazione, poggia la considerazione scandalizzata che non si può non rifuggire da una filosofia che considera "morale l'incapacità di opporre resistenza".
  Tolstoj invece, sostiene  convinto che la frase va interpretata alla lettera, e spiega quindi  il Vangelo come messaggio della non resistenza.
  A me pare  che abbiano ragione l'uno e l'altro nel considerare la frase come centrale rispetto al messaggio, ma sia l'uno che l'altro, la interpretino  in termini, all’opposto, troppo radicali.
  Ritengo sia possibile una terza interpretazione. Se mi sono convinto infatti che il modo migliore di vivere l'esperienza umana  è quello di vivere in uno sorta di stato di innamoramento nei confronti di Dio, della natura, degli uomini miei fratelli, quando incontrerò qualcuno che vive la sua esperienza come odio, come invidia, come volontà di male, non mi lascerò trascinare sul suo campo. Io proseguirò per la mia strada, continuerò ad amare.
Così facendo diventerà naturale rispondere  con l'amore all'odio, e quindi realizzare il comandamento per il quale Cristo  mi chiede di amare anche i nemici. Ma sarà un fatto conseguente, un persistere sulla mia strada convinto che sia la migliore, la più alta, senza lasciarmi distogliere da chi vorrebbe portarmi sul suo piano, a combattere con le sue armi, e quindi a rispondere con l'odio all'odio.
  Il concetto viene molto bene espresso da Paolo nell’inno all’amore, della prima lettera ai Corinzi.

E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi l’amore, non sarei nulla.
E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per essere bruciato, ma non avessi l’amore, niente mi giova.

  Non opporre resistenza al male, non è quindi un atteggiamento di debolezza come vorrebbe Nietzsche, nè un momento di abbandono come vorrebbe Tolstoj ma è un atteggiamento di superiorità, che deriva dalla convinzione che sono io ad essere nel giusto, sono io che vinco, sono io che sono Figlio di Dio.
Ma perché Tolstoj  può parlare d’una dottrina della Chiesa diversa dalla dottrina di Cristo? Perché la storia della Chiesa e’ così lontana dall'ispirazione vera del Vangelo, che pure considera come documento fondante? Perché la storia della chiesa, fino alle soglie del terzo millennio, è così poco storia della religione dell'amore?
  Perché una religione dell'amore, per sua stessa definizione, non può essere uno strumento di potere, ma è, al contrario, un elemento fortemente destabilizzante.
  La carica destabilizzante della nuova religione, era stata compresa appieno dall'impero romano. Da qui, con le persecuzioni, il tentativo di evitare che il nuovo credo riuscisse a radicarsi. Il problema non stava tanto nel fatto che il rigido monoteismo, avrebbe eliminato  il pantheon dei romani. Nerone non credo si preoccupasse affatto di come sarebbero finiti Giove e Giunone, capiva invece che una religione che predicava l'eguaglianza tra gli uomini, metteva  a rischio il sistema politico e sociale romano, basato proprio sullo sfruttamento di questa diseguaglianza tra liberi e schiavi, tra patrizi e plebei.
  Costantino, rendendosi conto che l'Impero romano non poteva vincere la battaglia, perché troppo velocemente e diffusamente si stava sviluppando la nuova religione, per la sua capacità di dare risposta alle aspettative di giustizia così diffuse nel particolare momento storico, rinunciò a combatterla, trasformandola invece in uno strumento di potere.
  Il cristianesimo così ebbe l’appoggio del potere politico per diffondersi, ma dovette adattarsi e trasformarsi per rispondere alle esigenze della politica, diventando uno strumento di potere. Nello scambio di favori, anche la  Chiesa riuscì ad imporsi come strumento di potere, allontanandosi evidentemente sempre più dal Vangelo della rinuncia al potere.
  Hans Jonas nel saggio provocatorio “Il concetto di Dio dopo Auschwitz”, si chiede come si possa pensare di ritrovare Dio nella storia, dopo il massacro senza senso dell'olocausto. Da ebreo osserva che "l'ebreo di fronte ad un simile interrogativo si trova teologicamente in una situazione più difficile del cristiano. Infatti per il cristiano, che attende l'autentica salvezza nell'al-di-là, questo mondo (e in particolare il mondo umano a causa del peccato di origine) è il mondo di satana, e conseguentemente un mondo non degno di fiducia. Ma per l'ebreo che vede nell'al-di-qua il luogo della creazione, della giustizia e della salvezza divina, Dio è in modo eminente il signore della storia e quindi "Auschwitz", per il credente, mette in questione lo stesso concetto di Dio, che la tradizione ha tramandato".
  L'osservazione di Jonas andrebbe rovesciata, con l'aggravante per i cristiani, che il nostro mondo è quello del Messia, che si è già rivelato, che ha già portato la giustizia tra gli uomini. La scusante che Jonas riconosce ai cristiani, è il presupposto per il quale il cristianesimo è diventato l'elemento forte d'un sistema di potere tutt’altro che cristiano. Attraverso l'alibi dell'aldilà si giustifica ogni sorta di comportamento negativo: se il mondo dei giusti e quello dopo la morte, è quasi scontato che il mondo della vita sia un mondo dell'ingiustizia.
  Prima di Auschwitz nel nome della croce del Dio dell'amore, c'era già stato l'olocausto dell'inquisizione, nello stesso nome c'è stato l'olocausto degli indigeni dell'America latina o degli schiavi dell'Africa, con l'alibi magari che, solo troppo tardi, si è scoperto che anche loro avevano un'anima. Anche Auschwitz, del resto è stato giustificato  in qualche modo per vendicare la croce, e comunque è stato realizzato da cristiani.
  Come può essere avvenuto? Perché non si poteva che stravolgere la dottrina di Cristo, della liberazione dell’uomo, volendola utilizzare per puntellare sistemi di potere contro l’uomo. E così nell’interesse del «potere temporale», invece di testimoniare il Vangelo, in nome di Cristo che ha predicato la fratellanza tra tutti gli uomini, si sono benedetti  gli stendardi degli uomini che volevano  uccidere altri uomini.
  Ma si potrà arrivare a conciliare la dottrina di Cristo con la dottrina della Chiesa? A mio avviso il fatto nuovo dei nostri tempi è la possibilità per il cristianesimo  di tornare ad una interpretazione autentica del Vangelo.
  Paradossalmente mentre si utilizzava il Vangelo della liberazione degli uomini, per rendere gli uomini schiavi di nuove paure, di nuovi precetti, l’umanità riusciva a liberarsi per altra via. Attraverso l’illuminismo e la rivoluzione francese, in contrasto con la Chiesa, si sono imposti i principi di libertà, uguaglianza e fratellanza, cioè i principi che ispirano il Vangelo. Oggi si può dire che quei principi si siano affermati, (almeno nel senso che vengono unanimemente accettati), anche se non sono ancora entrati nelle coscienze, non informano di sé la società e le strutture che la governano.
  Riscoprirli nel Vangelo potrebbe essere un modo per favorirne l’affermazione, unendo ragione e religione nella liberazione dell’uomo come individuo, in una società veramente democratica.
  La coincidenza per la prima volta della teoria politica dell'uguaglianza, con la rivelazione evangelica dell'uguaglianza, consente di immaginare l'aprirsi d'un era nuova. L’era d’una vera  democrazia, per la quale gli uomini si autogovernano  sapendosi uguali, e si riconoscono  uguali, malgrado le evidenti differenze tra loro, nel fatto di essere tutti figli di Dio. L'aggettivo «cristiana» potrebbe dare  quindi un senso profondo allo stesso termine di democrazia, rendendolo più credibile, più possibile.
 Il termine cristiano può dare  un senso profondo e definitivo, alle motivazioni per le quali gli uomini devono costruire un sistema organizzativo che consenta di vivere il momento della storia, per prepararsi alla prospettiva dell'eternità.
  Non penso ad una sorta di comunismo cristiano, dove tutto viene appiattito nell’egualitarismo degli ultimi. Penso al contrario ad una società animata da un forte spirito di competizione, nella quale ogni figlio dell’uomo è chiamato ad esprimersi al massimo, senza tuttavia mai dimenticare, di essere allo stesso tempo figlio di Dio. Una famiglia di diseguali, con caratteri diversi e diverse capacità, ma una famiglia che nell’amore fraterno sa trasformare  la diversità in valore.






























Cap. 14.
La vita eterna.

  Le riflessioni sviluppate fino a questo punto, sono ancora tutte secondarie e marginali rispetto all’obiettivo di fondo che m’ero posto nella introduzione: quello di ricercare quale sia il senso della mia vita.
  La risposta che viene dal Vangelo di Giovanni è che la vita dell’uomo trova un senso nella vita eterna, che gli spetta in quanto figlio di Dio. Il senso quindi della mia presenza, come un breve respiro nella storia dell’umanità, è che questo respiro è destinato a restare per sempre, al  di fuori della storia, nell’Infinito. Ma su quali elementi possiamo fondare la nostra convinzione di essere destinati alla vita eterna?
  «Io sono la resurrezione e la vita, chi vive e crede in me non morirà in eterno»: dice Cristo a Marta che piange la morte del fratello Lazzaro. Per capire il senso dell’affermazione è importante ricostruire il contesto nel quale viene pronunciata.
  Siamo all’episodio della resurrezione di Lazzaro. Cercando di confrontare le versioni dei quattro evangelisti per ricostruire meglio il fatto, si scopre che è riportato solo da Giovanni. Evidentemente la sorpresa è grande, perché non può essere considerato uno dei tanti miracoli! Potrebbe essere considerato il miracolo, per così dire, più «spinto», visto che Lazzaro era morto già da quattro giorni. Ma doveva aver avuto anche un rilievo particolare, nella memoria degli apostoli, perché Lazzaro, Marta e Maria erano amici di Cristo, e quindi anche loro amici. Perché dunque solo Giovanni l’ha riportato?
  Potrei andare a ricercare le risposte che si sono certamente date tanti studiosi, e forse troverei anche una risposta razionalmente esauriente. Ma come ho detto più volte, non mi sono posto l’obiettivo di ricostruire la veridicità del racconto evangelico. Al limite, che sia vero o inventato il racconto, non sposta niente ai fini del messaggio che Giovanni ha voluto lasciarci, attraverso il racconto.
  Se fosse vero, Dio avrebbe reso possibile un fatto per rendere comprensibile il messaggio che dal fatto si ricava, se invece l’avesse inventato Giovanni, l’avrebbe inventato allo stesso modo, al fine di trasmettermi un messaggio.
  E’ il messaggio che mi interessa, non il come il messaggio mi è stato lasciato! È il messaggio che mi interessa, soprattutto in questo caso, in cui la rivelazione si riferisce alla vita eterna, cioè riguarda l’obiettivo di  fondo di tutta la mia ricerca.
  Cercando di capire il «contenuto» del racconto non ci si può non porre una domanda preliminare.  Perché, o nella realtà o nel racconto, Cristo ha resuscitato un amico dalla morte, dal momento che lui è venuto al mondo per insegnarci  che la morte non esiste, che in realtà è la nascita alla vita eterna?.
  Che si sia commosso per la morte è comprensibile, perchè comunque il distacco da un amico che parte, è motivo di dolore, anche se sappiamo che avremo modo di rivederlo. Ma che abbia deciso di riportarlo dalla vita eterna alla vita mortale, non è un controsenso? Che cosa ha voluto dimostrare con questo gesto?
  Il racconto di Lazzaro di solito ci viene presentato tralasciando  la premessa, che forse è invece il caso di ricostruire, per vedere se ci consente di entrare nel significato vero del racconto.
  Quando Gesù seppe che Lazzaro era ammalato disse:
«Questa malattia non porterà alla morte, ma servirà a manifestare la gloriosa potenza di Dio, e quella di suo Figlio».
Aspettò due giorni poi disse:
«Il nostro amico Lazzaro si è addormentato ma io vado a risvegliarlo».
Ai discepoli che obiettavano: «se si è addormentato guarirà», aggiunse:
«Lazzaro è morto, sono contento per voi che non eravamo la, così crederete. Andiamo da lui».
Quando giunsero alla casa di Lazzaro, questi «era nella tomba già da quattro giorni».
A Marta che gli dice: «Se tu fossi stato qui mio fratello non sarebbe morto». Cristo risponde:
«Chi  crede in me anche se muore vivrà, anzi chi vive e crede in me non morirà mai».
 Il fatto che poi usi dei suoi poteri per richiamare in vita l’amico, (dopo averlo lasciato morire per poterlo “risvegliare”), mi pare evidente ha il solo scopo di dimostrare proprio, quasi come in una rappresentazione teatrale, che la morte non esiste: è vero che Lazzaro è morto, che il suo cadavere è già in putrefazione, ma è vero anche che, nello stesso tempo, lui è vivo». La scena viene preparata, lasciando che Lazzaro muoia, lasciando che passi del tempo dopo la morte prima di intervenire, per poi risolvere la tragedia, nella dimostrazione che  in verità non è morto, che vive ancora. Appunto perché «chi crede in me, anche se muore, vivrà.
  A proposito della vita eterna c’è un’altra stranezza nei vangeli: ne parla solo Giovanni! Gli altri parlano piuttosto del Regno di Dio, usando parabole nel quale il Regno è visto come una festa, un banchetto.
  Questo elemento ci conferma nella giustezza della scelta che s’è fatta, di fermarsi al Vangelo di Giovanni. Qui il messaggio è più diretto, essendo rivolto ad un pubblico più preparato, ha una necessità minore di ricorrere a metafore ed a parabole.
  Anche il concetto della vita eterna, al di là del racconto di Lazzaro, (nel quale comunque l’idea della vita eterna viene affrontata con affermazioni assolutamente esplicite), viene ripreso altre volte, con affermazioni altrettanto dirette, che chiariscono in che cosa consista, e come si raggiunga la vita eterna.
  «La vita eterna è questo, conoscere te, l’unico vero Dio». Sulla base della distinzione che s’è introdotta tra sapere e conoscenza, è logico pensare che dopo una vita passata a conoscere Dio, con la mediazione dei sensi, si possa entrare nel sapere di Dio, che è eterno. Ma il sapere sarà in relazione al livello di conoscenza che si è acquisito. Da qui il senso della vita terrena, come momento propedeutico finalizzato ad acquisire il livello di conoscenza che determinerà il livello di rapporti nell’eternità.
  Chi nella vita terrena ha sviluppato una conoscenza esclusivamente in rapporto con le cose, quando gli vengono a mancare le cose, ha evidentemente una conoscenza nulla. E nulla sarà la sua vita senza le cose!
  Chi invece ha saputo usare delle cose per sviluppare la conoscenza di Dio. Quando perde le cose, mantiene la conoscenza. Come l’atleta che ha utilizzato gli attrezzi della palestra per migliorare la sua forza, quando esce dalla palestra non ha più gli attrezzi, ma ha la forza.
  Un amico informatico con il quale discutevo della possibilità logica di ammettere il passaggio dal temporaneo all’eterno, in modo che nell’eterno si potesse utilizzare quanto acquisito nel contingente, mi ha suggerito la parabola del chip senza periferiche.
  Il computer ha una memoria, che può essere utilizzata in tutto o in parte, caricando software cioè dati o programmi per la gestione dei dati. Per farlo c’è bisogno dell’hardware, che consente di acquisire gli input, i dati. Se, ad un certo punto, immaginiamo che vengano staccate tutte le periferiche di input, si blocca per il computer la possibilità di acquisire ulteriore conoscenza, può colloquiare in rete soltanto con gli altri computers che sono compatibili con lui, perchè hanno lo stesso livello di software, lo stesso  grado di conoscenza.
  Con una immagine che si rifà ai films di fantascienza, potremmo pensare ad un universo nel quale vengono prodotti in continuità dei microchips con una capacità di memoria infinita. Questi, per un periodo variabile, vengono calati nel mondo dell’input,  all’interno d’un corpo dotato di periferiche, che consente loro di restare impressionati con immagini, ma soprattutto con  parole e concetti. Si staccano infine dall’hardware per ritrovarsi nell’universo dell’outpout, ove è possibile utilizzare soltanto il software acquisito, creando delle relazioni con quelli che hanno la stessa possibilità di linguaggio.
  Se Dante dovesse riscrivere la Divina Commedia alla luce delle attuali conoscenze informatiche e telematiche, potrebbe immaginare un al di là nel quale i gironi vengono sostituiti da intranet virtuali, differenziate dal grado di comunicabilità all’interno della intranet e con Dio, cui tutte le intranet fanno capo.
  Dall’intranet più bassa, dove non c’è comunicazione, ove finiscono gli uomini che non hanno acquisito capacità di comunicazione, se non con le cose, ed ora si trovano condannati all’impossibilità d’un rapporto tra loro e con Dio, fino a quella di coloro che hanno acquisto in massimo grado la capacità di amare, sia gli uomini che Dio, e che ora godono eternamente di questa capacità di amore e di relazione tra sè e con Dio.
  Se la vita eterna è conoscere Dio, per ottenere la vita eterna, è indispensabile «riconoscere il figlio e credere il lui». Ma il riconoscimento non deve restare un fatto intellettuale.
  Conoscere Dio non può significare soltanto ammettere che esiste e programmare la propria vita per dedicargli alcuni ritagli del proprio tempo: un po’ di più la domenica, meno nei giorni feriali.
  Conoscere Dio deve diventare il modo di essere e di vivere di chi si riconosce figlio d’un Dio che è dentro di lui, con il quale convive ogni momento della sua vita, e del quale si nutre continuamente, perché «solo se uno mangia di questo pane, cioè del pane di Dio che viene dal cielo e dà la vita eterna, vivrà per sempre.»
   Cristo ribadisce più volte: «Io, in quanto figlio di Dio, sono il pane vivo disceso dal cielo, chi mangia di me, cioè assimila la convinzione d’essere figlio di Dio, come sono io, acquista la sensibilità che gli consentirà di vivere la vita eterna.»
  Qualcuno potrebbe considerare la parafrasi troppo forzata. Credo di no. Credo che questo sia il senso più profondo del messaggio evangelico: l’uomo sviluppa la sensibilità del suo esistere come «figlio» dell’Esistenza, per potere vivere eternamente l’Esistenza.La stessa sensibilità si sviluppa nel rapporto d’amore con gli altri.
  Un’altra delle chiavi d’interpretazione del messaggio evangelico è quella che Matteo sintetizza nell’affermazione “in verità vi dico, tutte le volte che avete fatto ciò ad uno dei più piccoli dei miei fratelli l’avete fatto a me”. Cristo non ha detto “è come se l’aveste fatto a me”, ma proprio “l’avete fatto a me”. Infatti se è in me l’essere figlio di Dio, lo è anche negli altri miei simili, e come posso trovare Dio in me così lo trovo in loro.
  È questo, quello che è in me e nel prossimo, il Dio nel quale devo vivere e credere per avere la vita eterna, secondo la promessa: “Chi vive e crede in me non morirà”.
  Ma in conclusione, al di là delle citazioni, alla fine di questo capitolo, centrale per la mia riflessione, perché cerca di rispondere alla domanda di fondo sulla possibilità di una vita oltre il corpo, che dia un senso a questa breve vita con il corpo, posso dire d’avere trovato una risposta?
  Credo di si, penso sia credibile che la coscienza del mio esistere che si è sviluppata attraverso la conoscenza del mio esistere in rapporto con l’Esistenza, possa vivere anche senza il mio corpo, in una dimensione diversa “trasformata” come dice S.Paolo.

Cap. 15.
La società dell'amore.

  Nel capitolo precedente si è accennato al fatto che il rapporto tra i seguaci del Vangelo deve essere un rapporto d’amore, ma è immaginabile una società che viva alla lettera il comandamento dell'amore, che non opponga resistenza al male? Tolstoj, nel saggio che ho ricordato, pensa di sì, deduce i comandamenti secondo i quali dovrebbe vivere questa società, ed interpreta il Vangelo in modo da ricavare questi comandamenti, arrivando a conclusioni rivoluzionarie, destabilizzanti per qualsiasi sistema politico esistente.
  Ritenendo possibile una perfetta società dell’amore, si finisce per sconfinare nell'utopia, ed immaginare soluzioni che, valide dal punto di vista teorico,  non riescono però ad incidere, (perchè troppo radicali), sulla realtà che stiamo vivendo. Non ritenendolo possibile invece, come obietta ancora Tolstoi, corriamo il rischio di mettere da parte il Vangelo per costruirci un cristianesimo a misura delle nostre esigenze personali, e delle esigenze politiche della Chiesa in un determinato momento storico.
  Io credo che la risposta stia ancora nel Vangelo di Giovanni, che ricorda come Cristo, nell'ultima cena, insistentemente abbia pregato il Padre per i discepoli, che avrebbe lasciato soli a continuare a vivere l'esperienza del mondo:
  "Ti prego perché siano una cosa sola, ti prego, di proteggerli dal Maligno, di fare che appartengano a te mediante la verità'".
  Non è un dato di fatto. È un obiettivo così importante, ma allo stesso tempo così difficile e arduo, da dover impegnare l'intervento di Dio. È l'obiettivo finale dell'umanità, sul quale Cristo impegna il Padre, ma la storia che segnerà il cammino verso questo obiettivo, sarà segnata dalla lotta tra il bene e il male.
 È l'obiettivo finale d'ogni uomo, al quale ogni uomo giunge attraverso la lotta che si combatte in lui, tra il Figlio dell'Uomo e il Figlio di Dio. Così,  la storia dell'umanità, come d'ogni uomo, è la storia della tensione verso il bene, verso la luce, in un percorso nel quale spesso sembra riescano a prevalere le tenebre.
  L'importante è, come diceva Voltaire, che facciamo in modo che il nostro, possa essere considerato il migliore dei mondi possibili, che il nostro modo di essere nel mondo, sia il migliore dei modi possibili di vivere l'esperienza umana, in una continua tensione verso una perfezione, che, in quanto tale, può solo restare un ideale, un obiettivo ultimo.
  Ciò che deve trovarci convinti, è la strada dell'amore indicata dal Vangelo: è la strada migliore, è quella che meglio risponde ai nostri interessi di uomini. Deve diventare la strada che ci consente di crescere di sviluppare la nostra sensibilità, in un mondo che sempre più saprà apprezzare ciò che è veramente bello e grande, e nel quale, quindi, si trovano sempre più a loro agio le persone sensibili. La società dell’amore è possibile, se  gli uomini impareranno, come dice Hesse, a mettersi in relazione come anime e non come oggetti.
  Ma  quale, infine, dovrà essere il rapporto del cristiano con la società che lo circonda? Dovrà lasciare ogni cosa per seguire Cristo? Nel Vangelo di Giovanni non troviamo la famosa frase, (che si trova solo in Matteo e Luca) detta da Cristo ad un potenziale discepolo, che chiedeva di poter seppellire il padre, prima di mettersi a seguirlo:
  "Lascia che i morti seppelliscano i morti!"
  Luca aggiunge un'altra frase, data in risposta  alla persona  che invece  chiedeva di poter andare a salutare i parenti prima di mettersi a seguirlo:
  "Chi si mette all'aratro e poi si volta indietro, non è adatto per il regno di Dio"
  A mio avviso è quest'ultima frase che può consentirci di capire il messaggio. Il problema non è se si possa  seppellire il padre o salutare i parenti prima di seguire Cristo, il problema è che si deve fare l'una e l'altra cosa, avendo in testa di servire Cristo, servendo il figlio di Dio in noi.
  Per spiegare il concetto infatti, Cristo aggiunge: «Chi si mette all'aratro e poi si volta indietro è meglio che lasci perdere.» Chi si mette all'aratro, deve avere chiaro l'obiettivo, deve guardare davanti a sè, al solco che deve tracciare.
  Chi si innamora veramente non ha bisogno di chiedere come comportarsi, viene travolto dal sentimento, vive in funzione della persona amata, ed anche facendo le altre cose che deve fare, non perde mai di vista quello che è diventato per lui l'obiettivo principale.
  Ma che cos’è l’amore? Sembra una domanda retorica, tutti diamo per scontato infatti di conoscere il significato del termine. Ma non e’ così! La società cristiana dell’amore è la società nella quale ogni uomo ama Dio, e gli altri uomini. Ma cosa significa veramente amare Dio? Si può usare, per definire il rapporto con Dio, lo stesso termine che si usa per definire il rapporto con gli uomini? Amare una donna e’ già così diverso da amare i genitori, e, amare Dio, cosa vorrà dire veramente?
  Persa l’idea del Dio dell’abside verso il quale riuscivo a sentirmi in qualche modo in un rapporto filiale come  di fronte ad un ritratto mal riuscito di mio padre, che senso ha dire ora che devo amare l’Esistenza? Che rapporto sentimentale posso attivare con il Dio che è l’Infinito?
  Ma la rivelazione, come  si e’ già detto nel capitolo precedente, è che attraverso il mio esistere di figlio dell’Esistenza, io devo pensare all’Esistenza. Devo quindi amare il mio esistere per amare l’Esistenza. E se nei confronti del mio esistere, il rapporto d’amore può svilupparsi nel senso più pieno e pregnante del termine, allo stesso modo può svilupparsi nei confronti dell’Esistenza che ritrovo nel mio esistere.
  L’amore è pieno quando il soggetto riesce a far proprio, a portare dentro di sè l’oggetto amato, realizzando l’unità: sarete due in una carne sola. Allo stesso modo con il Padre:
  «Io vivo unito al padre, e voi siete uniti a me ed io a voi».
  L’esistere è nell’Esistenza, ritrovandomi in un rapporto d’amore con il mio esistere, vivo allo stesso tempo l’amore con l’Esistenza. Sono concetti che sembrano freddi, che non riescono a coinvolgere! Ma è solo perchè le incrostazioni culturali ostacolano la nostra possibilità di viverli.
  Ci sono stati comunicati perchè impariamo a viverli. «Vi ho detto questo, perchè la mia gioia sia anche la vostra, e la vostra gioia sia perfetta».


















Cap. 16.
La libertà.

  Prima di entrare in quello che sarà il tema della seconda parte della riflessione, e cioè su quale possa essere la strada per diventare figli di Dio, e meritare la vita eterna, ritengo indispensabile una premessa sulla libertà data all’uomo di salvarsi, e sull’aiuto che gli viene prestato per raggiungere la salvezza.
  Nell’Eden, si è già visto, decidendo di prendere il frutto dall’albero della conoscenza del bene e del male, Adamo ha deciso di vivere da uomo: libero di fare il male o il bene, libero di scegliere. Libero quindi di salvarsi ma anche di perdersi.
  Come può un Dio buono aver dato la possibilità all’uomo di perdersi? Come è possibile che un Dio buono abbia messo l’uomo sull’orlo del precipizio, pur sapendo che è come un bambino incapace di vedere il precipizio?    
  Ci ritroviamo in un altro mistero, quello della provvidenza di Dio. in relazione con libertà dell’uomo. A questo si collega l’altro della predestinazione per il quale  l’uomo si ritroverebbe nella situazione paradossale di vivere un percorso già segnato, credendosi libero, ma in effetti condizionato dall’esterno, ed a priori, in ogni sua azione.
  Una possibile risposta. può essere trovata riprendendo il concetto che Dio non è esistente, ma è l’Esistenza. Dio è l’Essere, il mondo il divenire.
  Ciò che diviene deve essere libero di divenire, nello spazio (alto o basso) nel tempo (giovane o vecchio) ma anche in rapporto all’Essere (vicino o lontano). L’essere è positivo (buono) ma il divenire può allontanarsi più o meno dall’essere e diventare quindi più o meno buono. La libertà del divenire di allontanarsi non può essere addebitata all’Essere.
  Jonas cercando di spiegarsi come si possa immaginare che esista Dio dopo l’esperienza di Auschwitz, come si possa accettare che nella sua bontà abbia potuto ammettere, senza intervenire, le atrocità cui ha potuto arrivare  l’uomo, propone l’idea di «un Dio che per l’epoca del processo cosmico, ha abdicato ad ogni potere di intervento nel corso fisico del mondo».
  Con la creazione, la Divinità, con un atto di autoalienazione, ha consentito di non essere più assoluta, autolimitandosi a vantaggio di un essere finito, capace di autodeterminare se stesso. È come se il Dio infinito, avesse accettato di ritirarsi per una parte, lasciando posto ad un mondo finito, nel quale non sarebbe più coinvolta la sua onnipotenza.
  La creazione è determinata, ma all’interno della creazione, ad un elemento della stessa, l’uomo, è stata data  la libertà di distinguere tra il bene ed il male, di vivere più o meno lontano da Dio e quindi di autodeterminarsi.
  La libertà e’ ciò che distingue l’uomo dall’animale e lo rende «simile a Dio», figlio di Dio. Ma come dice Cristo è solo la verità che fa l’uomo libero. Chi non sa, non è libero di scegliere! La verità che Cristo è venuto a portare agli uomini, è che la loro esistenza non si conclude, come quella degli animali, con la morte. Gli uomini al contrario,  sono, o possono diventare,  figli di Dio, ed in quanto tali destinati alla vita eterna.
  L’uomo ora sa, ma può continuare a vivere da animale, costringendo anche chi vive da uomo, a vivere in mezzo agli animali, a subire la ferocia delle belve di Auschwitz.
  Ma se un padre costringesse il figlio a non allontanarsi per non correre rischi, non sarebbe un buon padre. Buono è il padre che consente al figlio di vivere la sua libertà, dopo averlo formato a riconoscere la verità.
  E Dio ha mandato all’uomo il figlio per insegnargli a vivere da figlio di Dio, ed ha anche lasciato all’uomo lo Spirito, per ricordargli continuamente quale è il modo più giusto di comportarsi, nel suo interesse, che è quello di essere  uomo, figlio di Dio, e non certo un bipede animale.
  Riprendendo ancora dalla Genesi, si potrebbe notare che nell’Eden c’erano due alberi che l’uomo non avrebbe dovuto toccare: quello della conoscenza del bene e del male e quello della vita eterna.
  Prima di cogliere il frutto di quegli alberi l’uomo era come un animale, libero in quanto dipendente soltanto dal suo istinto individuale, immortale perchè non avendo la coscienza di sè non aveva la coscienza della propria finitezza e quindi della morte. Nell’evoluzione della specie aveva già raggiunto la possibilità di comunicare e così aveva dato un nome a tutti gli elementi del creato. Nel passaggio successivo dell’evoluzione, raggiunge la coscienza di sé e quindi la possibilità di decidere.
L’enfasi che è stata data nell’interpretazione della Bibbia alla conoscenza del bene e del male, ha fatto perdere, a mio avviso, l’idea che la scoperta nascosta nell’allegoria  del frutto proibito, è, prima di tutto, quella della conoscenza, e in particolare della conoscenza di sé. È questa la conoscenza che è impedita all’animale, ed è questa conoscenza che stabilisce la differenza tra l’animale e l’uomo.
  Conoscenza di sé è conoscenza dell’altro da sé e quindi scoperta della diversità (si accorsero di essere nudi e vollero coprirsi), e quindi scoperta della limitatezza delle singole entità. Libertà di muoversi e rapportarsi con queste entità ma nella finitezza dello spazio, nella limitatezza del tempo e quindi scoperta della propria morte. La libertà di conoscere e quindi di sentirsi vivi, diventa la condanna del sapere di dover  morire.
  Con Cristo infine, l’uomo fa un ulteriore passo nella propria evoluzione, scopre la libertà di potersi ricongiungere con l’esistenza nella coscienza di poter superare la propria finitudine in quanto momento dell’esistenza. Il momento dell’esistenza può risolversi nell’Esistenza per vivere nell’eternità.





























Cap. 17.
Lo Spirito Santo.

  Per suggerire all’uomo come fare un uso corretto della libertà, come si è già detto, Dio ha voluto che il Figlio Unigenito diventasse figlio dell’uomo.
C’erano già stati i profeti ad indicare la strada. Ma le parole non erano bastate. Era dovuto intervenire Cristo che alle parole aveva aggiunto l’esempio.
  Ma anche l’esempio di Cristo, collocandosi in un preciso momento storico, poteva essere ricondotto ad un fatto storico, da interpretare, da discutere sotto molteplici aspetti, ma come qualcosa di finito nel tempo, senza la forza di incidere sulla vita e sui comportamenti. L’uomo aveva bisogno di qualcosa che restasse con lui per sempre e per sempre gli ricordasse la sua essenza di figlio di Dio.
  Se Cristo è Dio che si manifesta nella storia, lo Spirito è Dio che resta con l’uomo nel tempo. (Oppure, se Cristo rappresenta la scoperta da parte dell’uomo della realtà di figlio di Dio, in un preciso momento storico, lo Spirito rappresenta la stessa scoperta nella continuità della storia dell’umanità, nella individualità di ogni uomo).
  «Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro difensore che starà sempre con voi, lo spirito della verità».
  «Chi ha sete venga a me e beva ! Come dice la Bibbia da lui sgorgheranno fiumi di acqua viva. Gesù diceva questo pensando allo spirito di Dio che i credenti avrebbero poi ricevuto».
  Alla samaritana Cristo aveva detto di essere la fonte d’acqua viva che avrebbe tolto definitivamente la sete. Qui si riporta la stessa allegoria, ma si precisa poi che deve intendersi riferita allo Spirito.
  Cristo nella storia, lo Spirito nel tempo sono l’acqua data all’uomo per ristorare la sua sete di conoscenza: «lo spirito della verità, che il mondo non vede e non conosce e che quindi non può ricevere, mentre voi lo conoscete perché è con voi e sarà con voi sempre».
  Una parabola credo indiana, racconta di come Dio, dopo aver completato l’opera della creazione,  compiacendosi del risultato, aveva deciso di vivere nel mondo. Si aspettava qualche apprezzamento dal creato, ma fu subito deluso. Imparo’ anche lui che, a lavorare per gli altri, non si guadagna neppure il grazie! Anzi, cominciarono a piovergli critiche da tutte le parti. Ogni giorno. Che dico? Ogni minuto, c’era qualcuno o qualcosa che veniva a lamentarsi, a criticare, a suggerire dei cambiamenti.
  Dio, esasperato, chiamò lo Spirito e gli chiese consiglio su dove nascondersi, per evitare la turba petulante dei saccenti. Pensarono alle montagne più alte, ma poi capirono che l’uomo sarebbe arrivato senz’altro fin lassù, spinto dalla brama di contestare. Pensarono alle profondità dell’oceano, ma l’uomo sarebbe riuscito senz’altro a trovare un mezzo per scendere fin laggiù, con i suoi suggerimenti, non richiesti.
  «Entra con me, all’interno dell’uomo», gli suggerì infine lo Spirito «puoi essere certo che lì dentro non verrà a cercarti». La favola, liberamente riportata, come tutte le favole ha evidentemente una morale, ed è  per questa morale che mi è  rimasta nella memoria.
  La vita eterna non si conquista attraverso un complesso di opere da compiere. Non c’è un elenco di regole da rispettare, una tavola di comandamenti cui doversi adeguare.
«Chi riconosce il figlio di Dio in sè e crede in lui avrà la vita eterna».
«Chi ascolta ciò che gli dice il figlio di Dio che è in lui, e crede nel padre che lo ha mandato, avrà la vita eterna».
  C’è quindi un’unica strada: quella di riconoscere ed ascoltare il figlio di Dio che è in noi, e per facilitarci la relazione, sempre in noi, c’è un mediatore: lo Spirito.
  Siamo stati talmente abituati ad esternalizzare questi concetti, ed a personificarli, che il riferimento allo Spirito, ci porta subito alla colomba che il Battista ha visto sopra il Cristo, a indicare che era lui il Messia.
  Quando diciamo quindi che lo spirito è l’aiuto che ci è stato dato per riconoscere più facilmente il figlio di Dio, ci mettiamo in attesa per vedere dove la colomba si posi per il riconoscimento.
  Non ci sono colombe! C’è invece un passaggio logico molto semplice. In me c’è una componente che sento diversa dal corpo, che è la coscienza del mio esistere e che chiamo Spirito. Portando il mio pensiero sul mio spirito, mi apro all’idea che questo spirito sia partecipe (figlio) dell’Esistenza, nella quale io stesso sarò assorbito, se imparerò a vivere ascoltando l’Esistenza, che mi parla attraverso il Figlio, che è vissuto da uomo nella storia e che vive in me come Spirito.
  Lo  Spirito ci aiuta a comprendere e vivere la nostra realtà di figli di Dio, a entrare nel nostro esistere, per riconoscere l’Esistenza.










Cap. 18.
Chi ama la sua vita la perde.

   Dopo aver cercato di convincermi, nella prima parte, che l’uomo può in effetti diventare figlio di Dio e ottenere la vita eterna, in questa seconda parte mi pongo il problema di cercare  di capire  che cosa si può e deve fare, sempre secondo il Vangelo di Giovanni, per diventare figli di Dio, ed ottenere la vita eterna.
  La prima parte della riflessione si è chiusa con un appunto  sulla società predicata dal Vangelo, come società dell’amore. Il problema è ora capire, in questa seconda parte, come si può realizzare questa società, nella quale dovrebbe dominare l’amore.
  Ma la ricerca nel Vangelo di Giovanni di suggerimenti su come comportarci, su che cosa fare, su quali comandamenti seguire, resta senza risultati.
  C’è un solo comandamento, una sola regola! «Che vi amiate gli uni e gli altri come io vi ho amato», e un invito pressante, ripetuto con insistenza, perché ci sforziamo di conformare la nostra vita a questo comandamento.
  Poi ad un tratto, continuando la ricerca, non prevista e non prevedibile, quando credi di essere già arrivato a delle conclusioni,  ti si para davanti una frase sconvolgente:
«Chi ama la sua vita la perde.
«Chi odia invece la sua vita in questo mondo, «la conserva per la vita eterna.»
  Mentre pensavo di aver scoperto  che il Vangelo predica una vita da vivere in positivo, la vita che un Dio buono, un Dio-Padre ha voluto per i suoi figli, questa affermazione di Cristo, mi si mette contro  come un macigno che ti cade sulla  strada per obbligarti a tornare indietro, a rivedere tutte le conclusioni a cui credevi di essere arrivato.
  Per cercare di capire il senso di una frase, così perentoria ed assurda allo stesso tempo, mi rivolgo alla versione latina, per vedere se l’interpretazione dei traduttori ha stravolto il senso originario dell’affermazione. In effetti il testo latino parla di «anima» e non di «vita», ma la diversità dei termini in un certo senso aggrava l’assurdità del concetto: non solo devo odiare la «vita» devo odiare addirittura «l’anima», l’essenza stessa della vita..
  Con l’una o con l’altra versione il senso sembra inequivocabile: per seguire Cristo bisogna odiare la propria vita e quindi evitare tutto quello che dà piacere, per seguire la strada del sacrificio, della penitenza e del cilicio! Non basta più soltanto abbandonare ogni cosa, è necessario anche vivere la propria esperienza umana in termini di sofferenza!
  Anche qui credo, probabilmente, il problema è quello di trovare la chiave di interpretazione. A mio avviso, per comprendere nell'esatto significato la frase è necessario tornare alla chiave di interpretazione del Vangelo, per quanto riguarda il rapporto uomo-Dio. Ci si deve richiamare  alla distinzione che si è introdotta, sul fatto che Dio non può diventare sapere, ma deve restare conoscenza.
  Come Dio non è ciò che so, ma ciò che cerco di conoscere sull’Infinito, così l’io non deve essere ciò che sono ed ho, ma ciò che voglio avere e diventare. Con lo stesso schema logico io devo quindi evitare di amare quello che ho e quello che sono, per amare invece, quello che posso avere o posso diventare.
  Il concetto viene rafforzato con l’invito a disprezzare ciò che sono, per riconoscermi e proiettarmi esclusivamente in ciò che vorrei essere. Alla fine della mia giornata io guardo con distacco ai risultati che ho conseguiti, guardo invece con amore agli obiettivi che mi pongo per il giorno dopo.   Obiettivi che riguardano non le cose, ma il rapporto con le cose, obiettivi quindi non del mio corpo, ma del mio spirito.
  E’ vero che il quanto ho, non è ininfluente su come guardo a quello che ho. Per cui per non correre il rischio di condizionamenti, S. Francesco ha abbandonato ogni cosa, o, come ricorda Cristo, entra  più facilmente un cammello per la cruna d’un ago, che non un ricco nel regno dei cieli. Ma è anche altrettanto vero, e per certi versi emblematico, che Seneca, l’uomo più ricco dell’impero romano  ai tempi di Cristo, abbia saputo sviluppare una filosofia che per molti tratti richiama il Vangelo, ed un profondo sentimento di superiorità sulle cose, che gli ha consentito, condannato a morte da Nerone, di distaccarsi dal mondo serenamente e consapevolmente bevendo, come Socrate, la cicuta..
  Indipendentemente da quello che ho e sono, è importante il come, in quali  termini definisco il rapporto con quello ho e sono.
  Come giustamente dice Cristo, solo chi disprezza la sua vita la conserva per l’eternità. Infatti se vivo, di giorno in giorno, proiettato nel domani, nel divenire e non nell’essere, è normale che un giorno mi ritrovi a pensare e vivere un domani nel quale il divenire del mio spirito, del mio esistere, si ritrova finalmente libero dai condizionamenti del mio essere.
  Ma fino a quel momento, perché la vita dell’uomo sia la felicità, che anticipa la felicità eterna, è necessario che l’uomo impari a vivere  con gioia il rapporto verso Dio, in termini di conoscenza progressiva, verso il prossimo, in termini di disponibilità alla conoscenza, verso la proiezione di sè nel domani, senza sentirsi appagato e quindi condizionato da ciò che ha già raggiunto ed è già diventato.
  In questo modo, la vita sarà ricerca continua del nuovo, e del meglio. Nuovo e meglio evidentemente in termini di essere e non di avere, senza che l’essere debba implicare comunque  la rinuncia  all’avere .
  A fronte dei vantaggi che potrebbero risultare dal  vivere il divenire, invece che il presente, si potrebbe obiettare che il vivere continuamente proiettati sugli obiettivi futuri, comporta uno stato di  continua tensione e di ansia, e quindi una stato di perenne angoscia ed infelicità.
  Potrebbe sembrare!… Ma non è così!
C’è chi, vedendo la bottiglia riempita a metà, la vede come mezza vuota, e chi invece la vede come mezza piena. Chi la vede mezza piena viene preso da quello che ha, viene travolto dalla necessità di gestire quello che già possiede. Chi la vede mezza vuota, si darà invece da fare per trovare idee che gli consentano di riempirla. L’uno vive la vita in modo conservativo, l’altro in modo innovativo e creativo.
  E’ vero che il secondo può essere preso dall’insoddisfazione perché comunque la bottiglia non si riempie, e nell’agitazione e nel rammarico, può perdere la bellezza della tensione a innovare e a rinnovarsi ogni giorno.
  Ma il suggerimento di Cristo è: «Non pensare alla bottiglia!  Dimenticala! Odiala, appunto!».
  È evidente che non è piena. Se infatti lo fosse, sarebbe perfetta, e la perfezione non è per gli uomini. Di quanto sia piena è irrilevante, se sia più o meno piena di quella degli altri, e’ ininfluente.
  Indipendentemente da come sia, in qualsiasi momento, il tuo compito, per il momento successivo, è quello di scoprire la gioia nel  far in modo che sia ancora più piena.
  Gioire, divertirti, e non angosciarti!           
Perché comunque la bottiglia non e’ tua, e il divertimento sta nel riempirla, non nell’averla riempita.
Tutto sembra così logico ed evidente. Eppure è così difficile da mettere in pratica!
La difficoltà deriva dal fatto che si siamo innamorati della bottiglia, pur essendo evidente che non ci appartiene  Quando ci sarà tolta, di noi resterà soltanto quello che abbiamo imparato mentre la si riempiva.
L’assurdo dell’uomo costretto a riempire una bottiglia che non si riempie mai e che comunque gli sarà tolta, si risolve soltanto pensando che gli è stata data questa incombenza, perchè sviluppi un’abilità nel riempirla.
L’abilità acquisita, diventerà un suo modo di essere, anche quando avrà perso la bottiglia!.    

























Cap. 19.
Vivere il divenire.

  Secondo l’interpretazione data nel capitolo precedente, la proposta di vita del Vangelo di Giovanni potrebbe venire sintetizzata nel precetto di «vivere il divenire».
  A Roma quasi in contemporanea a Cristo, la filosofia stoica trova la sua massima espressione poetica nel «carpe diem» di Orazio. Il concetto di fondo è che l’unica cosa che ci appartiene, e sulla quale dobbiamo concentrarci è il presente. Vivendo di ricordi, e quindi nel passato, perdiamo un attimo del nostro presente. Sprechiamo così  un momento della nostra vita. Allo stesso modo, sprechiamo il presente, immaginandoci di vivere nel futuro.
  L’idea che si potrebbe  ricavare dal Vangelo di Giovanni, a mio avviso, è radicalmente diversa. Non è vero che il presente ci appartiene. Il presente nel momento che è, si è già realizzato, non ha più bisogno di noi. È invece l’attimo dopo, l’attimo che deve ancora venire, che ci appartiene, perché è su questo che, assieme ad altri fattori esterni, possiamo influire anche noi.
  È questo quindi  l’attimo nostro, quello in cui possiamo realizzarci, perché noi siamo quello che possiamo divenire e quello che possiamo realizzare. Quello che siamo, non ci appartiene. Nel momento nel quale  viviamo l’attimo fuggente, questi è già fuggito. È solo il prossimo attimo che dipende da noi, perché dipende da quello che facciamo nell’attimo che stiamo vivendo.
Ma in questo modo, si obietterà nuovamente, l’uomo vive in uno stato di continua tensione nel futuro e quindi di sofferenza, e si nega la possibilità di godere, per quello che ha realizzato. Come ho già detto, penso che possa essere vero  il contrario!
  Il pittore, di fronte al quadro finito, può pensare a cosa ha fatto, può sentirsi appagato per quel che ha fatto, o può già pensare al nuovo quadro che farà. In quest’ultimo caso non rinuncia a sentire il piacere per quello che ha fatto, anzi, il piacere per l’opera completata, si fonde all’idea dell’opera da compiere e si realizza come piacere dinamico e non statico. I quadri restano solo episodi del suo divenire di artista.
  Per la teoria del «carpe diem», l’attimo fuggente va vissuto con una intensità assoluta come se fosse l’ultimo. Vivere il divenire significa invece andare oltre il momento  dell’essere, non per perderlo, ma per viverlo nella pienezza del suo completamento nel divenire.
  Sul treno della vita, Orazio mi dice, devo godere momento per momento della bellezza del paesaggio che mi scorre davanti, perché ogni momento sarà unico ed irripetibile, quello di dopo sarà diverso, e non sarà possibile avere il replay di quello che ho perso. In questo modo la vita viene vissuta come una successione di immagini statiche, una rappresentazione attraverso diapositive. La vita del divenire, è invece come un film, nel quale le immagini servono solo a rappresentare il movimento, il divenire dell’azione.
  Seguendo un paesaggio nel suo divenire, non ci si ferma a quello che si vede, a quello che riuscirebbe a cogliere l’obiettivo della macchina fotografica, si va oltre, e si vede l’immagine evolversi e divenire, perché si vede quel che c’è dietro all’immagine, dietro alle cose. Il bosco non è più soltanto un bosco, ma è la magia d’un atmosfera, lo stormire delle fronde è il respiro della natura che vive e  diviene, è il fremito che trasforma ogni cosa che esiste.
  All’uomo che percorre la cresta della montagna, verso il precipizio, Orazio consiglia di soffermarsi ad ammirare ed a godere d’ogni fiore che si incontra sul prato, perchè, presi dalla bellezza del fiore, si dovrebbe riuscire anche a dimenticare l’angoscia per il precipizio verso il quale si è incamminati.         Per Cristo invece, a mio parere, l’uomo sulla  cresta deve muoversi senza la paura del precipizio. Avanzando,  deve guardare non a dove ha messo il piede, ma a dove lo metterà nel passo successivo. Anch’egli vedrà i fiori rincorrersi e sovrapporsi, e l’erba muoversi nel respiro della terra, fino a che il vento riempirà la vela del suo aquilone e potrà dolcemente  staccarsi da terra, per librarsi nell’immensità del cielo.
      “Pensando al futuro si perde il presente” ripete Orazio, ma forse ha torto. Se mentre costruisco la casa ho in testa l’immagine di come sarà, non solo non perdo la soddisfazione per ogni pietra aggiunta, per ogni muro realizzato, per l’avanzamento continuo dell’opera, ma al contrario ogni azione, ogni gesto assume un significato più vero  e profondo.
  L’errore sta nel considerare il muro come qualcosa di definitivo, e non invece  un semplice  elemento della casa. 
  Ma se poi non si dovesse avere la fortuna di vedere la casa completata? Più che un rischio è quasi la norma:  quelli che hanno seminato, di solito non riescono a raccogliere. Ma come potrebbero seminare se non pensando al raccolto? Come potrebbero seminare se pensassero che sta per arrivare il freddo dell’inverno e gelerà la terra nella quale hanno gettato il seme?
  Ma ci sarà un anno nuovo, una nuova primavera! A questo deve pensare chi semina. Non per perdere, ma per provare intensamente  la gioia della seminagione.



Cap. 20
La felicità.

  Cristo  avrebbe detto che la felicità non e' di questo mondo. Avrebbe anche aggiunto  che solo attraverso le rinunce, i sacrifici e la penitenza ci si procura la possibilità di ottenere la vita eterna. Questo avrebbe detto secondo la formazione catechistica della mia infanzia.
  Ma dove l'avrebbe detto se il suo  insegnamento e': "Vivete da fratelli e sarete felici. Amatevi gli uni e gli altri e sarete felici!"   
  Felici qui sulla terra, nella vita di ogni giorno!
 E vivendo la felicità della terra, conquisterete, giorno per giorno, la felicità della vita eterna.
  Il cristianesimo e' stavo vissuto come negazione del mondo. Come si sia potuta sviluppare questa idea, non so. Certamente non la ritrovo nel Vangelo di Giovanni. Qui io trovo soltanto il concetto  che la vita va vissuta con l'entusiasmo di chi scopre di essere figlio di Dio, destinato all'immortalità. Ed anche il rapporto con i beni materiali della terra, e' un rapporto in positivo.
  Dei tanti miracoli che Cristo avrebbe fatto, secondo gli altri evangelisti, Giovanni ne riporta solo sette. Di questi,  due li ritroviamo anche negli altri Vangeli. Cinque li riporta soltanto Giovanni. Fra questi c’è anche il miracolo delle nozze di Cana.
  L’evangelista che ha trascurato di raccontare tante guarigioni ben più importanti si sofferma a raccontarci la “banalità” di  Cristo che trasforma  l'acqua in vino, per evitare al padrone di casa la brutta figura di non aver procurato vino a sufficienza. E il racconto, per giunta, ci viene presentato con una dovizia di particolari, che si giustifica solo per sottolineare l’importanza del fatto.
  C'erano lì sei recipienti di pietra di circa cento litri ciascuno. Servivano per i riti di purificazione degli Ebrei. Gesù disse ai servi:
"Riempiteli d'acqua!"
Essi li riempirono fino all'orlo. Poi Gesù disse loro:
"Adesso prendetene un po' e portatelo ad assaggiare al capotavola."
Glielo portarono.
Il capotavola assaggiò l'acqua che era diventata vino. Ma egli non sapeva da dove veniva quel vino. Lo sapevano solo i servi che avevano portato l'acqua. Quando lo ebbe assaggiato il capotavola chiamò lo sposo e gli disse:
"Tutti servono prima il vino buono, e poi quando si è già bevuto molto, servono il vino più scadente. Tu invece hai conservato il vino buono fino a questo momento".
  Giovanni trascura anche di riportare  le tante parabole che Cristo ha raccontato.
 Io credo che questa di Cana, sia al tempo stesso una parabola ed un miracolo. Mi piace interpretarla come la parabola della vita dell'uomo, che deve essere vissuta come una festa. Non deve mancare nulla di quello che può servire a fare festa!
  Anche la moltiplicazione dei pani e dei pesci, l'unico miracolo che Giovanni riporta assieme a tutti gli altri tre evangelisti, può essere vista come una parabola con lo stesso significato. Circa cinquemila persone, sulla montagna, sedute, e il terreno era erboso, e raccolsero e riempirono dodici cesti con gli avanzi delle cinque pagnotte...
Un altro fatto-parabola, riportato solo da Giovanni infine mi pare sottolinei molto bene l'atmosfera che deve caratterizzare la vita degli uomini. È la scena d’una scampagnata sulla spiaggia, con l'immancabile grigliata, che ci fa vedere un immagine di Cristo inusitata rispetto a quella che mi torna in mente dal catechismo, del figlio di Dio che, s’è scomodato a farsi uomo, solo per tormentarmi con obblighi, divieti e penitenze.
Resuscitato, Cristo  si era già fatto vedere nel cenacolo, convincendo anche lo scettico di Tommaso che era resuscitato sul serio. Ma qualche giorno dopo, alcuni discepoli si trovavano a pescare sul lago di Tiberiade.
C'era anche Pietro  che disse:
"Io vado a pescare".
Gli altri risposero:
"Veniamo anche noi.
Uscirono e salirono sulla barca. Ma quella notte non pescarono nulla.
Era già mattina quando Gesù si presentò sulla spiaggia, ma i discepoli non sapevano che era lui. Allora Gesù disse:
"Ragazzi, avete qualcosa da mangiare?"
Gli risposero di no. Allora Gesù disse:
"Gettate la rete dal lato destro della barca e troverete pesce".
I discepoli calarono la rete. Quando cercarono di tirarla su, non riuscivano per la gran quantità di pesci che conteneva. Allora il discepolo prediletto di Gesù disse a Pietro:
"E' il Signore!"
Simon Pietro udì che era il Signore. Allora si legò la tunica intorno ai fianchi (perché non aveva altro addosso) e si gettò in acqua. Gli altri discepoli invece accostarono a riva con la barca, trascinando la rete con i pesci, perché erano lontani da terra un centinaio di metri. Quando scesero dalla barca videro un focherello di carboni con sopra alcuni pesci. C'era anche pane.
"Gesù disse loro: "Portate qui un po' di quel pesce che avete preso ora".
Simon Pietro salì sulla barca e trascinò a terra la rete piena di centocinquantatrè (!) grossi pesci. Erano molto grossi, ma la rete non si era strappata.
Gesù disse loro: "Venite a far colazione".
Se Giovanni ha voluto dare rilievo a questi fatti apparentemente marginali, non credo ci possa essere altro motivo se non quello d’aver voluto in qualche modo ricostruire  l’atmosfera che deve caratterizzare la vita dei cristiani assieme a Cristo.
D’altra parte, se l’unico comandamento che ci è stato dato è quello dell’amore, è evidente che quelli che vivono nell’amore vivono in positivo, con entusiasmo e con gioia.
Ogni uomo ricorda i momenti dell’innamoramento come i momenti più felici della propria vita. Se questa condizione di innamoramento si potesse vivere, come vorrebbe il Vangelo, non solo nei confronti della persona che abbiamo scelto, ma di tutte le persone che ci circondano e della natura, e se questo innamoramento fosse sorretto da una condizione continua di innamoramento nei confronti di noi stessi figli di Dio, è evidente che ne uscirebbe una modalità di vita per la massima felicità.
Appunto come conferma Cristo nell’ultima cena: «Quando metterete in pratica queste cose, sarete felici.













Cap. 21
Il Buon samaritano.

  Dei tanti racconti, delle tante parabole, che Giovanni trascura di riportare nel suo Vangelo, mi dispiace soprattutto abbia dimenticato anche quella del buon samaritano. Una parabola che bene mette a fuoco quello che dovrebbe diventare l’ideale di vita del cristiano.
  Tra l’idea d’un Cristo che a Cana insegna a non disprezzare neppure i piaceri della tavola, e l’idea del Cristo che sale il Calvario per insegnarci a soffrire, c’è una contraddizione, per superare la quale, si è cercato di far prevalere l’idea del Cristo della sofferenza, e quindi del cristianesimo della rinuncia e della penitenza.
  A mio avviso non c’è invece contraddizione alcuna, se pensiamo che il messaggio evangelico sia per una vita, autenticamente e sinceramente vissuta, in un rapporto d’amore con i fratelli, sia nei momenti della gioia che in quelli del dolore, senza concessioni al fariseismo ed alle apparenze.
  Il concetto mi pare molto bene riassunto nella parabola del buon samaritano, che riporto da Luca, l’unico che ci lascia il racconto dell’uomo che scendeva da Gerusalemme a Gerico.
  S’era alzato un dottore della legge e, per cercare di metterlo in difficoltà, aveva fatto a Cristo  la domanda «da un milione di dollari»:
«Maestro che cosa devo fare per ottenere la vita eterna?”
  Cristo risponde ponendo a suo volta  una domanda:
«Che cosa c’è scritto nella Legge?»
Il dottore rispose prontamente:
«Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il prossimo tuo come te stesso»
«Ecco! Fai così e vivrai?»
Ma l’altro che voleva «prenderlo in castagna» continuò: «E chi è il mio prossimo».
  Allora Cristo prese a raccontare che una volta un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico. Incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e lo lasciarono sul ciglio della strada, mezzo morto.
  Passò di lì un sacerdote e lo schivò transitando dall’altra parte della strada. Altrettanto fece un levita. Un samaritano invece, che era in viaggio per affari, lo vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, lo caricò sopra il suo giumento e lo portò ad una locanda. Il giorno dopo, non volendo rinunciare ai suoi impegni, estrasse due monete e le diede all’albergatore chiedendo che avesse cura di lui. Si impegnò infine a ripassare per vedere come stava, se aveva ancora bisogno di lui, ed a pagare ancora se ce ne fosse stato bisogno.
  «Va», disse Cristo al dottore, concludendo il racconto, « e fa anche tu lo stesso».
  Non è certo un caso, che nel suo racconto, Cristo abbia voluto immaginare, che proprio un sacerdote, fosse il primo a far finta di niente.               Chissà quali problemi teologici aveva in mente! Non   poteva certo distogliersi dalle sue riflessioni, per interessarsi d’un disgraziato! Il samaritano era invece  uno di noi, preso dai mille impegni del quotidiano, degli affari, del lavoro. Trovò tuttavia anche il tempo per prendersi cura d’un estraneo che aveva bisogno di lui!   In questo mi pare ci sia la chiave del messaggio evangelico!
  E’ giusto continuare ad impegnarsi nei problemi del mondo, ma lo si deve fare con un atteggiamento diverso, in un rapporto d’amore con gli altri e con le cose. Allora si troverà anche il tempo per dedicarsi agli altri ed alle cose, in modo che questo dedicarsi, ritorni a vantaggio di chi lo fa. Il riferimento al quale ci si deve ispirare è quello  di un uomo, non succube del mondo, ma, al contrario, capace di utilizzare il mondo per migliorare e raffinare la propria  sensibilità, nella prospettiva dell’eternità.
  Ma il mondo, si può obiettare, non è certo pieno di buoni samaritani. Devi combattere, vincere la concorrenza, devi farti avanti a gomitate, se vuoi emergere o semplicemente se non vuoi lasciarti calpestare.
  Certo! Forse anche il samaritano, rientrando, ha trovato persino che l’albergatore  gli ha fatto la cresta sui conti per l’assistenza, oppure non ha trovato più l’uomo che aveva assistito, che  se n’era già andato, senza neppure una parola di ringraziamento. Ma alla fine della giornata il samaritano è comunque felice, l’albergatore invece, avrà migliorato le entrate, ma, nella sua grettezza, è diventato incapace di vivere la felicità’ per i risultati ottenuti. Il disgraziato infine nell’incapacità di provare gratitudine avrà perso ogni possibilità di sentire la gioia dei  sentimenti.
  Tuttavia anche  il samaritano di fronte a tanta ingratitudine e vigliaccheria, ripensando ai suoi comportamenti ed a come era stato ripagato, forse  si sarà ripromesso di non farlo più... Al contrario, il samaritano del messaggio evangelico, non pensa già più a quello che ha fatto, ma è con la mente altrove a ricercare come poter rivivere ancora la felicità provata nel gesto gratuito di generosità! La gratificazione, il cristiano la cerca in se stesso, non dagli altri. Perchè l’atto del dare e del darsi, non fa perdere qualcosa a chi dà, ma come già diceva Seneca, torna a vantaggio e beneficio del donatore.
  Quando dai qualcosa di te, sei come il seminatore che sparge la semente del grano. Chi più semina, più raccoglie. Per ogni grano dato al terreno, in te spunterà  una spiga, e non attenderti che il terreno ti sia grato dei semi che gli hai dato!
  Come si è già visto, la vita va vissuta in divenire. Quel che hai già fatto, non ti appartiene più, fa parte del passato, è in quello che puoi ancora fare che si può realizzare la tua felicità.

Cap. 22
La preghiera.

  Dalle mie reminiscenze del catechismo emerge un Dio che sembra quasi abbia bisogno della preghiera dell'uomo. L’uomo invece, portando a Dio preghiere, sembra possa ottenere  in cambio dei buoni punto per una raccolta che, se completata, darà diritto al Paradiso.
  E' evidente che, qualsiasi sia l'idea che ce ne possiamo fare, Dio non può aver bisogno delle nostre orazioni. La preghiera e' per l'uomo, serve all'uomo,  per migliorare il proprio rapporto con Dio.
   Ma  cosa significa veramente pregare?
  Se l'obiettivo della preghiera è migliorare il rapporto con la divinità, pregare è, evidentemente, l'atto con il quale l'uomo abbandonando i pensieri legati al quotidiano, si ritrova a pensare a Dio.
  Pregare è pensare a Dio per riuscire a sentirlo sempre di più, per riuscire a sentirsi sempre più figli di Dio. Pregare è un atto d'amore. D'un amore, come direbbe Hesse, senza desiderio, che costituisce la condizione più elevata e desiderabile della nostra anima, la strada per la beatitudine.
  Questo può essere fatto assieme o da soli, recitando il breviario o partecipando alla Messa, nell’intensità della meditazione e della concentrazione sul pensiero di Dio o attraverso riti   che ci portino a pensare a Dio.
  La Chiesa privilegia, come preghiera, degli atti che realizzano un’atmosfera nella quale è più facile  pensare a Dio, ma non è meno preghiera quella fatta cercando di pensare direttamente a Dio, come hanno insegnato i mistici e come insegnano, in particolare, le religioni orientali.
  L'uomo occidentale, con l’eccezione dei mistici, ha avuto bisogno per duemila anni di atti esteriori e formulari  che lo coinvolgessero nel pensiero di Dio. Nella sua evoluzione ha raggiunto una capacità di astrazione e di meditazione pari a quella degli orientali, per cui sente oggi più vicino al suo modo di pensare, il modo di pregare degli orientali.
  Ripetere cinquanta «Ave Maria» ha un senso solo se attraverso quella recita, e solo in quel modo, io riesco a pensare alla divinità. Se sono capace di una via più diretta ed immediata, posso, anzi devo,  privilegiare  quella via.
  Se fisso un punto nell'infinito e riesco a pensare a Dio e immagino di penetrare all'infinito in quel punto come in un vortice che non ha fine,  se riesco a pensare che più penetro e più mi avvicino a Dio, io prego. E se trattenendo il  respiro riesco ad immergermi nel vortice del pensiero di Dio, fino a che il mio corpo lieviti come insegnano le teorie yoga, il mio pregare non è in contrasto con il Vangelo ma al contrario è realizzazione di quanto Cristo chiedeva al Padre per i suoi discepoli: Fa che siano tutti una sola cosa: come Padre tu sei in me ed io sono in te, anch'essi siano in noi".
  Se concentrandomi su di me, io riesco ad entrare nel profondo del mio io, per ritrovare il senso del mio essere figlio di Dio. E se io ripeto questa entrata più e più volte, a migliorare continuamente la mia capacità di immedesimarmi  in Dio che è in me. Questo è pregare!
  Preghiera quindi come momento di identificazione di se stessi con la divinità, di riconoscimento della propria essenza di figli di Dio, per ritrovare, attraverso l'unità con il Padre, l'unità con i fratelli.
   Nel Vangelo è molto  chiaro il concetto che non ha senso pregare per chiedere «perché Dio padre sa già di che cosa abbiamo bisogno, prima ancora che lo chiediamo».
Altrettanto chiaro è il concetto che la preghiera non ha bisogno del luogo di culto o di un cerimoniale:
“Tu quando preghi entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto”.
Come si è già detto,  pregare significa cercare di mettere in relazione il proprio spirito con lo Spirito di Dio. La ricompensa della preghiera è proprio la relazione di risposta di Dio, alla richiesta di relazione dell’uomo.
  Raggiungere questa relazione biunivoca, non è facile, presuppone un insistenza da parte dell’uomo. Ma se anche uno che non è ben disposto nei tuoi confronti, se tu insisti a bussare, alla fine ti apre la porta «a maggior ragione il Padre che è in cielo, darà lo Spirito santo a quelli che glielo chiedono». La risposta di Dio alla preghiera dell’Uomo è quindi la concessione dello Spirito santo, cioè della capacità della relazione con Dio.
  Ma come si riesce a realizzare questa relazione?
Non c’è evidentemente una modalità particolare, un giorno prestabilito, un cerimoniale codificato. Non c’è neppure  una formula speciale. Se ci fosse, se Cristo l’avesse insegnata, sarebbe evidentemente di tale importanza, che nessuno dei quattro evangelisti avrebbe potuto non riportarla. Ma non c’è una formula! Matteo e Luca ci riportano comunque un suggerimento di Cristo che in quanto tale ci può aiutare a capire come metterci in relazione con Dio.
  Riporta Matteo, e gli fa eco pur con qualche variante significativa Luca: «Pregate così: Padre nostro che sei nei cieli...»

  Padre io vorrei riuscire a sentirti ad un tempo come Esistenza  e come Padre, assieme ai miei simili, perché  su questa relazione degli uomini con te, si realizzi la relazione tua con gli uomini sulla terra.
  Padre, vorrei riuscire a sentirti ogni giorno come ciò che alimenta e dà un senso alla mia esistenza.
  Per vivere la felicità nel respiro dell’amore verso te ed i fratelli, vorrei che nessuno si sentisse in colpa  nei miei confronti, per non vivere sensi di colpa nei confronti di altri.
  Vorrei poter vivere in un rapporto sempre più intenso con te, per poter superare la tentazione di farmi condizionare da ciò che mi circonda.

     La mia traduzione può sembrare troppo libera, una parafrasi, più che una versione. Ma in questa libertà penso d’essere riuscito a rispettare, almeno così credo,  il senso vero del messaggio sul modo con cui dobbiamo pregare.























Cap. 23.
Le virtù cristiane.

  Quali sono i comportamenti da cui si riconosce il seguace del Vangelo? Soltanto da un fatto. «Se vi amerete come fratelli, da questo riconosceranno che siete miei discepoli». Tutto qui!
  Ma quali possono essere considerati i comportamenti attraverso i quali si realizza l’amore per i fratelli? Quali sono quindi le «virtù» che dovrebbe praticare il cristiano per poter essere considerato tale?

La compassione.

  Nietzsche ricorda con disprezzo che "il cristianesimo è detto religione della compassione. La compassione si contrappone agli effetti tonici, quelli che accrescono l'energia del sentimento vitale: essa ha un effetto deprimente. Quando si compatisce si perde forza".
Non è vero che quando si compatisce si perde forza. Anche   Seneca, come ho già ricordato, ai tempi di Cristo,  aveva giustamente intuito che l'atto del dare non porta ad una diminuzione in chi dà, ma ad un accrescimento. Paolo negli Atti degli Apostoli. ricorda che Cristo ha detto  che "c'è più gioia nel dare che nel ricevere".
     Il messaggio evangelico rovesciando l'interpretazione negativa di Nietzsche, può  essere proprio visto come il messaggio degli "effetti tonici, quelli che accrescono l'energia del sentimento vitale". E' infatti l'idea di entrare in rapporto con Dio, per realizzarsi compiutamente nel mondo, ed attraverso questa realizzazione, conquistare una realizzazione più piena ed assoluta oltre la morte. Il mondo non viene negato, ma valorizzato, come palestra nella quale l'uomo si esercita, per vivere al meglio l'esperienza della vita eterna.
  La compassione è quella del samaritano che nell’inginocchiarsi di fronte al ferito, diventa più grande del sacerdote che gli passa accanto senza guardare.

L’umiltà.
 
  Come la compassione, anche l’umiltà è stata vista come l’indicazione data al cristiano, di essere sempre remissivo e perdente. Da qui l’idea del  cristianesimo come religione dei vinti e dei perdenti.
  L’umiltà è invece la virtù di chi non cerca il riconoscimento degli altri, ma cerca la gratificazione in se stesso. Con una parabola, anche questa non riportata da Giovanni, Cristo dice che quando ci si deve accomodare a tavola, è meglio scegliere gli ultimi posti, con la possibilità quindi che il padrone di casa ti renda onore, facendoti venire più avanti. Ma la motivazione che dà l’evangelista sull’opportunità di scegliere gli ultimi posti, va riportata alla sua mentalità, piuttosto che all’insegnamento di Cristo.
  Scegliere gli ultimi posti, è la scelta che deriva dalla propria convinzione che non ha nessun rilievo essere davanti o dietro, ciò che conta è come ci si sente dentro. E infatti in Giovanni l’insegnamento viene rappresentato nella scena della lavanda dei piedi nell’ultima cena: se con umiltà il maestro ha deciso di lavare i piedi ai discepoli, l’atto dell’inginocchiarsi davanti a loro, non lo rimpicciolisce, ma, al contrario, lo rende grande.
  La scena interpreta alla lettera la frase riportata da Luca: «Chi tra voi è il più importante, diventi come il più piccolo, chi comanda diventi come quello che serve».
  Chi «diventa» piccolo, in realtà sviluppa ancora di più la sua grandezza, chi si umilia, in verità si esalta, dimostra la propria superiorità di spirito.

Il perdono.
  È la più grande delle virtù cristiane perchè diretta conseguenza del primo e unico comandamento, quello dell’amore. Se l’impegno assoluto è quello di amare, anche i nemici, è logico che altrettanto assoluto deve essere l’impegno a perdonare.
  Ma anche a questo proposito il racconto di Giovanni ci stupisce perché non riporta neppure il perdono accordato da Cristo ai suoi crocifissori. Giovanni che pure era presente ai piedi della croce, non riporta la frase:
«Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno».
  Giovanni introduce il concetto del perdono con la scena della donna portata a lui dai farisei perché sorpresa in adulterio.
  «Mosè ci ha ordinato di uccidere queste persone infedeli a colpi di pietra, e tu cosa ne dici?»
  Ma Gesù guardava in terra e scriveva col dito nella polvere. Quelli però insistevano con le domande. Allora Gesù alzò la testa e disse:
«Chi tra di voi è senza peccati, scagli per primo una pietra contro di lei». Poi si curvò di nuovo a scrivere in terra.
  Io immagino che in qualche modo stesse scrivendo che il perdono per il cristiano non è un atto di generosità ma di verità. Ogni individuo è un mondo a sé, in rapporto diretto, originale ed esclusivo, con l’Esistenza. Ogni uomo ha comportamenti che derivano e si giustificano nel suo esistere individuale. La società può difendersi dai comportamenti dell’individuo, l’individuo può difendersi dai comportamenti anomali di un altro individuo, ma né la società né l’individuo possono intervenire per punire il comportamento  in sé. Ogni individuo nella sua originalità ha infatti dei comportamenti che possono essere considerati anomali e quindi puniti da un altro individuo. Pensare di punirli significherebbe immaginare una società dove tutto può essere punito.
  La società del Vangelo è invece la società che riconosce la libertà assoluta dell’individuo, fino a che non si scontra con la libertà di un altro individuo o con le regole che la società si e’ data per garantire la libertà della maggioranza degli individui.
  Ma anche in questo caso l’intervento non può essere punitivo, ma difensivo, e quindi limitato ad evitare che l’intervento anomalo possa ripetersi: deve essere l’intervento di chi, in spirito di verità, sa di aver avuto, o di poter avere comportamenti anomali.
  Il comportamento di Cristo con i “diversi” è sempre un comportamento di tolleranza, di accettazione. Non c’è un comportamento “ideale” al quale ci si debba conformare. Non c’è quindi una società “media” da assumere come riferimento. La società deve sapere assumere e sottolineare il valore della diversità, senza cercare di mediarlo in un compromesso grigio ed informe nel quale annegare l’originalità del singolo.











Cap. 24
Il peccato.

"Chi commette il peccato va contro la legge di Dio perché peccare vuol dire mettersi contro la sua volontà. Voi sapete che Gesù è venuto in mezzo a noi per togliere il peccato. In lui non c'è peccato. Chi rimane unito a Gesù non pecca più. Se pecca ancora dimostra di non aver veramente veduto Gesù e di non averlo capito".
  Così scrive Giovanni nella sua prima epistola. Ho cercato nelle lettere, per vedere se trovavo qualcosa di più concreto. Nel Vangelo di Giovanni infatti, il peccato non appare quasi mai, o almeno non c'è una esplicita presentazione di che cosa sia peccato.
  Eppure nell'idea del cristianesimo che io mi porto dentro dalla mia infanzia, dalle lezioni di catechismo alle elementari, il peccato è l'elemento dominante. Il cristiano è uno che pecca continuamente. Non c'è cosa che faccia il cristiano, senza che corra il rischio in qualche modo di cadere in peccato. Se non è peccato quello che fa, può diventare peccato quello che pensa, anche se non ha l'intenzione di peccare. La sua vita è come una roulette russa con il rischio incombente di morire in peccato, e quindi di finire all'inferno per sempre.
  Ho cercato in Giovanni il riscontro dell'insegnamento di Cristo dal quale sarebbe venuta questa idea dell'uomo che cammina sull'orlo del precipizio del peccato, e non l'ho trovato.            Come ho già detto  in Giovanni non troviamo un elenco di prescrizioni e di comportamenti. Il comandamento è uno solo: quello dell'amore.
  Ne discende che, l’uomo il quale ha capito Cristo, si comporta secondo la legge dell'amore, e quindi non pecca. Peccato quindi è soltanto comportarsi in difformità rispetto a questa legge.
  L'opposto dell'amore è l'odio: e quindi l'odio è peccato. Ma non ama neppure chi invidia e quindi anche l'invidia è peccato.
  Io credo però che il più significativo insegnamento sul peccato sia da ritrovare nel fatto che il peccato viene trattato marginalmente. Il comandamento non è "Non peccare" ma "Ama". E la differenza è sostanziale perché ci richiama ad una interpretazione positiva della vita. Obiettivo del cristiano è quello di assumere un atteggiamento positivo e quindi di amore, verso Dio, verso gli altri, verso la natura.
  Nella storia del cristianesimo si e andato sempre più affermando il concetto del negativo. Tutto si riduce ad una sequela di «non devi», mentre invece Cristo ripete quasi ossessivamente che il comandamento è uno soltanto, ed è in positivo: “Ama!”
  Ci è stata insegnata una strada da percorrere nell’angoscia, per la certezza che finisce in un  precipizio, nel quale non abbiamo idea di che cosa potremmo trovare. Per giunta, ai lati della strada, sono state  poste barriere  di filo spinato, per costringerci a percorrerla senza divagazioni o soste. Ci viene anche suggerito di guardare possibilmente alla strada, senza lasciarci distogliere dal paesaggio circostante, per avere meno rimpianti, quando precipiteremo nel burrone finale.
  Ma perchè si e’ affermata questa idea, se Giovanni mi parla soltanto dell’amore e quindi d’una condizione di serenità e di felicita’?
  Non ci sono palizzate, non ci sono divieti! Non c’è neppure la strada. Vado felice nella campagna in fiore, a primavera, inebriato dai profumi, esaltato dai colori, divertendomi con gli amici, cercando di fissarmi dentro, le immagini di quella felicità.
  Non omnis moriar, multa pars mei vitabit Libitinam. Come dice Orazio, non morirò tutto, gran parte di mè eviterà il fiume della dimenticanza. Certamente! Non lo eviterà il mio corpo. Ma perché dovrei dolermi di perdere tutti i miei limiti? Lo eviteranno invece i miei sentimenti, la mia coscienza. Diventeranno invisibili a quelli che guarderanno ancora attraverso il corpo e che crederanno di averli visti morire.
  Possibile? Ritengo di si! Mentre ci pensavo ho fatto comunque un sogno che vorrei raccontare.
  C’era un piazzale enorme, infinito. Pieno di macchine di ogni tipo, tutte in movimento verso l’orizzonte. Andavano avanti e indietro, si fermavano, si incrociavano. Gli automobilisti comunicavano tra loro con gli strumenti dell’automobile. Lampeggiavano, suonavano il clacson, mettevano le frecce di direzione, segnalavano le frenate con le luci di stop, acceleravano per far notare la potenza del proprio motore. Non era molto! Ma le automobili non erano attrezzate per comunicare tra loro. Per questo, gli automobilisti più intelligenti avevano aperto il finestrino e comunicavano direttamente, facendo conoscenza tra loro. Parlavano anche dell’orizzonte, verso il quale tutti stavano andando. Ma nessuno sapeva che cosa avrebbe trovato all’orizzonte!
  Mi trovavo su una di quelle macchine. La mia era piccola, una utilitaria scassata. Avevo paura ad avanzare. Come negli autoscontri al lunapark, tutti avevano la meglio su di me. Tutti mi sembrava avessero una macchina più forte, più grande. Finalmente riuscii a fare gruppo con altre macchine di modesta cilindrata. Presi a parlare con gli altri autisti, a scherzare sul manicomio infernale che facevano quelli delle macchine più grandi, a chiedere dell’orizzonte. Ma nessuno sapeva che cosa avremmo trovato. Tutti cercavano di fare delle congetture. Ma erano soltanto congetture!
  Finalmente si arrivò all’orizzonte! In effetti non ci si accorse di arrivare. Ad un certo punto la macchina si fermò, e si capì che si doveva proseguire a piedi. Cominciando a camminare ci si accorse che si era al di là dell’orizzonte.
Guardando indietro non si vedevano più le automobile, come prima, quando si era in macchina, non si era visto nessuno davanti che camminasse a piedi.
  La scena era d’una comicità’ surreale. Noi del gruppo che avevamo cominciato a parlare ed a far conoscenza in macchina, continuavamo a parlare anche andando a piedi. Gli altri invece continuavano ad agitarsi, come se stessero suonando il clacson, mettendo le luci di direzione, frenando ed accelerando, come dei comici che mimano la guida della  macchina.
  Noi li guardavamo e scherzavamo su di loro, come avevamo scherzato sulla foga con la quale guidavano la macchina!
  Sorridevo ancora ed ero già sveglio. Vivevo ancora le sensazioni del sogno, come se non ci fosse stato un passaggio dal sonno alla veglia. Ma nell’incertezza tra sogno e realtà sentivo invece d’aver acquisito una spiegazione che mi appagava, come se avessi intuito cosa c’era veramente oltre l’orizzonte.
 Chi s’era abituato a comunicare soltanto attraverso gli strumenti dell’automobile, avrebbe continuato a fare l’unica cosa che sapeva fare, anche se l’automobile non c’era più, s’era sfasciata  e si doveva proseguire a piedi. Chi aveva invece imparato a comunicare direttamente, senza la mediazione della macchina, ora poteva continuare a farlo in libertà e in modo più compiuto, senza la barriera della  macchina.
  Se lo sapessero quelli che stanno andando ancora in macchina e che non sono arrivati all’orizzonte! Se sapessero che basterebbe far meno rumore con il motore, e cominciare ad aprire il finestrino!...
 



































Cap. 25.
L'Ultima cena.

  La diversità tra le quattro versioni dei Vangeli ammesse dalla Chiesa, senza tenere in considerazione le versioni apocrife, ha portato e porta a grandi discussioni tra gli studiosi.
Per il particolare approccio al Vangelo di questa mia riflessione, la discussione su queste diversità ha un valore molto marginale. Come ho già detto, a me non interessa la veridicità dei singoli fatti, se Cristo abbia detto o no una parabola, se abbia o no fatto un miracolo. Preferisco cercare di ricavare dal Vangelo il nucleo centrale della rivelazione, l'essenza del nuovo messaggio.
  Tuttavia, di fronte alla diversità con la quale viene presentata l'ultima Cena, sono rimasto anch'io sconcertato. Quando mi sono accorto che Giovanni, che pure si diffonde a ricordare tanti discorsi fatti da Cristo, in quell'ultimo incontro con i discepoli  prima della morte, trascura di ricordare la scena nella quale Cristo avrebbe istituito l'Eucarestia, non ho saputo darmi una ragione. Si ha un bel giustificare il fatto dicendo che Giovanni dava per acquisita la cosa. Non è immaginabile che, raccontandoci la storia di Cristo, Giovanni tralasci il momento essenziale, nel quale Cristo avrebbe lasciato sè stesso agli uomini.
  La spiegazione può essere solo quella che Giovanni era soprattutto preoccupato di  riportare  le parole salienti di quell'incontro con Cristo, prima della sua passione e morte, e che  abbia voluto riportare solo i fatti e i gesti che confermavano ed erano in relazione con quelle parole.
  Quella sera, Cristo, nel racconto di Giovanni, nel salutare i suoi discepoli cercava di riassumere loro i concetti più importanti del messaggio che aveva trasmesso nei tre anni passati con loro. Aveva insegnato loro una nuova filosofia di vita, riassumibile  in un unico precetto:
  "Io vi do un comandamento nuovo: amatevi gli uni e gli altri. Amatevi come io vi ho amato! Da questo tutti conosceranno che siete miei discepoli, se vi amate gli uni e gli altri".
  Non vi riconosceranno come coloro che spezzano il pane (negli altri evangelisti ogni volta che si da il pane questo viene spezzato, in Giovanni mai!) ma come coloro che si amano tra loro e si comportano di conseguenza. E per rendere esplicito questo comportamento con un gesto-parabola, Cristo aveva voluto poco prima lavare i piedi ai discepoli.
  In Giovanni il fatto saliente dell’ultimo incontro non è la cena ma  la lavanda dei piedi,  episodio invece che gli altri non citano neppure. A mio avviso, Giovanni si sofferma su questo ricordo perché lo considera l’esemplificazione dell’atteggiamento e del comportamento che avrebbe dovuto distinguere i seguaci di Cristo.
  A Pietro che si rifiuta, sembrandogli inaccettabile che il discepolo possa lasciarsi lavare i piedi dal Maestro, Cristo, insistendo, ribatte:
"Se io non ti lavo non sarai veramente unito a me".
  Poi intuendo che il significato del gesto non era stato ben compreso, cerca di  precisare:
"Capite quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate Maestro e Signore, e fate bene perché io sono. Dunque se io, Signore e Maestro vi ho lavato i piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni e gli altri. Io vi ho dato un esempio perché facciate come io ho fatto a voi.
  Certamente un servo non è più importante del suo padrone e un ambasciatore non è più grande di chi l'ha mandato. Ora sapete queste cose, ma sarete beati quando le metterete in pratica".
  Cristo ha dato ai cristiani il comandamento di amarsi gli uni gli altri. Ma la pratica del comandamento non deve restare un fatto formale, deve diventare un comportamento, che emblematicamente viene spiegato attraverso la lavanda dei piedi. Credo che il gesto si possa interpretare nel senso che tra gli uomini, indipendentemente dal fatto che uno sia maestro e l'altro discepolo, per il fatto di essere comunque profondamente uguali, per essere tutti figli di Dio, il rapporto deve essere fondato su un sentimento ed un atteggiamento di grande disponibilità degli uni verso gli altri.
  Il gesto di disponibilità di chi è più in alto verso chi è più in basso, pur lasciando inalterato il fatto che uno resta maestro e l'altro discepolo, consente a chi sta in basso di aprirsi superando ogni remora o barriera. In questo sta il senso della affermazione fatta a Pietro:
  "Se io non ti lavo, tu non sarai unito a me".
  Perché per il Cristo, amarsi come fratelli, non è dire di volersi bene, manifestare esteriormente un rapporto di fratellanza. Amarsi è essere uniti.
  Cristo è venuto al mondo per insegnarci a vivere da Figli di Dio e quindi  da fratelli che si amano gli uni e gli altri. Il mondo ha bisogno delle sue gerarchie, c'è chi è maestro e chi discepolo, chi dirigente e chi operaio, chi proprietario e chi proletario. Cristo non chiede di eliminare queste differenze, starà all'uomo come Figlio dell'uomo muoversi per ridurle, per superarle e il proletario si porrà l'obiettivo di diventare proprietario e l'operaio dirigente, ma comunque stiano i rapporti tra gli uomini, al di sotto delle vesti e dei ruoli diversi, c'è in tutti un'anima uguale, l'anima di figli di Dio e quindi l'anima di fratelli.
  Questo è il dato di fatto che deve essere tenuto presente e deve improntare le relazioni tra gli uomini, e su questa convinzione deve svilupparsi la comunità dei cristiani. Una comunità che vive felice, non negando il mondo, ma interpretandolo per quello che veramente è, come si è detto: una palestra nella quale l'uomo si esercita per migliorare il proprio modo di sentire e di rapportarsi con gli oggetti, senza confondere gli strumenti della palestra, con gli oggetti della realtà.
  Chi è grande nel mondo resta grande, anzi diventa più grande se saprà vivere avendo la capacità di scendere allo stesso livello di chi è più piccolo. Se chi è al di sopra, sa scendere a lavare i piedi di chi sta sotto, in effetti non scende né nella considerazione che lui ha di se stesso, né nella considerazione che gli altri hanno di lui, realizza invece un rapporto di vera amicizia: se ti laverò  sarai veramente unito a me.
  Il significato profondo della frase, a mio avviso, sta proprio nella contrapposizione del «se io ti laverò», al «tu sarai unito a me». È nella disponibilità di chi sta sopra, che si realizza un nuovo rapporto tra diversi!
  La solidarietà non deve essere una pretesa e una rivendicazione di chi non ha, ma un atto di disponibilità e liberalità di chi ha.
E Cristo aggiunge "Quando metterete in pratica queste cose, sarete felici". Non nell’al di là, nella vita eterna o nel Regno dei cieli, ma qui, su questa terra, in ogni momento nel quale vi comporterete, relazionandovi con gli altri in termini di amore.












Cap. 26.
Il mistero della  Croce.

  Ho già detto, della difficoltà ad accettare razionalmente, l'idea d'un Dio che sacrifica il figlio sulla croce, al fine di salvare l'umanità. Qualche studioso riconducibile alla corrente dell’”ateismo cristiano”, ha pensato persino che la morte di Cristo volesse significare la necessità per  il cristiano di imparare a vivere l’esperienza terrena senza Dio. A me, più semplicemente,  pare che tutto si spieghi nella   logica  d'un Dio che fa assumere al figlio la condizione umana, per insegnare agli uomini a vivere la loro condizione di figlio di Dio.
  Se Cristo è venuto al mondo per insegnare agli uomini a vivere, non poteva non morire, perché la morte é il momento fondamentale della vita dell'uomo. Ma la cosa forse più assurda della vita dell'uomo, è la grande sofferenza attraverso la quale deve arrivare alla morte, quando viene  condannato a conquistarsi, a prezzo di indicibili sofferenze, la cosa che, come uomo, meno vorrebbe avere: l'annullamento fisico di sé stesso. Nella logica di Cristo che percorre la strada degli uomini, non solo è logico dovesse morire, ma è anche logico che dovesse morire tra le grandi sofferenze che comporta la morte in croce.
  L'uomo può morire per un improvviso arresto cardiaco, per un incidente: può morire senza accorgersi. Più spesso però conquista la morte tra le sofferenza dell'agonia, e spesso vive tra le sofferenze la propria condanna a morte, per un male incurabile.
  Cristo condannato a morte, che sale il Calvario portandosi lo strumento con il quale si procurerà la morte, rappresenta emblematicamente tutti i condannati a morte da un male incurabile. Dalla lebbra ai tempi di Cristo, al cancro ai giorni nostri, per tanta parte dell'umanità, la storia individuale è storia di condanne a morte, di croci cariche di sofferenza, da portare, sapendo che non ci sarà via d'uscita, se non nella morte.
  Mi pare quindi perfettamente logico che, se l'intento di Cristo era quello di insegnarci a vivere in un modo nuovo, non potesse non vivere con noi l'esperienza più terribile (dal punto di vista dell’uomo), quella della condanna a morte.
  In questa prospettiva può essere capita anche l’affermazione che fa Cristo stesso, quando dice che "morirà per gli uomini" o si sacrificherà per gli uomini!
  Morirà nell’interesse degli uomini, per esplicitare meglio il messaggio che deve lasciare agli uomini.
  Quando Cristo si paragona ad un pastore e dice che il buon pastore e' pronto a dare la vita per le sue pecore, non mi pare affermi che il pastore deve dare la vita per salvare quella delle pecore, e tanto meno che la morte del pastore salva le pecore.
 Il concetto di lottare fino alla morte, non ha nulla a che vedere con quello di farsi uccidere perché dalla propria morte venga salvezza. Anzi, lasciandosi sbranare dal lupo, il pastore non fa altro che consentire al lupo di sbranare successivamente anche le pecore.
  Come il pastore, Cristo non ha nessun motivo per sacrificare la sua vita, perché dal sacrificio ne tragga vantaggio il gregge, è disposto invece, anche a morire, pur di salvare il gregge.
  Come ho già avuto modo di anticipare, l’idea di Cristo che si sacrifica per salvarci, si giustifica nella tradizione ebraica, ma non ha nessun senso logico per noi.
  Quando diciamo che Cristo ha vinto la morte, diciamo che Cristo ha vinto la paura della morte, spiegandoci che non esiste la morte eterna, ma che la morte del corpo apre le porte alla vita eterna. È la rivelazione della vita eterna che vince la paura della morte, non il fatto che Cristo sia morto.
  E poi che senso avrebbe «sconfiggere la morte» se la morte e’ il felice ingresso nell’immortalità?
  «Ecco, dice giustamente Paolo, il nostro corpo fatto di carne e di sangue non può far parte del regno di Dio e quel che muore non può partecipare all’immortalità. Ecco, io vi dico un segreto. Non tutti moriremo, ma tutti saremo trasformati, in un istante, in un batter d’occhio, quando si sentirà l’ultimo suono di tromba».
 Lo schema veterotestamentario con cui affronta il problema, dopo questa giusta intuizione, porta Paolo ad inquinarla nell’idea del suono di tromba dell’ultimo giorno, quando i morti saranno resuscitati per non morire più. Cristo però aveva detto che «chi ascolta la mia parola e crede nel Padre che mi ha mandato ha la vita eterna: è già passato dalla morte alla vita.»
  Chi crede infatti, comincia a vivere nell’Esistenza già durante la vita mortale. Liberandosi del corpo nella morte, non potrà che continuare a vivere eternamente la propria identificazione con l’Esistenza.
  La difficoltà a seguire il ragionamento deriva soprattutto dal fatto che Cristo viene sentito come dato storico. È vissuto in un determinato periodo in Palestina, ha detto delle parole, ha fatto determinate cose. Ma se Cristo è Dio, non ha nessun senso immaginarlo chiuso in un momento della storia.
  Cristo-Dio non può che essere al di fuori del tempo e della storia e quindi vive oggi, muore oggi, non in Palestina ma in ogni luogo. Il Cristo-figlio di Dio della storia, ci può servire solo come riferimento, per vivere la nostra storia di figli di Dio, per ritrovare il figlio di Dio che è in noi.
 





Cap. 27.
La morte di Cristo.

Nel racconto evangelico della passione e morte di Cristo, superato lo scandalo della morte in sè, nell’idea che è morto per insegnare a morire, sconcerta il fatto che  abbia avuto paura della morte. Se doveva insegnarci a vincere la morte, come può aver avuto paura anche lui della morte?
 L’espressione  angosciata "Dio mio perchè mi hai abbandonato" secondo Antonio Messori, è certamente  stata gridata  da Cristo. Avendo interesse infatti  gli apostoli a rappresentare la grandezza del Messia, certamente non si sarebbero soffermati a riportare questo momento di debolezza, se non per la necessità e nel desiderio di essere fedeli alla verità .
Ma anche su questo Giovanni si discosta dagli altri tre. Gli altri ricostruiscono la morte d'un uomo e, a mio avviso, per esigenze di drammatizzazione, inseriscono l'angoscia che ogni uomo prova di fronte alla sua fine. Rivivono la morte di Cristo come l’avrebbero vissuta loro.
Giovanni ci parla invece della morte del figlio di Dio. Come uomo, Cristo, si sente oppresso dalla sofferenza, ma come figlio di Dio, sa che attraverso quella sofferenza, si libererà del corpo per tornare al Padre.
Parlando della morte, nell'ultima cena, la paragona al parto. "Una donna che deve partorire, quando viene il momento, soffre molto. Ma quando il bambino è nato, dimentica le sue sofferenze per la gioia che è venuta al mondo una creatura".
Come la partoriente anche Cristo, ed il cristiano figlio di Dio, soffre molto, ma è per liberarsi del corpo e consentire la nascita di una nuova creatura che, non definita, attraverso il corpo, nello spazio e nel tempo, potrà vivere la vita eterna.
Giovanni non ci dice che Cristo ha sudato sangue nell’orto dei Getzemani. L’apostolo più intimo di Cristo, poteva  dimenticare un particolare così importante della sofferenza del maestro?
Non so se l’ha volutamente dimenticato, è certo però che il Cristo che lui ci racconta non è un uomo condannato a morte, ma il figlio di Dio che ha accettato di morire.
Quando alle guardie si rivela dicendo «Io sono», queste cadono per terra. Dimostra quindi  di essere in grado di opporsi alla cattura, di poter evitare la morte, ma a Pietro, che cerca di difenderlo e taglia l’orecchio a Malco dice: «Metti via la tua spada! È necessario che io beva il calice di dolore che il Padre mi ha preparato».
Ancora un insegnamento all’uomo ad accettare, non a subire, il proprio destino di uomo!
Nel sommario processo, Cristo si comporta con coraggio da figlio di Dio, al punto da prendersi uno schiaffo da un servo per aver risposto in modo impertinente al sommo sacerdote. A Pilato che gli chiede se è il re dei Giudei, replica:
«Hai pensato tu questa domanda, o qualcuno ti ha detto questo di me?»
E più avanti:
«Non avresti nessun potere su di me se non ti fosse dato da Dio»
E sulla croce, null’altro avrebbe detto, secondo Giovanni, che la frase : «È compiuto».
L’affermazione più logica per il figlio di Dio che ha compiuto la missione affidatagli dal Padre, e che, liberandosi della carne, può tornare al Padre.
L’affermazione che, secondo l’insegnamento che Cristo è venuto al mondo a portarci, ogni cristiano dovrebbe poter ripetere, nella convinzione d’aver portato a termine al meglio, la propria missione individuale, nell’esperienza del corpo nel mondo.
Dalla morte di Cristo viene dunque all’uomo la salvezza, come insegnamento per saper vincere la propria morte, nella certezza della vita eterna.



























Cap. 28
Il mistero della sofferenza.

  Se la vita terrena è un continuo divenire verso la vita eterna, come si è già visto, il senso della vita è nell’acquisizione del modo di sentire  e quindi del modo di essere che avremo nell’eternità.
  In questa prospettiva si dovrebbe riuscire  anche a capire il senso dell’apparente ingiustizia con la quale gli uomini sono collocati al mondo.
In alcune  parabole riportate dagli altri evangelisti, perché Giovanni non si perde a ricordare parabole, si legge che non ha importanza quanto uno lavori nella vigna: sono pagati allo stesso modo, sia quelli che hanno lavorato un’ora che coloro i quali hanno lavorato l’intera giornata. Ciò che importa infatti ai fini dell’eternità non è il che cosa hai fatto, ma il come.
E’ dal come infatti che acquisisci il modo di essere che vivrai oltre la vita terrena.
  Ognuno è stato trattato in modo diverso, alcuni hanno cinque talenti ed altri solo uno, ma ciò che importa è l’impegno che mettono nel farli fruttare, non il quanto  hanno fruttato complessivamente: chi ha uno e rende due, ha fatto come e meglio di chi aveva cinque ed ha reso dieci.
  Se lo scopo è quello di raffinare la sensibilità che avrai per l’eternità, più sarai messo allo prova, e più hai la possibilità di ottenere un risultato eccellente, in questa ottica come già anticipa il Deutero-Isaia la sofferenza, sopportata pazientemente, può essere una esperienza creativa per tutti quelli che ne sono coinvolti, compresa la vittima stessa, durante la sua stessa tragedia.
  «Signore, se quest’uomo è nato cieco, di chi è la colpa? Sua o dei suoi genitori?»
  Chiesero un giorno i discepoli a Cristo  ed egli rispose:
«Non ne hanno colpa né lui né i suoi genitori ma è così perché in lui si possano manifestare le opere di Dio».
  Nel caso specifico la risposta di Cristo potrebbe essere intesa nel senso che nel disegno provvidenziale era necessario che quell’uomo fosse cieco e si trovasse lì, in quel preciso momento per diventare l’oggetto del miracolo. Mi sembrerebbe però una interpretazione troppo riduttiva.
  La sofferenza dell’uomo consente il manifestarsi delle opere di Dio, come prova più difficile che viene riservata agli uni e non agli altri, per provare gli uni meglio degli altri, e nella prova più difficile consentire a questi una sublimazione del loro modo di essere che per gli altri è più difficile.
  Il ragionamento diventa più facilmente comprensibile se, secondo quanto si afferma nelle filosofie orientali, immaginiamo che l’anima possa reincarnarsi più volte, per purificarsi attraverso le reincarnazioni e giungere al Nirvana o Paradiso che dir si voglia.
  È l’anima che di volta in volta sceglie come reincarnarsi. Può sprecare un’esistenza, scegliendo di vivere senza che nulla gli venga in termini di purificazione ai fini del nirvana finale. Può scegliere invece di reincarnarsi in una vita di sofferenza nella quale riuscirà a raffinare in modo più intenso la propria sensibilità e quindi a purificarsi più rapidamente.
  Se teniamo presente che l’obiettivo finale è il Paradiso, la scelta giusta è evidentemente quella di chi si incarna nella sofferenza, per accelerare la conquista dell’obiettivo.
  Nell’interpretazione buddista le successive incarnazioni sono necessarie perché l’obiettivo finale è quello di raggiungere lo stadio di sensibilità necessario per entrare nel Nirvana, nel quale tutti hanno quindi lo stesso stato di sensibilità, e sono ammessi solo se hanno raggiunto il livello indispensabile per l’ammissione.
  Nella nostra interpretazione dell’incarnazione unica, dopo l’unica esperienza di vita, nel Nirvana, cioè nella vita eterna, l’uomo accede con diverse sensibilità, che possono essere sia positive che negative (Paradiso e Inferno).
  Se riteniamo giusta la scelta della sofferenza per il buddista, non possiamo non ritenere occasione fortunata, per il cristiano, quella della sofferenza sia per chi la vive, che per chi è costretto, oppure ha scelto volontariamente, di convivervi.
  Facile a dirsi! Avrebbe detto il mio amico don Onelio costretto a vivere in carrozzella senza riuscire a muovere altro che i muscoli del viso, per potere  ancora sorridere e parlare di speranza!
 In effetti il ragionamento è difficile da accettare. Ma. se ci si riflette, si scopre che la difficoltà sta  solo dal fatto che, paradossalmente, continuiamo a non accettare l’unica cosa che è incontestabile, e cioè che siamo mortali.
  Tutti viviamo come se non dovessimo mai morire, mentre la morte è l’unica cosa certa della nostra esistenza.
  Se provassimo a ragionare pensando che in me il Figlio dell’Uomo più e stato caricato di pesi più il figlio di Dio può esercitarsi ed acquisire una sensibilità estremamente raffinata per la vita eterna, forse cominceremmo a vedere le cose in un’ottica diversa. 













Cap. 29
La sofferenza in Isaia.

  La considerazione con la quale ho chiuso il capitolo precedente credo ci possa servire come chiave di interpretazione per rileggere il profeta Isaia, o meglio la seconda parte del libro del profeta Isaia, che è nota come Deutero-Isaia. La digressione, a sua volta, dovrebbe consentirci di capire meglio il concetto della sofferenza.    
  Isaia  è stato definito il «profeta evangelista» perché nei suoi scritti si troverebbe un numero notevole di riferimenti messianici. Anticiperebbe, come ho già ricordato, nel mondo ebraico, il concetto introdotto dal Vangelo d’un rapporto diretto tra l’Uomo e Dio.
 Ma sorprendente in Isaia è soprattutto l’anticipazione del concetto del «servo di Dio» che espia innocente i peccati del mondo, e quindi la conferma anticipata dell’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo.
  Ho già detto che per me non ha senso l’idea d’un Dio Padre Onnipotente che fa soffrire e morire il Figlio per redimere attraverso la sofferenza e la morte i peccati dell’uomo.
  L’interesse per Isaia è, in quest’ottica, finalizzato a scoprire se vi è possibile una chiave di interpretazione diversa, e se in questa interpretazione diversa, trova una risposta diversa anche il mistero della sofferenza dell’uomo.
 Credo di sì. E credo sia questa la chiave con la quale  il cristiano può spiegare  l’ingiustizia della sofferenza.
Scrive Isaia:
«Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze,
«si è addossato i nostri dolori
«e noi lo giudicavamo castigato,
«percosso da Dio ed umiliato.
«Egli è stato trafitto per i nostri delitti,
«schiacciato per le nostre iniquità.
«Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui;
«per le sue piaghe noi siamo stati guariti.
«Noi tutti eravamo sperduti come un gregge,
«ognuno di noi seguiva la sua strada,
«il Signore fece ricadere su di lui
«l’iniquità di noi tutti.
  Isaia, si dice, anticipa profeticamente Cristo e tutta la teoria della salvezza attraverso la sofferenza di Cristo.
  E se invece, mi sono chiesto, Isaia volesse solo presentarci la sua interpretazione della sofferenza? Se la chiave di tutto il passo fosse la frase: il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui? Ove per lui, non s’intende il Cristo che dovrà venire, ma lui che soffre. Lui, ogni uomo che soffre, porta su di sé il castigo che dà salvezza a tutti noi.
  Due sono gli elementi della maledizione di Adamo la morte e la sofferenza, l’uomo sa che non può sottrarvisi e li accetta e subisce.  Ciò che invece non riesce ad accettare è l’ingiustizia con la quale i due elementi vengono distribuiti. Perché qualcuno può vivere da Lazzaro mentre altri vivono da ricchi epuloni? Qualcuno può vivere in un corpo perfetto, mentre altri devono vivere, senza la possibilità di vedere o di muoversi? Perché qualcuno muore senza accorgersi, e qualcuno invece deve conquistarsi la morte tra indicibili sofferenze?
  Come spiegare tanta ingiustizia voluta da un Dio buono, da un Dio padre?
  Non so fare di meglio che imitare le forme espressive del Vangelo tentando di darmi una risposta attraverso una parabola.
  Gli uomini sono destinati a vivere nell’oceano senza orizzonti  contemplando la bellezza dell’infinito. Per raggiungere l’oceano devono però attraversare un bosco. Tutti sanno che il bosco finisce e comincerà l’oceano. Tutti quindi dovrebbero fare il percorso, pensando all’oceano, guardando ai raggi di luce che entrano tra gli alberi, per abituarsi alla luce del sole che sono destinati a guardare alla fine del bosco. 
  Invece, pur essendo certi che il bosco finisce, tutti si comportano come se non finisse mai. Tutti cercano di attardarvisi, lasciandosi prendere da mille incombenze, perdendosi dietro alla bellezza degli alberi, dell’erba e dei fiori.
  Come in una corsa ad handicap alcuni partono da più lontano,  altri da più vicino, alcuni proprio sull’orlo del bosco per cui non riescono neppure ad accorgersi della sua esistenza, altri da molto lontano, e quindi arrivano stanchi ed affaticati. Alcuni vi arrivano attraverso un bosco che si dirada per cui vedono sopraggiungere l’oceano da lontano, per altri invece il bosco s’interrompe d’un tratto e si trovano all’improvviso di fronte all’oceano. Per alcuni infine tra il bosco e l’oceano c’é una palude nella quale finiscono sommersi. Una palude putrida che rende faticoso il respiro, infette e dolorose le ferite. Una palude che li dovrebbe portare a cercare con ansia l’oceano, eppure anche in quella cercano di attardarsi, preferendola comunque all’oceano
 Ad alcuni e’ assegnato un sentiero molto agevole, tra l’erba morbida e gli alberi curati. Un sentiero lastricato, dal quale però è quasi impossibile vedere i raggi del sole. Quelli che camminano su questi sentieri però non  si abituano alla luce, e quando d’un tratto s’apre l’oceano, spesso restano abbagliati, e finiscono  per annegare e sprofondare nella notte degli abissi.
 Ad altri invece è toccato un sentiero che finisce tra i rovi e le spine, che sale tra le rocce impervie e pericolose. È un sentiero che richiede  solo fatica e sofferenza, ma dal quale si riesce anche a vedere il sole.             Vincendo il dolore e la fatica, tra le rocce, al di sopra degli alberi, si ritrova il sole, e ci si abitua sempre più alla sua luce, per poterla poi meglio apprezzare e godere  nell’oceano.
  «Dove è la giustizia?» grida chi sale sulle rocce, con grande sforzo e grande dolore, guardando gli altri che se ne vanno passeggiando nel bosco curato e pianeggiante.
  «Dove è la giustizia?» grida chi è nella palude fetida, dalla quale sa che non si può tornare indietro, e nella quale comunque annaspa, accettando il dolore, pur di ritardare in qualche modo l’arrivo all’oceano.
  E non riescono a darsi una risposta perché, contro ogni logica, vogliono  trovare il senso e la risposta  all’interno del bosco!
  Chi guarda invece le immagini dall’alto e vede allo stesso tempo il bosco e l’oceano, nella diversa prospettiva, vede che tutta la scena ha una logica intrinseca, che trova un senso nell’oceano, invece che nel bosco. Semmai l’ingiustizia è per  quelli che passeggiano comodamente e che poi alla fine del bosco, abbagliati dalla luce alla quale non erano preparati, finiscono tra le onde e si perdono per sempre...
  Comunque, da lassù, dal cielo, quel formicolio di uomini, che  si muove nel bosco, andando  verso l’oceano, ha una sua bellezza ed una sua armonia. Tutto sembra coerente e giusto!
  Tutto dovrebbe trovare un senso ed una logica nel fatto che gli uomini dai diversi percorsi, dovrebbero guardare gli uni agli altri,   scambiarsi informazioni, aiutarsi e sorreggersi a vicenda. La brezza che si diffonde nel bosco, tra gli alberi, dovrebbe portare un sentimento d’amore, e  quegli uomini dovrebbero sentirsi  fratelli, pronti ad aiutarsi. La diversità tra loro dovrebbe diventare la loro ricchezza.
  E invece tra loro c’é solo odio ed invidia. La diversità, diventa motivo perché a gruppi si alleino gli uni contro gli altri. Avanzano verso l’oceano in guerra tra loro, e presi dalla foga dello scontro, si dimenticano che c’è l’oceano, che il bosco ha una fine.
  Ma lassù tra le rocce,  chi più ha sofferto, è arrivato in alto nella luce, e vede che la luce, si perde lontano nell’oceano e lo grida agli altri.
  Stremato e ferito, sembra quasi abbia voluto caricarsi delle sofferenze e dei dolori degli altri. Anche per loro infatti è salito lassù, per merito delle sue ferite e dei suoi sacrifici, che gli hanno consentito di salire così  in alto, ad intuire in lontananza l’oceano, anche gli altri possono ritrovare  la strada. Erano sperduti come un gregge, ma nel suo grido, nel suo richiamo e nella sua indicazione, si sono ritrovati.
  Isaia nel suo canto non preannuncia Cristo, ma, a mio avviso, anticipa la visione del mondo che avrebbe portato Cristo: la visione del mondo rivoluzionaria, per la quale gli ultimi sono i primi.
  Non saranno! Ma sono!
  La dottrina della Chiesa direbbe Tolstoj dice «saranno» e in questo futuro consolatorio mette in pace le coscienze di tutti. Ma la dottrina di Cristo dice «sono». Quando si dice che Cristo vive in chi soffre, non si usa un modo di dire, ma si riporta  l’affermazione fondamentale del cristianesimo.
  Anche il riferimento di Isaia diventa in questi termini più esplicito:
«Il braccio del Signore si è manifestato
«a chi non ha apparenza né bellezza
«per attirare i nostri sguardi,
«non splendore per potercene compiacere.
«Disprezzato ed allontanato dagli uomini,
«uomo dei dolori che ben conosce il patire,
«come uno davanti al quale ci si copre la faccia,
«era disprezzato e non ne avevamo alcuna «stima, eppure egli è stato caricato dei nostri «dolori e delle nostre sofferenze”.
  Non vedo come si possa ritrovare in queste parole  di Isaia il preannuncio di Cristo che «non ha apparenza nè bellezza», vedo invece il preannuncio di una religione che valorizza chi prima era disprezzato, che mette in prima fila, chi prima veniva nascosto con vergogna, perché «non ha apparenza né bellezza».
  Solo se pensiamo che quanti soffrono sono  guida ed occasione per chi intende esercitarsi a valorizzare e sviluppare il proprio spirito, riusciamo forse anche a capire il perché il Figlio di Dio, vivendo da uomo, abbia voluto soffrire e morire sulla croce.
  Non per salvarci con il suo sacrificio! Sarebbe dopotutto assurdo in sé, e troppo comodo per l’uomo!
  Ma per insegnarci il senso della sofferenza e della morte. Per insegnarci  ad affrontare in positivo l’esperienza della sofferenza e della morte:  della fine del bosco che si apre negli orizzonti sconfinati dell’oceano.



















Cap. 30.
Se Cristo non è risorto vana e la nostra fede.

  Tutti i Vangeli concordano nel racconto che Cristo è risorto. Concordano molto meno invece, nel dirci come era il risorto. Riesce difficile capire come fossero le sue sembianze, dal momento che neppure gli amici più intimi, vedendolo, l’hanno riconosciuto. Per farsi riconoscere, ha dovuto mostrare i segni della crocifissione.
  Da un lato viene presentato risorto come spirito, una sorta di fantasma capace di attraversare i muri. Ma poi si ferma anche a mangiare, rendendo difficile capire come possa mangiare uno spirito immateriale.
  Ma anche in questo caso il mio problema non è di interpretazione. Anzi, per la mia riflessione direi che è del tutto ininfluente che sia risorto o meno, per questo non capisco la affermazione di Paolo, nella prima lettera ai Corinzi, quando dice che «Se Cristo non fosse risorto la nostra predicazione sarebbe vana».
  Mi pare perfetto il suo ragionamento: il figlio dell’uomo viene dalla polvere e quindi deve tornare alla polvere, mentre il figlio di Dio venendo dal cielo deve tornare al cielo. Quello che è in noi il figlio dell’uomo, la carne, resterà alla terra, quello che è in noi il figlio di Dio tornerà con l’Assoluto.
  «Come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo!»
  Ci ha salvati Cristo non perchè è morto, non perché è resuscitato, ma perché è nato, perché è venuto in terra, come uomo, per mostrarci la strada per  diventare come lui, figli di Dio.
  Saremo simili a Cristo che viene dal Cielo, non perché è resuscitato, ma perché, venendo dall’Assoluto non poteva che tornare all’Assoluto.
  La frase di Paolo avrebbe un senso solo se tradotta in: «vana sarebbe la nostra predicazione se Cristo fosse morto». Ma Cristo non è morto, come dice lo stesso Paolo la morte è trasformazione e Cristo per primo si è trasformato «da corpo corruttibile a corpo incorruttibile», da una entità composta di corpo e spirito in una entità composta di solo spirito.
  Secondo una metafora che ricorre spesso nel Vangelo e che Paolo riporta nella stessa epistola, il seme e’ finito in terra e non c’è più, ma non è morto, si è trasformato, o, è “risorto”, che dir si voglia, nella pianta nata da lui.
  Lazzaro non è morto. E’ stato resuscitato solo per testimoniare che non era morto.
  La crisalide non è morta. È rimasto il bozzolo senza vita, ma la farfalla si è librata nel cielo senza fine, a disegnare, nel respiro dell’aria, la speranza degli uomini.
  Le crisalidi nel loro mondo, non sanno che esistono le farfalle, non le possono vedere. Non sanno che esiste un mondo pieno di aria, di sole e di luce.
  Chissà se le farfalle, volando verso il sole, possono vedere le crisalidi!...
  Io penso di sì, ma l’immagine è troppo superficiale rispetto alla profondità del messaggio che mi pare di intuire nel Vangelo e che cerco invano di mettere a fuoco.
Vorrei tentare un’ultima strada, tornando al paragone di Cristo che scopre la divinità dell’uomo-figlio di Dio,  con Einstein che scopre la relatività della materia. Il paragone non regge, si potrebbe obiettare, perché Einstein ha scoperto, Cristo invece ha introdotto nell’umanità la possibilità di diventare figli di Dio. Ma di fronte al fatto essenziale che ora questa possibilità esiste, è secondario sapere se è stata introdotta o è stata scoperta. Oggi esiste la divinità possibile dell’uomo, come la relatività della materia,
  Einstein dicendosi relativo e Cristo dicendosi figlio di Dio rendono cosciente l’uomo della peculiarità del proprio modo di essere, rispettivamente nella propria relatività e divinità. Ma l’uomo onora Einstein non come il primo dei relativi, ma come colui che ha introdotto la relatività. Così Cristo va visto e onorato non come il primo dei figli di Dio, ma come colui che ha rivelato (o introdotto) l’intuizione dell’uomo figlio di Dio.
  Se così è, allora il Vangelo non è il libro del figlio di Dio nella storia, ma il libro del primo uomo che parla da figlio di Dio. Se è così, le parole di Cristo devono essere le parole che io,  figlio di Dio, rivolgo a  me uomo, estrapolate da quelle che Cristo ha dovuto dire come figlio di un Giuseppe palestinese.
Con questa chiave di lettura il Vangelo assume una luce completamente diversa ed in qualche modo più attuale e più facilmente comprensibile. Diventa più facilmente interpretabile in particolare il testamento spirituale che Cristo lascia ai suoi nell’ultima cena.
Non ai suoi ma a me! È infatti anche il testamento che in me, l’io figlio di Dio, lascia all’io che deve tornare alla polvere.
Dove io vado tu non puoi venire,
ma conosci già la via,
perché io (il figlio di Dio che è in te) sono la via.
Nessuno va all’Esistenza, se non prendendo coscienza di essere figlio dell’esistenza.
Chi riconosce l’Esistenza in sè, vede l’Esistenza, perché l’esistente è nell’Esistenza.
Ma io, come momento dell’Esistenza. devo vivere nell’Esistenza, perché tu con la tua esperienza di esistente possa venire dove sono io, infatti questa è la vita eterna: conoscere l’Esistenza.
Solo quando io sarò nell’Esistenza tu potrai avere coscienza (nello Spirito), del rapporto esistente tra te e l’Esistenza.
Con questo però la mia riflessione invece che concludersi si apre su nuovi orizzonti. Come quando si cammina in montagna e ci si accorge che la sommità  raggiunta non è la vetta.
Su questo sentiero ho trovato che il figlio di Dio che è in me, deve morire al mondo per vivere nell’Esistenza e riuscire ad attrarvi il figlio dell’uomo che pure è in me.
La lacerazione dell’uomo che guarda al cielo ed è attratto dalla terra si ricompone nell’uomo sintesi di due poli l’uno dei quali deve vivere nell’Esistenza per consentire all’altro di finire nell’eternità dell’Esistenza.
Scoprendo la verità della via del proprio Sé che vive nell’Esistenza, l’esistente troverà la vita eterna.


 
 




















Cap. 31.
La New Age.

  Dopo aver cercato di riflettere su come dal Vangelo di Giovanni possa venire una nuova prospettiva per l’individuo, vorrei chiudere con tre spunti di riflessione sulla possibilità di una prospettiva nuova, oltre che per il singolo, anche per l’umanità e per il mondo. E’ possibile pensare, come chiude Giovanni nell’Apocalisse, che ci sarà una nuova Gerusalemme?
  L’idea dell’imminenza d’un cambiamento radicale nell’umanità è già nel Vangelo. Si sviluppa poi negli Atti degli apostoli e nelle epistole. A mio parere però va messa in relazione e spiegata con il fatto che gli Ebrei si attendevano il Messia salvatore e liberatore. Per accettare come Messia quel Cristo che era morto sulla croce, come un malfattore, dovevano per forza pensare che la salvezza fosse solo rimandata, in qualche modo sospesa, per un breve periodo.
  Giovanni chiude il suo Vangelo con Pietro che domanda a Cristo cosa sarà di se stesso, cioè «del discepolo prediletto di Gesù, quello che nella cena si era appoggiato al suo petto e gli aveva chiesto chi fosse il traditore».
       Gesù gli disse:
«Se voglio che lui viva fino al mio ritorno, che t’importa? Tu seguimi!»
  Per questo, tra quelli che credevano, si diffuse la voce che quel discepolo non sarebbe morto. Però Gesù non aveva detto: «Non morirà». Aveva soltanto detto: «Se voglio che lui viva fino al mio ritorno, che t’importa?».
  Giovanni chiude quindi con la convinzione che ci sarà un ritorno di Cristo. Su questa convinzione di Giovanni, più volte, nella storia dell’umanità, si è annunciata l’imminente venuta di Cristo. Anche ai nostri giorni, l’aprirsi d’un nuovo millennio, fa immaginare che l’apertura possa coincidere con la nuova venuta. Si sono fatte anche delle date. Ma non essendo avvenuto nulla nei tempi previsti, c’è qualcuno che sostiene che sarebbe già tornato, ma se ne sta nascosto da qualche parte, in attesa di manifestarsi, un po’ come ha fatto per trenta anni a Nazareth.
  Come il sacrificio per la salvezza, così il ritorno per la liberazione, fanno parte, a mio avviso, del contesto ebraico per cui Cristo viene visto a completamento e conferma del Vecchio Testamento.
  Ma se invece Cristo è l’Unigenito figlio di Dio, intervenuto nella vicenda dell’uomo in un preciso momento della sua storia, quello che c’era prima e ci sarà dopo è ininfluente. Il fatto assolutamente originale, d’una portata così madornale da sfiorare il paradosso si e’ già verificato. Proprio per l’assoluta grandezza e originalità non ha senso pensare che possa ripetersi. Ma il problema è un altro.
  Il fatto a mio avviso che mette in discussione la veridicità dei Vangeli non è un problema storico o storiografico. È in fondo secondario che sia veramente esistita la figura storica di Cristo. Ancor meno importa sapere se era delle corrente degli Esseni o degli Zeloti, o quali siano stati i dettagli della sua vita, che cosa veramente abbia fatto. Il problema vero è un altro: se il Figlio di Dio s'è incarnato per salvare l'umanità, perché l'umanità non si è salvata?
  Perché questi duemila anni di storia dopo di Cristo, non hanno visto un uomo migliore di quello dei duemila anni precedenti? Come mi sono chiesto in altra parte, perché l'olocoausto, se l'uomo è Figlio di Dio?
  Tornando al ragionamento  iniziale dell'idea del mondo che si fa uomo, a significare che l'uomo diventa la figura centrale dell'universo, si potrebbe  immaginare che l'uomo abbia necessità di un periodo per interiorizzare l'idea, e quindi per realizzarla.
  L'uomo in questi duemila anni ha dimostrato di non essere in grado di dominare il mondo, anzi, al contrario, ha messo in moto processi di sviluppo capaci di distruggere il mondo, processi di sviluppo che hanno reso sempre più difficile il suo rapporto con la natura, sempre maggiore la sua alienazione, sempre più grande la sua infelicità.
  Oggi però noi assistiamo ad una nuova rivoluzione,  attraverso le tecnologie elettroniche e le biotecnologie, l'uomo dimostra veramente di essere in grado di diventare l'idea del mondo, capace di modificare e quindi di controllare i processi di sviluppo del mondo.
  All'era dell'evoluzione per acquisire gli strumenti di controllo del mondo, fa seguito l'era in cui l'uomo dimostra di aver acquisito gli strumenti e mette in pratica le conoscenze. Così nei rapporti con Dio, all’era della sua vana ricerca con la ragione, può far seguito quella della sua conoscenza, avendolo  ritrovato nell’esistere individuale dei figli di Dio.
  Ma quando verrà?
  Secondo le teorie  astrologiche cui si richiama anche la New Age, per la teoria della processione degli equinozi, l'umanità avanza per ere successive di 2150 anni. Con la venuta di Cristo s'è chiusa l'era dell'Ariete ed è iniziata quella dei Pesci, ci stiamo ora preparando all'avvio dell'Era dell'Acquario. Io non credo all'astrologia, posso però credervi come simbologia.
  E se stesse per venire il terzo giorno, nel quale Cristo ha promesso che sarebbe resuscitato? È vero che non si possono confondere i giorni con i millenni...È anche altrettanto vero però che il Vangelo ci dice che Cristo è già resuscitato, proprio al terzo giorno…
  Ma chi era resuscitato e cosa si intende per resuscitato se le donne non l'hanno riconosciuto, se non l'hanno riconosciuto i discepoli sul lago di Tiberiade?
  È possibile una rilettura del Vangelo alla luce del messianismo che anima l’inizio del terzo millennio? Non tanto per immaginare che Cristo possa tornare, quanto per pensare che Cristo possa finalmente venire, perchè l’uomo è finalmente diventato capace di sentire Dio e di sentirsi figlio di Dio, senza la mediazione del rito e della forma.
  Come spiegare la stranezza di questa nostra società che viene chiamata scristianizzata e laica, e che invece ripropone il vangelo degli ultimi come nessun regno cristiano aveva fatto!       Si pensi agli handicappati di cui Cristo ha voluto popolati i Vangeli, che poi sono spariti nel cristianesimo, sono stati nascosti come una vergogna,  sono stati abbandonati come segno di peccato e che oggi riappaiono in termini di pari dignità, di pari opportunità.
  Non sono evidentemente in  grado di immaginare se questa nuova era, sia imminente o remota, ritengo però non si debba escludere che possa  venire.
  Facendo il verso a Paolo credo si possa dire che se Cristo non è nato, vana è la nostra predicazione. Se però è nato ed è veramente il figlio Unigenito  del dio Unico, non può essere nato per alcuni popoli, per alcune civiltà. Dovrà venire il giorno in cui tutti lo riconosceranno e crederanno in lui!
  E forse il giorno non è lontano, se non pretendiamo che Cristo venga conosciuto ed accettato attraverso i dogmi del cattolicesimo, ma in spirito e verità, come modo nuovo per l’uomo di vivere il rapporto con Dio ed il rapporto tra gli uomini. Se non riteniamo che la nostra speranza di credere, debba per forza trovare risposta solo nel  credo apostolico e romano
  «Che cos’è la verità?» chiede Pilato a Cristo, ma poi se ne esce senza neppure attendere la risposta.
  La verità alla quale Cristo «è venuto a rendere testimonianza», è il fatto che l’uomo è figlio di Dio. Una verità sulla quale potrebbero facilmente trovarsi d’accordo tutti i popoli della terra, in una infinità di forme attraverso le quali manifestare il proprio rapporto con il padre, tutti d’accordo però sul sentimento d’amore che deve legare i figli dello stesso Padre.
  Se questa nuova era stia per venire come dice la New Age, e i tempi siano maturi perchè all’era dei pesci, (simbolo che è stato assunto dai cristiani), che ha visto solo guerre e miserie, odio e crudeltà, subentri quella dell’acquario fatta di armonia e di pace, non so. Certo che l’acquario «la figura dell’acquaiolo nell’antico zodiaco, simbolo della corrente che appaga una sete antica,  sembra essere il simbolo più adeguato», a marcare la speranza dell’uomo postmoderno, che cerca di superare l’angoscia per il nonsenso della propria esistenza.
  Ma queste considerazioni vanno oltre i limiti che m’ero imposto per la mia riflessione.


















Cap. 32
Una nuova Utopia.

  «Il mio regno non è di questo mondo» chiarisce esplicitamente Cristo a Pilato. Dopo questa precisazione, non avrebbe senso ricercare se nel Vangelo, oltre alla costruzione di un uomo nuovo, si parli della costruzione di un nuovo mondo, d’un nuovo sistema politico e sociale.
  Ma un uomo nuovo, non può non costruirsi un mondo nuovo, e dalle caratteristiche di novità dell’uomo, si può risalire alle caratteristiche di novità che dovrebbe avere l’organizzazione che l’uomo intende realizzare  per sè.
  Qualcuno ha pensato che dal Vangelo uscisse l’indicazione per una comunità degli eguali, per un comunismo cristiano. Non capisco da dove si possa trarre una tale interpretazione. I figli dell’Uomo sono profondamente diversi, gli uni hanno cinque talenti gli altri uno solo, gli uni si smarriscono, gli altri restano sempre fedeli. La comunità degli uomini non può non tener presenti queste diversità, può porsi l’obiettivo di ridurle,  non può porsi l’obiettivo di eliminarle.
  Ma la comunità degli uomini è allo stesso tempo comunità dei figli di Dio, che si regge su un unico comandamento: «amatevi gli uni e gli altri come io vi ho amato».
  Anticipando in qualche modo il tema, ho parlato della possibilità di una nuova era di  democrazia fondata e giustificata nell’ispirazione cristiana. Io sono convinto che solo l’aggettivo renda possibile il sostantivo. La democrazia infatti è stata giustamente definita il più imperfetto dei sistemi politici. Nella piramide dell’umanità, è  il sistema che consente alla maggioranza dei peggiori, di comandare sulla minoranza dei migliori, facendo in modo che sia la base e non il vertice a guidare la piramide. L’unica variante è nella demagogia, che si realizza quando alcuni furbi del vertice sanno organizzare il consenso, in modo da essere scelti dalla maggioranza della base.
 L’idea invece che si ricava dal Vangelo giustifica il concetto di democrazia legittimandolo e superandolo allo stesso tempo.
  Se infatti l’uomo, nella sua individualità, è figlio di Dio, l’origine del potere politico è in lui, non nel popolo. Il sistema politico che può nascere su questa premessa, è soltanto quello del federalismo nella accezione etimologica del termine.
  Gli individui riconoscono, nell’interesse individuale, l’opportunità di stare assieme. Utilizzando infatti assieme le risorse individuali, realizzando le «economie di scala» , si determina un vantaggio che può  ricadere a favore  di ognuno.
  Ma lo stare assieme implica che si definiscano delle regole per la convivenza, che si nomini chi ha il potere di definirle e di farle rispettare. Nasce quindi il «foedus», il patto tra più individui, che si accordano sul principio di accettare quel che la maggioranza ha stabilito, delegando a rotazione, ad alcuni individui  eletti, di gestire le regole della convivenza e le risorse che si è stabilito di mettere in comune, per gestirle unitariamente nell’interesse di tutti.
  Il patto nasce a livello locale, per la soluzione dei problemi della comunità locale. Ma poi le singole comunità si rendono conto che certi problemi devono essere risolti per favorire altre economie di scala e trovare soluzioni più efficienti, ad un livello superiore. Delegano quindi la soluzione dei problemi, in termini di sussidiarietà ad una aggregazione di comunità, della dimensione ottimale rispetto ai problemi da risolvere, nominando le persone incaricate della gestione della regole e delle risorse. Da un livello, che solo per capirci, potrebbe essere definito provinciale si passa ad un livello regionale e quindi ad un livello statale.
  C’e’ infine un livello di delega che deve essere sviluppato ancora: quello a livello mondiale. La globalizzazione dell’economia implica che si debbano definire delle regole e gestire delle risorse a livello mondiale.
   Ad ogni livello di delega, nell’atto stesso della delega, si accetta, riconoscendola come valore da mantenere, la diversità tra gli individui tra le regioni e tra gli Stati, ma si riconosce anche la necessità che questa diversità, debba essere ricomposta per consentire una decisione che superi le opinioni individuali. Si riconosce così nel principio della volontà della maggioranza, il criterio sul quale  si introduce la norma che deve essere accettata anche dalla minoranza.
  Utopia o soluzione possibile della convivenza tra gli uomini figli di Dio, che si lasciano guidare dall’unico comandamento, quello dell’amore?
  Il rischio lo evidenzia molto bene D.H Lawrence nel paradosso: «l’amore cristiano salverebbe l’universo, ma c’è l’invidia cristiana che non sarà mai soddisfatta, fin quando non l’avrà distrutto. Quando infatti si inizia ad insegnare l’affermazione dell’individualità alle grandi masse popolari, le quali, qualunque cosa si dica, sono formate di esseri difformi, incapaci di una totale soggettività, allora si finisce con il produrre degli invidiosi pieni di rancore e di rabbia».
  La soluzione del Vangelo di Giovanni, è nella preghiera di Cristo al Padre nell’ultima cena. Ut unum sint. Ti prego perché siano una cosa sola come io e te lo siamo.
  Non è neppure per Cristo quindi, un dato acquisito e scontato. Anche per lui è una aspirazione. Ma c’è motivo per ritenere che i tempi per il realizzarsi di quell’aspirazione siano maturati. L’uomo può riuscire ora capire che l’amore non è negazione di sè, che non c’è contrapposizione, tra la propria volontà di potenza e l’amore con il quale si rapporta con gli altri.
  Paradossalmente l’amore è un atto di estremo egoismo, perché nulla come l’amore realizza l’individuo. Per questo l’amore può cancellare l’egoismo e l’invidia, e sull’amore si può concepire una nuova  società mondiale.
  Forse si stanno sviluppando oggi le condizioni perché possa essere superata la maledizione di Adamo e l’uomo può cominciare ad utilizzare nel suo interesse, e non contro se stesso, il vantaggio acquisito della conoscenza del bene e del male.




















Cap. 33
L’Apocalisse.

  Le considerazione che si sono fatte, sulla possibilità che si apra una nuova era per l’umanità, e quelle sulla possibilità per l’umanità di trovare un nuovo modo di organizzarsi, a mio avviso, ci permettono di concludere questa serie di spunti, tornando a Giovanni.
  Si e’ esaminato diffusamente il suo Vangelo, si sono richiamate anche le epistole, ma a lui viene anche attribuito il libro più strano ed incomprensibile del Nuovo Testamento: l’Apocalisse.
  In verità molto si è discusso e si discute se il Giovanni dell’Apocalisse sia lo stesso del quarto Vangelo. Chi sostiene che si tratti di due persone diverse, lo fa anche sulla considerazione che i testi sono troppo differenti, per essere ricondotti alla stessa persona. Io credo invece che l’autore possa essere lo stesso, perchè mi pare logico che Giovanni il quale aveva cominciato ricordandoci che «in principio erat Verbum», concluda profetizzando la Nuova Gerusalemme.
  «Questo libro», così si apre l’Apocalisse, «contiene la rivelazione che Cristo ha ricevuto da Dio, per far conoscere ai suoi servitori, quel che tra breve deve accadere. Gesù ha mandato il suo angelo, al suo servo Giovanni, per farglielo sapere».
  Se diamo un valore relativo all’espressione «tra breve» e andiamo a cercare il senso profondo della visione profetica di Giovanni, troviamo la descrizione, resa attraverso immagini fantasiose, di quella che è stata in questi duemila anni  l’umanità,  malgrado Cristo.
  Cristo è venuto a salvare l’umanità, ma la rivelazione è (apocalisse è sinonimo di rivelazione) secondo Giovanni, che prima dell’affermarsi della salvezza, nella nuova Gerusalemme, si dovrà passare attraverso i sette sigilli, le sette trombe, le sette coppe e la nuova Babilonia.
  Al di là dei simboli, parlando dei  sigilli che si devono aprire, è chiaro il riferimento ad una periodo nel quale «la pace è sparita dalla terra e si è lasciato che gli uomini si scannassero tra loro» e gli abitanti della terra «muoiono attraverso  le armi, le carestie e le epidemie».
  Le trombe annunciano a ripetizione la morte d’un terzo di quanto vive sulla terra, ed il succedersi di flagelli. Le coppe infine vengono versate sul mondo e rendono il mondo invivibile, e «tutti gli animali che erano nel mare morirono, il sole si fece ardente per tormentare gli uomini con il suo calore, l’acqua dei fiumi divenne sangue e i fiumi si prosciugarono».
  Se Giovanni voleva anticipare profeticamente la storia dell’umanità dopo Cristo, s’è certamente avvicinato alla realtà! Infine, nella sua visione, il mondo diventa una nuova Babilonia dominata dalla «grande prostituta a cui si sono prostituiti i re della terra e tutti gli uomini della terra».
  Ma Babilonia sarà distrutta, e dal cielo scenderà una Nuova Gerusalemme. Nella nuova Gerusalemme confluiranno  tutte le nazioni, e avremo finalmente il mondo di  pace, per il quale è venuto al mondo, il figlio di Dio.
  Il riferimento, con l’immagine della nuova Babilonia ad una società nella quale avranno valore solo il denaro  ed i beni materiali è abbastanza scoperto, come è scoperto che, con l’avvento della Nuova Gerusalemme si immagina l’avvento d’un nuova società, con un diverso modo di organizzarsi della comunità umana, su una diversa scala dei valori.
  È questa nella quale viviamo, la nuova Babilonia? È quindi prossimo l’avvento della Nuova Gerusalemme? Non so. Tanti nella storia, in tanti momenti, hanno pensato di vivere nella nuova Babilonia.
 Forse è anche possibile ricostruire la storia di questi due millenni vedendovi lo sviluppo passo per passo della profezia di Giovanni, come è possibile adattare le profezie di Nostradamus, e giungere alla conclusione che sì, la nuova Gerusalemme è vicina.
  A me interessa solo concludere, ricordando che Giovanni immagina alla fine, questa nuova Gerusalemme, caratterizzata da «un nuovo cielo ed una nuova terra» che diventerà «l’abitazione di Dio tra gli uomini, essi saranno suo popolo ed egli sarà «Dio con loro». Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi. La morte non ci sarà più. Non ci sarà nè lutto nè pianto nè dolore.» E Dio disse: « A chi ha sete io darò gratuitamente l’acqua della vita. Io sarò  loro Dio ed essi saranno miei figli».
  Giovanni apre il suo Vangelo con la rivelazione che ognuno di noi può diventare figlio di Dio, chiude la sua Apocalisse con la visione d’un mondo, nel quale Dio non è più esterno ma è «Dio con loro», o forse meglio «Dio in loro».
  Se il traguardo sia prossimo o lontano non ha importanza. Credo sia comunque una prospettiva verso la quale ha senso camminare, sia sul piano individuale che sul piano collettivo.
   Non in diverse processioni schierati dietro a diverse croci e diverse bandiere, perché, ha detto Cristo:  «Viene il momento in cui l’adorazione di Dio non sarà più legata a questo monte o a Gerusalemme; viene un ora, anzi è già venuta, in cui gli uomini adoreranno il Padre guidati dallo spirito e dalla verità di Dio».
 


Conclusione.

  Ci si può porre il problema di come concludere solo se ci si era posti l’obiettivo di arrivare a delle conclusioni. Ma in questo caso, come si è detto nell’introduzione, la  migliore conclusione potrebbe  essere lo stimolo a proseguire.
  L’insoddisfazione del lettore è la stessa dell’autore che non è riuscito ad andare oltre degli appunti, esposti alla rinfusa.
  Ma forse questa insoddisfazione unita al desiderio di approfondire la ricerca per conto proprio, può essere un risultato tutt’altro che irrilevante.
  Autore e lettore sono presi dallo stesso desiderio di ripartire da capo e riscrivere tutto, rivedendo certe affermazioni, sviluppando e approfondendo i concetti. D’altra parte se l’approccio a Dio deve essere in termini di conoscenza continua, se l’approccio al mondo deve essere in termini di divenire, anche questa riflessione non può non essere in un continuo divenire.
  Qualcuno può giudicare  la mia riflessione fredda. Ma voleva essere soltanto una scintilla. E la scintilla non ha calore. Dalla scintilla può nascere un fuoco, ma io non ho voluto accendere nessun fuoco. Se l’incendio si sviluppa o meno, dipende dal terreno su cui la scintilla va a cadere.
  Qualcuno può accusarmi d’aver avuto la presunzione di riscrivere il cristianesimo. Al contrario io non credo ci possa essere un cristianesimo, come non credo ci possa essere un buddismo. Cristo come Buddha ci ha dato delle indicazioni per una strada. Ma il percorso, deve diventare  un nostro percorso!.
  Se qualcuno, dicevo nell’introduzione, alla fine del suo percorso, si ritiene pronto per proseguire assieme alla Chiesa, può entrare nella città’. Il mio percorso non può essere visto né contro né a favore della Chiesa, è un percorso fuori e prima della Chiesa.
  È, ripeto,  il percorso dell’uomo della strada, che continua a cercare, come dice Vattimo, credendo di poter credere, e comunque nella speranza di poter credere.
  Nell’introduzione dicevo che avrei cercato nella religione in particolare le risposte per superare la paura della morte. Che cosa posso dire d’avere trovato al riguardo nel Vangelo di Giovanni?
  La falce che tutte pareggia l’erbe del campo è diventata meno tagliente? La rappresentazione più usuale della morte è quella dello scheletro che, con la falce, pone termine alle vite degli uomini, come se fossero fili d’erba. Una rappresentazione spaventosa, da incubo, come incubo è per l’uomo la morte. Ogni tentativo di eliminarla è vano, riemerge prepotente dai fallimenti della scienza, riemerge prepotente dall’inconscio. Appunto come un incubo.
  La visione negativa della morte deriva però dalla visione positiva della vita. Se questa viene raffigurata come un fiore, la morte non può che essere la falce che lo recide. Ma non è corrette l’immagine del fiore! Più propriamente la vita dell’uomo, può essere riprodotta nell’immagine del seme: un periodo di vita nella terra in attesa di vedere il sole.
  L’uomo come il seme si muove nella terra, e matura lentamente fino al giorno nel quale, riesce a vedere il sole. Quando il filamento che si è sviluppato a fatica dal seme, incontra finalmente la luce del sole, è come se il seme scoppiasse, annullandosi nella sua morte, per far luogo alla pianta. Non è facile la vita del seme nella terra! A volte le scarpe del contadino calpestando la terra, lo fanno scendere in profondità annullando gli sforzi fatti fino a quel momento per risalire. E la terra calpestata è diventata dura, difficile da penetrare! A volte la terra è greve  e arida, e ogni movimento provoca sofferenza. Sembra di avanzare in un groviglio di rovi!. A volte invece la pioggia la rende molle e viscida e, come nelle sabbie mobili, cercando di avanzare si sprofonda. 
Trasformandosi, nella sua dimensione di seme, l’uomo vive nella sofferenza la sua trasformazione. Adattandosi, riesce anche in qualche modo a trasformare la sofferenza in gioia. Si convince dell’assolutezza della propria condizione di seme.
  Tutto si esaurirà nella notte della terra! E   diventerà terra lo stesso seme, marcendo. «Non ci sarà mai la luce del sole» dirà il seme nella sua disperazione. Anzi si convincerà che non c’è il sole, e che quindi l’esito della sua vita non può che essere nella disperazione della morte.
  «Nessuno è tornato a dire di aver visto il sole!» E come potrebbe una pianta tornare alla condizione di seme?
  Il problema della morte potrebbe essere posto nei termini nei quali lo poneva Socrate. O  è come un non essere nulla, e chi è morto non può pertanto avere alcuna sensazione, o è migrazione dell’anima da questa condizione terrena ad un’altra condizione.
  In nessuno dei due casi può essere considerata un male perché nel primo caso, non esiste. Come sintetizzerà efficacemente Epicuro: «quando ci siamo noi la morte non c’è, quando invece ci sarà la
morte non ci saremo noi», se invece la morte e’ trasmigrazione dell’anima alla condizione di immortalità deve essere considerata una fortuna e non un male per l’uomo.
  Cristo introduce una terza possibilità: che la seconda opzione non sia automatica ma una conquista. Da qui una storia di gente che ha sacrificato la vita per potersi conquistare la vita eterna. Da qui anche una storia di ingiustizie fatte accettare e subire con il miraggio della vita eterna. Da qui un assurdo cumulo di imposture, di indulgenze pagate. La vita  ridotta ad una scommessa sulla vita eterna.
  Ma la vita eterna si conquista in altro modo. Ognuno di noi, in quanto figlio di Dio, è  per sé, la resurrezione e la vita, e chi crede nel figlio di Dio che è in lui e  vive questa realtà, avrà la vita eterna. E’ questo il concetto che ho voluto enfatizzare anche nel titolo.
  La venuta del figlio di Dio nel mondo, non può essersi esaurita in un uomo. Cristo, come dice Paolo è stato il primo dei redenti, noi lo siamo alla stessa stregua.  Come lui è possibile che «risorgiamo» dalla carne, per vivere nel Padre in una dimensione diversa da quella della carne, come un fiore che è sbocciato dalla morte del seme, come una farfalla che nella morte della crisalide ha trovato la possibilità per librarsi nella dimensione del volo.
  Le risposte non hanno certo esaurito  il mio “bisogno di sapere”. Non so se alla fine mi sia rimasta un po’ d’acqua nei secchi, comunque ho come l’impressione di aver intravisto una strada nuova, sulla quale, assieme ad altri, forse vale la pena di provare a proseguire…




            

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